OBBLIGO O VERITA’

"Quindi niente, il mio segreto è che mi sento anch'io un po' pesce con le ali che vorrebbe volare via dal mare per annusare le stelle."

In fondo non è che volesse proprio volare davvero. Avrebbe voluto dire questo, Paolo, ma aveva la lingua incollata al palato secco, e poi era già nell’abitacolo con Martin Con-L’accento-Sulla-I e lui si sentiva l’alito pesante di quando gli si torceva la pancia: insomma, uccidere qualcuno che stava già spulsantando l’accensione della Bestia, magari no. In fondo quaranta minuti sarebbero volati, non sono manco un ventiquattresimo di giorno.

Nel momento di preparazione teorica, un pilota l’aveva avvisato che avrebbero preso molta velocità prima di salire, ma – Vibra tutto non mi sento più i denti si sono polverizzati C’ho la faccia attaccata ai capelli Porcaputtana Fatemi Scendere.

Martin, l’istruttore italo-venezuelano dalle basette più storte di questo continente e quell’altro, avrebbe dovuto spiegargli uno per uno tutti i tasti che premeva, e invece spulsantava senza un commento e si sentiva solo rumore, rumore tipo l’essere risucchiati da una enorme OOOOOOOOOOO che dissolveva tutto quello che arrivava al centro del suo segreto gutturale. E intanto Paolo, ormai ridotto tutto a una bocca cucita in cui si decomponeva il suo rimorso per essere salito a bordo, – Ma perché questo non parla Eccoqua l’ho ucciso ho toccato io qualcosa che non dovevo Come si spegne sto coso ora muoio come uno stronzo che doveva fare l’eroe solo perché – Perché porcaputtana, perché?

Dicono che quando stai per morire ti vedi scorrere la vita davanti come in un film. Il film di Paolo si era inceppato in un loop che all’infinito proiettava il malaugurato momento in cui, giocando a obbligo o verità con quei quattro amici più stronzi di lui, Valentina gli aveva chiesto di rivelare un segreto che non sapeva nessuno. Era così carina, con i ciglioni lunghi lunghi che sbattevano in attesa forse che lui le dicesse Voglio stare con te; ma Paolo voleva essere sicuro, e quindi invece attaccò il pippone su Lindbergh, sulla canzone di Fossati che lo aveva fulminato da bambino, sulla storia di questo aviatore che aveva viaggiato in solitaria per un fottio di ore da New York a Parigi, su come lui non aveva mai chiesto nemmeno un modellino di aereo per non far preoccupare quella povera mamma sua che le veniva un coccolone solo a pensare che suo figlio poteva inciampare nei lacci delle scarpe, rompersi un braccio e morire. Già sognava di quando sarebbe stato abbastanza in intimità con Valentina da dirle tutto di lui, ma per il momento era abbastanza e si limitò a uscire di scena con una chiusa a effetto: “Quindi niente, il mio segreto è che mi sento anch’io un po’ pesce con le ali che vorrebbe volare via dal mare per annusare le stelle.” Standing ovation.

Quindi niente, sei uno stronzo e aveva ragione mammà quando hai aperto il regalo davanti a lei e quella davanti a loro ha detto: “Lezione prova di CHE? Provaci e ti diseredo!” Aveva ragione lei, lei lo aveva capito che quello era tutto un modo dei suoi travirgolette amici per dirgli che un neolaureato al DAMS è meglio morto che disoccupato.

Il film della sua vita si interruppe bruscamente quando le ruote davanti si staccarono da terra e la Bestia sbandò: ma Martin l’aveva capito che stavano per morire, con un accento bello grosso sulla I? Aveva i basettoni malamente incurvati in un beato sorriso, pareva il pianista di un western pezzotto che suonava in un bordello una musica che capiva solo lui. E visto che a Paolo non spiegava niente, lui se ne andò di sopra, in camera con la più bella del paese che sbattendo le sue ciglia lunghe lunghe lo mandava tra le stelle mentre la Bestia si arrampicava sempre più su, scalava il nulla e una luce sempre più forte lo stordiva, e quando guardò in basso – Ma veramente dove stavano prima c’era così tanto verde? Le cose erano minuscole ma si riconoscevano ancora, erano tantissime, e chi avrebbe mai saputo dell’esistenza di quel macchinino celeste in marcia, se non si fossero allontanati tanto da terra.

“Esto è tutto, stai volando.” Bravo Martin, effettivamente questa era la cosa più difficile da comprendere, l’unica che valesse la pena spiegare. Paolo stava volando. Cioè, era sospeso nel vuoto, e non moriva. Era un pesce con le ali, e ora sapeva con certezza che le stelle odoravano di pancia annodata.

L’atterraggio fu un altro momento di quelli in cui il tempo aggiunge ore ai secondi: riusciva a vedere chiaramente sua mamma, le braccia protese a cercare di afferrarlo al volo per salvarlo da Martin che poteva prendere male le misure, o magari si rompeva una rotella, o l’aereo inciampava e faceva una capriola, sempre con lo stesso finale che poi morivano tutti. Fortunatamente, la percezione degli spazi dell’istruttore funzionava molto meglio sul macro che sulla superficie del suo viso, e con delicata fermezza furono a terra nel tempo di un sussulto. Fermato l’aereo, Paolo si trascinò barcollando al bagno, con l’urgenza di sciacquarsi la bocca. Sul lavandino, scritto col pennarello nero nel rettangolo di muro più chiaro dove doveva esserci stato uno specchio, qualche appassionato cinefilo aveva lasciato una massima di vita:

“Il pannello per i non classificati è nel bagno delle signore”.

