Quando Ilaria Palomba ha scritto il suo primo romanzo, Fatti male (Gaffi 2012), che venne tradotto subito in tedesco e pubblicato da un’importante casa editrice in Germania, la sensazione di tutti noi fu che avevamo trovato una nuova autrice realistica, con uno sguardo potente sul mondo. Del resto l’esordio di Palomba era avvenuto in una collana diretta da uno degli autori tipici del realismo nel secondo Novecento italiano: Andrea Carraro. Subito dopo, però, abbiamo capito che la narrativa realistica non bastava a contenere la sua poetica e le sue intuizioni. Da allora in poi sono venuti molti testi, di tipo diverso, che hanno spaziato dalla poesia alla narrativa, dalla filosofia all’indagine sociologica sulle tribù cittadine più estreme, fino all’analisi molto attenta di fenomeni psicologici. Adesso la sua produzione si è andata arricchendo di nuove opere, a un ritmo decisamente veloce, e a me – che ricordo anche con un po’ di tenerezza i suoi esordi (in fondo lei era molto giovane e io già un po’ agèe, diciamo così…) – è venuta la voglia di scambiare con lei qualche parola per sapere com’è Ilaria Palomba oggi.
Il tuo ultimo romanzo s’intitola Brama (Perrone 2020), è un testo profondo e complesso. Noi lettori pensiamo che ci sia molto di te nella protagonista, Bianca. Ma sarà vero?
Sì, molto dell’Ilaria reale e molto altro di un’Ilaria immaginaria. Volevo portare alle estreme conseguenze la follia d’amore, ribaltare tutte le banalità su femminicidio, empatia, narcisismo, egoismo: dimostrare come la donna possa essere predatrice quanto l’uomo, o che l’empatia possa essere foriera di guai, il narcisismo fonte di sofferenza per chi ne è affetto, più che per chi ne è ipotetica vittima. Da buddista, sono persuasa che l’ego sia il male dell’uomo, da lì vengono tutte le sofferenze dell’animo, e non si tratta di crudeltà ma di mancato senso prospettico. Esiste poi una Totalità, Dio, Ātman, Vuoto, o Fukyo, una prospettiva in cui l’esistenza umana è ridimensionata in relazione al Tutto, insignificante se non in base alla sua capacità di sentirsi nel Tutto. Brama, sottotraccia, è anche un vago richiamo a Brahmā: la divinità creatrice nell’induismo. Il romanzo nel suo insieme è un’iniziazione religiosa a opera di Carlo Brama, alter-ego maschile di Bianca, suo maestro e viatico nella magia della dissoluzione.
Quello della brama è un concetto che pare adattarsi alla smania contemporanea del consumare, merci e persone. Cos’è per te la brama?
Certo, c’è anche questo aspetto. In modo del tutto anarchico, e poco conforme ai movimenti di massa, sono una critica del capitalismo. L’aspetto divertente, che si può ritrovare anche nel capolavoro di Hermann Hesse (Siddharta), è che la via dell’ascesi e quella dell’edonismo si toccano, come sempre fanno gli estremi, perché entrambe giungono al vuoto. Oggi siamo abituati a una libertà apparentemente illimitata, ma capitalizzabile (sei quello che hai, hai quello che puoi comprare), ma come diceva il caro vecchio Palahniuk, e prima di lui Bauman e tanti altri sociologi, «ciò che possiedi ti possiede», quindi è completamente inutile.
La malattia dell’avere è quella dell’ego, caratteristica della nostra contemporaneità. Non ci sono discorsi moralistici da fare, c’è solo da pregare affinché l’io cambi (se non si cambia sé stessi, inutile anche solo pensare di cambiare gli altri, o addirittura il mondo). Finché si resta legati al piccolo sé, ai risultati materiali, alle categorie dell’avere, alla società della reputazione (il cui specchio deformante sono i social) si soffre, ci si ammazza anche. La brama è un po’ la volontà schopenhaueriana, e bisogna scegliere se contrastarla, al modo di Schopenhauer, o esaltarla, al modo di Nietzsche, in ogni caso si arriverà al vuoto. Converrebbe rivalutare il vuoto, sia in termini mistici che in termini quantici.
