Giovanni Lucchese: “La sete… se non la soddisfi finirà per ucciderti”

"Ogni romanzo, racconto, frase e anche parola deve avere un valore diverso da tutto ciò che è venuto in precedenza" dice Lucchese

Seguo il lavoro di Giovanni Lucchese come scrittore da diversi anni, l’ho visto realizzare racconti sempre molto efficaci, duri, ma anche ironici, talvolta umoristici, sempre con uno sguardo ai miti e ai riti della nostra realtà contemporanea. Capace di affrontare senza remore anche gli argomenti legati alla sessualità e alla trasgressione, senza compiacimenti, ma come appaiono in maniera realistica ai suoi occhi. Autore talvolta surreale, pop (Pop Toys s’intitolò infatti la sua prima raccolta di racconti, irresistibile) spesso noir, con all’attivo già due romanzi (Questo sangue non è mio e L’uccello padulo pubblicati da Alter Ego), m’aspettavo che sfornasse qualcosa che li superasse per coraggio e intensità. E credo che con questo nuovo romanzo, La sete, pubblicato da D editore, Lucchese abbia posto la sua personale asticella d’autore a un livello senza dubbio più alto. E allora andiamo a esplorare questo nuovo territorio dove regna il bisogno di placare l’arsura che opprime i personaggi di questa storia. Lo facciamo, come al solito, chiedendo la direzione direttamente all’autore.


Che cos’è esattamente per te questa cosa che chiami “sete”?

Il modo migliore per descriverla è farlo usando le parole del protagonista maschile della storia. “La sete è quel bisogno spasmodico di qualcosa che non sai neanche tu cosa sia, né da dove provenga. L’unica cosa che sai è che, se non la soddisfi, finirà con l’ucciderti.”

Questo libro ha qualcosa di diverso rispetto agli altri che hai scritto?

Mi auguro di sì, dal momento che per me fare lo scrittore significa intraprendere un cammino, un percorso che non dovrebbe fermarsi mai. Ogni romanzo, racconto, frase e anche parola deve avere un valore diverso da tutto ciò che è venuto in precedenza. Ci si può muovere parallelamente, in diagonale o andare avanti. Sarebbe preferibile non dover mai tornare indietro. Scrivendo questo romanzo ho scoperto una durezza di linguaggio e una crudezza che non credevo mi appartenessero, qualcosa di primordiale che si è risvegliato in me mentre meditavo sulla storia e su come avrei dovuto scriverla.

Mi sembra che nel linguaggio ti sia spinto molto oltre, era necessario per la trama o fa parte di una ricerca del momento?

Era assolutamente necessario. Doveroso per rendere giustizia a questi personaggi divorati da una rabbia cieca. Credo che il linguaggio di uno scrittore debba essere messo al servizio della storia che sta scrivendo.  Il talento, lo stile, la maniera che si acquisisce con il tempo devono essere fluidi, malleabili. Non bisogna mai forzare la mano credendo di sottomettere un racconto alla propria voce, semmai deve accadere l’esatto contrario. Edulcorare le parole, autocensurarsi in questa circostanza sarebbe stata una mancanza di rispetto verso me stesso in primis, e poi verso chiunque avrà modo di leggere il libro, Certo, non nego che alcuni passaggi siano venuti un po’ “forti”, ma ti assicuro che quello era l’unico modo di scriverli.

Sulla copertina spicca il simbolo del “Parental Advisory” come fosse un cd con contenuti troppo espliciti, è un gioco oppure c’era un vero bisogno di farlo?

È stata una decisione presa con il mio editore (Emmanuele Pilia), quando abbiamo riletto il manoscritto e abbiamo pensato che, nel caso fosse capitato nelle mani sbagliate, avrebbe potuto disturbare qualcuno. È giusto dare un’idea di cosa c’è dietro una bella copertina che, però, può sempre ingannare. E comunque mi sono sentito per un attimo un rapper di successo, con quel bollino in copertina. Ho pensato anche di tirarmela un po’.

C’è sullo sfondo una città terribile, una Roma spietata e crudele…

Roma è dove, almeno finora, ho ambientato tutte le mie storie. In questo caso non è la città affascinante e caotica, piena di contraddizioni e di meraviglie che conosciamo bene. Qui ho voluto rendere l’aspetto freddo e spettrale delle strade di periferia, il vuoto che si percepisce in certi quartieri deserti di notte, ma anche le vie del centro, che in questo caso diventano il teatro della perdita, da parte della protagonista femminile, della sua lucidità mentale. E’ uno sfondo anonimo, le persone passano senza fermarsi, sono fantasmi senza volto, ombre. E’ uno scenario lugubre.

È anche un romanzo sulla normalità e sulle perversioni? C’era qualcosa che volevi dire?

Come sai sono molto attratto dal lato inquietante e misterioso di certe persone che incrociamo per strada. Uno sguardo triste, qualcuno che parla da solo, quello che cammina a testa bassa con l’andatura da plotone di esecuzione. Mi chiedo sempre quale sia il loro percorso, cosa stiano pensando, in che modo la vita li abbia portati a mostrarsi agli altri in quel modo. Direi che questo è un romanzo sulla normalità delle perversioni, su quello che accade a queste persone, e anche a molti di noi, una volta che la porta di casa si è chiusa alle loro spalle. Quali demoni si nascondono nel nostro armadio e quali armi usiamo per combatterli? Personalmente credo che nessuno di noi, se venisse osservato attentamente, possa essere definito “normale”.

È un concentrato di rabbia, contro chi?

Contro tutto. I miei protagonisti sono al punto in cui la rabbia, o se vogliamo “la sete”, ha preso il sopravvento su ogni aspetto della loro vita. La vivono in modo diverso, lui ne viene travolto come da uno tsunami, ne è schiavo, mentre lei la cavalca come un’arma di distruzione puntata contro chiunque le capiti a tiro, ma il sentimento è lo stesso.

Quanto c’è di vero in queste pagine, voglio dire, le persone che descrivi le hai conosciute? Le conosci?

Se ti rispondessi sinceramente forse mi beccherei qualche querela. Scherzi a parte, scriviamo sempre di quello che conosciamo, anche se ogni cosa viene poi “romanzata”. Diciamo che conosco i personaggi della storia e le situazioni che vivono, ma diciamo anche che mi sono inventato ogni cosa.

“Avanzare nelle tenebre”, scrivi… È il destino umano?

Spero di no. Mi conosci, sono solare e ottimista e, tranne in questo romanzo, cerco sempre di vedere la vita indossando gli occhiali dell’ironia. Qual è la prima cosa che fai quando entri in una stanza buia? Cerchi l’interruttore della luce, giusto?  Ecco, è esattamente quello che bisogna fare nella vita. Cercare la propria luce, qualunque essa sia, accenderla e non lasciare mai che si spenga.

C’è anche una feroce critica della ricchezza, secondo te i ricchi sono destinati a essere “cattivi”?

Guarda, non credo che i ricchi siano più cattivi dei poveri. Magari lo sono entrambi in modo diverso. Ognuno sfrutta le armi in suo possesso quando si tratta di cattiveria. Una persona ricca ha, ovviamente, molti mezzi a disposizione per manifestare la propria crudeltà, ed è esattamente quello che fa la protagonista femminile del romanzo. Ma si può essere feroci anche senza un soldo in tasca. Non credo che tutti i ricchi debbano essere cattivi, almeno io cercherò di non esserlo quando incasserò il mio primo milione di euro.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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