Ricevuto.

Paolo doveva combattere per il suo primo posto; “Chi arriva secondo non è classificato”. Doveva guadagnarselo, il suo essere nel bagno giusto.

Prese il cellulare e si sistemò i capelli guardandosi nello specchio che non c’era.

“Pronto?” Anche dal telefono riusciva a sentire l’aria che facevano le sue ciglia sbattendo.

“In diretta dalle stelle!”

“Non ci credo, l’hai fatto! Com’è stato? Ma tua mamma come l’ha presa?”

“Ancora non l’ha presa. Mi disereda, comunque. Tanto ci pensa il DAMS a mantenermi. E’ stato bellissimo, Vale… e non so perché, ma credo che la colpa di questo regalo è soprattutto tua.”

“Era abbastanza fattibile, come sogno segreto! Poi, mo che hai imparato mi devi portare ai Caraibi tutti i mesi, che ti credi?”

“Come minimo. Grazie.”

“Grazie per cosa, per la tua povertà?”

“Wa, l’hai presa a cuore ‘sta cosa dell’eredità! Non ti preoccupare che mo la chiamo, a mia madre. Le può fare solo bene sapere che ho volato, sono sopravvissuto e sono pure felice.”

“Lo spero… più che la tua eredità, mi porto sulla coscienza lei: aveva una faccia alla tua laurea!”

“Fidati che sarà una bella botta, ma in senso buono. Ti ho mai raccontato che non dovrei essere figlio unico?”

“No…”

“Questa sorella maggiore è di quelle iperprotettive: le è bastato non nascere e io sono sempre sotto controllo.”

“Oddio, mi dispiace… non lo sapevo.”

“Non lo sa nessuno. Figurati se quella sera dicevo che il mio sogno è rompermi un braccio perché mammà non mi da il permesso di cadere!”

“Per la prossima laurea, paracadutismo.”

“Però vieni con me.”

“Io sto giù col gesso pronto, al massimo.”

“Ma se tipo adesso chiamassi lei e poi tu mi accompagnassi a bere per dimenticare?”

“Preparo il gesso?”

“Mi sa che conviene. Allora ti scrivo quando arrivo dalle parti tue!”

Mentre aspettava che rispondessero alla seconda chiamata, Paolo meditava appoggiato al muro piastrellato sulla rapidità con cui la saliva riusciva a evaporare da un cavo orale.

“Che è successo?”

“Ciao, eh.”

“Non chiami mai, è successo qualcosa.”

“Ma’, sto bene. Partiamo da questo.”

“Ma…?”

“Ma niente! Magari non è sempre male quando succedono cose, no?”

“Sciagurato. Sei andato a fare quella cosa dell’aereo?”

“Mamma. L’ho fatta. Mi è piaciuta. Ti sto chiamando perché siamo due adulti e mi sono un po’ rotto il cazzo di tenere i segreti con te manco avessi tredici anni.”

“Potevi morire. Nemmeno una chiamata per dirmi addio.”

“Potevo morire sotto il palazzo quando al bimbo del terzo piano è caduto giù il trenino.”

“Sei un incosciente! Ma a me non ci pensi proprio?”

“Certo che ti penso, altrimenti non ti chiamavo.”

“Mi chiami a cose fatte, giusto per farmi venire un infarto.”

“Mamma, è stata una cosa bella. Vorrei veramente poterti dire tutte le cose belle che faccio o vorrei fare. Ma mi sa che dobbiamo parlare un po’.”

“Stiamo già parlando.”

“Vuoi veramente parlare al telefono di cosa abbiamo tutti e due bisogno di lasciar andare?… Mamma, io non lo so come fai a campare così da trent’anni, ma non voglio che sia il mio modo, e di tutte queste cose non voglio parlare al telefono. Adesso ho chiamato solo per raccontarti una cosa bella, e vorrei non dovermene pentire.”

“…”

“…”

“Non mi sembra tanto bella come cosa, ma magari puoi venire qua a raccontarmela.”

“Dovrei raggiungere un’amica, tra un po’.”

“Sembra una cosa bella.”

“Lo spero.”

“Ti aspetto domani a pranzo?”

“A domani.”

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Sabrina Silvestri

Docente della scuola Genius, ha conseguito un Master in Medical Humanities e uno in Mestieri della scrittura; gioca con le storie e le parole in ogni ambito professionale, da quello editoriale - dopo il Master in Mestieri della scrittura ha continuato a collaborare come consulente per Bompiani, che l'aveva selezionata per il tirocinio formativo - a quello artistico. Lavora come clown socio-sanitario e conduce laboratori teatrali per bambini. Ha pubblicato racconti per le riviste letterarie "Fritz" e "Mosse di seppia".

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