Quasi contemporaneamente hai pubblicato una raccolta di poesie, Città metafisiche, con la prefazione di un giovane poeta, da poco scomparso, Gabriele Galloni…
Gabriele era il mio migliore amico. Avevo sofferto in modo cretino, ingenuo, troppo umano perché il mio romanzo non aveva vinto premi (a dirla tutta non era neanche stato candidato), perché secondo me l’editore non ci credeva abbastanza, perché ancora dopo tanti libri mi trattano come una principiante: ego, tutte forme di brama, appunto. Ero arrivata a pensare di abbandonare ogni cosa, la scorsa estate non pensavo ad altro, avevo anche iniziato un diario in cui raccontavo tutto ciò per cui avevo scelto di separarmi dal mondo, non sarei mai stata compresa, non sarei mai stata all’altezza di essere una donna e un’artista. Ero arrabbiata con me stessa, forse anche per cose passate, violenze subite, uomini crudeli, amicizie finite senza una precisa ragione. Pensavo di essere inadatta alla vita, troppe volte ero stata massacrata, troppe volte avevo concesso agli altri di prendermi a calci, penso sia iniziato in adolescenza, alle medie, periodo in cui, prima di scoprire il sesso in modo tutt’altro che dolce, ero stata chiusa nel bagno della scuola sotto le grida festose dei compagni che, prendendomi a bersaglio, volevano sentirmi imprecare. Rimasi zitta finché una bidella non mi liberò. Piangevo chiusa in camera, non parlavo con i miei di queste piccole violenze, ma di certo mi hanno segnata, facendomi sentire eternamente sbagliata, incapace, inutile. A volte ci ripenso e mi viene voglia di nascondermi, sparire, mi porto dietro un vuoto che non so neanche descrivere. La scorsa estate, delusa da me e dalla mia incapacità di tollerare le frustrazioni, mi sentivo un peso per chi mi stava accanto. Poi, karma, destino, non so come chiamarlo, una stilettata infernale, muore Gabriele, il sei settembre. Un messaggio? Un ammonimento? Eravamo fratelli, ci amavamo come fratelli, competevamo come fratelli. Non volevo accadesse, avrei preferito andarmene io e lasciar vivere lui. Ci sono stati giorni, mesi, in cui sentivo la sua voce, e non riuscivo neanche a piangere. Sì, aveva scritto la prefazione di Città metafisiche, e io avevo recensito quasi tutti i suoi libri, c’intervistavamo a vicenda, pensavamo fosse tutto un gioco: la vita, la letteratura, la morte. Non è un gioco. L’ho capito solo adesso. Bisogna riparare ai propri errori e ai propri dolori, prima che prendano il sopravvento. Avrei preferito che il mondo scoprisse Gabriele quando era vivo, e non adesso che non può godere di queste attenzioni. È in via di pubblicazione un suo libro di poesie per Ensemble, con una mia nota in prefazione, si chiama Bestiario dei giorni di festa, sul modello dei bestiari medievali e anche sul modello del bestiario di Apollinaire, che lui amava.
Di questo sono felice. Il suo talento è enorme e penso, leggendo le sue poesie, che una parte di lui sapesse da tempo di dover morire giovane. Per me Gabriele era un mistico, un profeta, forse consapevole del suo talento ma inconsapevole delle sue capacità profetiche.
Mi sembra che tu sia molto attenta ai deboli, agli ultimi, soprattutto a chi soffre di qualche disturbo. Un tuo libro di poesie s’intitolava proprio Disturbi di luminosità. Attraverso i “disturbi” può giungere la luce?
Anche qui c’è del paradosso e dell’ironia: lavoravo in un centro diurno, ho tenuto lì un laboratorio di scrittura per tre anni, conoscevo bene le psicosi, i disturbi di personalità e tutte le patologie catalogate dal DSM-V, ma ho sempre preferito la storia personale degli individui: due persone con la stessa diagnosi possono avere esperienze di vita completamente diverse. L’ironia della sorte ha voluto che nel 2018 accadesse a me. Ovvio che non era una novità, ovvio che c’era una forma di dolore scotomizzato da tempo, ma è nell’estate 2018 che, in seguito a un amore malsano, ho fatto il mio primo tentativo di tagliare la corda. Ne ho fatti due di seguito, proprio come Bianca. Sono sgusciata dall’altra parte, ho compreso quanto è sottile la linea di confine tra sanità mentale e malattia. È un problema di identità, saldezza interiore, se non si è abbastanza saldi allora il mondo e le sue risposte possono devastarci. Quando ho scritto Disturbi di luminosità non avevo ancora fatto i conti con gli spdc, pensavo di cavarmela con la psicoterapia, ma la mia presenza, come direbbe De Martino, era labile, e l’abbandono di una persona che avevo idealizzato è stato per me fatale, ma la crisi mi ha permesso di entrare in contatto con la parte franata che cercavo di sotterrare. Sono sempre stata attenta alle diversità, al disagio, perché riconosco nelle persone ontologicamente insicure una parte di me e, sì, credo vi sia un grande dolore ma anche una luce potente; solo se la presenza è labile puoi accedere al radicalmente altro. La poesia per me non ha a che fare con il linguaggio, non solo, è quell’accesso incredibile alla luce, alla dimensione della totalità, in cui spazio e tempo sono dimenticati.
Hai intitolato uno dei tuoi romanzi, Homo Homini Virus, facendo il verso al filosofo inglese Thomas Hobbes, all’esplosione della pandemia hai pensato di essere stata profetica?
Anche qui c’è da ridere (se non da piangere), alcune persone hanno usato questa espressione senza conoscerne la provenienza, altre conoscendola perfettamente. L’idea che mi sono fatta è che già prima del virus stessimo vivendo un’apocalisse culturale senza precedenti: apocalisse della borghesia, dell’Occidente, del mondo religioso arcaico (che ancora resiste in alcuni paesi dell’entroterra, almeno nel Sud Italia, ma a poco a poco sta scomparendo). Homo homini virus era la diagnosi sociale che avevo fatto, constatando che siamo diventati più merci che uomini, più brand che artisti, più virus che persone; e concludendo con una crocifissione: il sacrificio dell’innocente.
Divertente (o tragico), se pensiamo alla pandemia, che ci ha resi realmente e non solo metaforicamente virus gli uni per gli altri, e alla morte di Gabriele che, come Iris nel romanzo, è sacrificato da innocente su un altare che non voglio nominare, potrei ma non ne ho le forze. So solo che lui era consapevole di dover morire e di doversi in qualche modo sacrificare. Ho la testa piena di visioni che sono a metà strada tra la genialità e il delirio. Vivo così, nel dubbio costante che l’intuizione sia una profezia o l’ennesimo vaneggiamento di un’outsider.
Filosofia, poesia, impegno sociale, ecc., la narrativa ti va stretta?
Sì, ci sono delle regole che non sopporto, i romanzi contemporanei non mi fanno impazzire, almeno non quelli fedeli alle regole narrative.
Amo gli irregolari, i mistici, chi ha osato e si è bruciato. Ora sto leggendo soprattutto testi di filosofia e psicologia ma a tratti leggo L’uomo senza qualità di Musil, spero di riuscire un giorno a isolarmi per un intero anno e leggere tutto Proust, ho avuto il periodo Joyce, di cui amo in particolare Ritratto dell’artista da giovane. Amo la poesia, un certo tipo di poesia: Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alejandra Pizarnik, Sylvia Plath, della Plath anche il diario è pazzesco, per non parlare del romanzo La campana di vetro. Amo alcuni scritti di Clarice Lispector, Acqua viva, in particolare, i diari di Anaïs Nin, quasi tutto della de Beauvoir.
Tornando agli scrittori direi Miller, Bernhard, Artaud, Morselli. Non nascondo di amare moltissimo i classici, tutto Dostoevskij, tutto Shakespeare.
La letteratura contiene molte forme, la narrativa e, in particolare, la narrativa americana, è solo una di queste. Letteratura è anche monologo, teatro, poesia, flusso di coscienza, romanzo saggistico, sperimentazione, libertà assoluta.
Sei abbastanza presente sui social, cosa ne pensi?
Fomentano in modo insano la società della reputazione che, da anarchica, sento di dover contrastare con tutte le forze. D’altra parte, mi sono ridotta a un eremitismo quasi claustrale, sono sui social in alternativa a essere nel mondo, sono in un luogo dove posso cancellare tutto in ogni momento, è facile, insomma, bisogna ammetterlo. Dietro lo schermo so che non devo per forza ubriacarmi per stare con gli altri. Rido. Mi viene in mente Bukowski, autore che non amo particolarmente ma di cui condivido la prospettiva.
C’è qualche autore al quale guardi nella tua scrittura?
Troppi, ma li ho citati quasi tutti nelle risposte precedenti.
Mi sembra che tu stia facendo anche letture di esordienti, ti senti talent scout?
Il blog Suiteitaliana, che gestisco con Giordano Tedoldi, è pieno di grandi talenti ribelli, puri, abbiamo scelto e editato ogni testo con cura, ci sono autori che ho amato particolarmente, altri che piacciono soprattutto a Giordano ma, devo dire, abbiamo scelto ogni autore all’unanimità. Ne cito alcuni che hanno appena esordito e altri che di certo esordiranno presto: Monica Pezzella, Michele Paladino, Gabriele Esposito, Andrea Brancolini, Alexandra Bastari, Olivia Balzar, Antonio Calabrese, Sara Verdecchia, Vittorio Parpaglioni. Abbiamo scelto di pubblicare esordienti insieme ad autori cult come Antonio Veneziani, Franz Krauspenhaar, Alfonso Guida e altri. Per ora direi che il format funziona, abbiamo parecchie visualizzazioni.
Com’è il tuo rapporto con l’editoria, il mercato, i critici, i lettori?
Mi sono iscritta alla magistrale in Filosofia per non pensarci.
La fotografia in questa pagina è di Dino Ignani https://www.dinoignani.net/