La scelta del tempo verbale

Una cosa piuttosto importante nella scrittura di un romanzo o racconto

Una cosa piuttosto importante nella scrittura di un romanzo o racconto è la scelta del tempo verbale. Cioè decidere se raccontare al presente, al passato prossimo, al passato remoto, all’imperfetto… (Io vado, Io sono andato, Io andai, Io andavo). Se scegli il Presente opti per una sorta di presa diretta, cioè per la massima velocità espressiva.

Il passato prossimo vediamolo come una misura intermedia fra presente e passato remoto. “Sono andato a nuotare nelle prime ore del pomeriggio”, per esempio: sentite che qui c’è già un’attesa, un ritardo della comunicazione, un prendere tempo. Il passato remoto suggerisce un sentimento malinconico, come avvolto nelle spire del ricordo. “Luciana volse lo sguardo verso la pineta…”. La scelta insomma non è facile e dipende da alcune variabili: il tempo storico, il tipo di racconto, il luogo geografico… Al nostro sud per esempio il passato remoto sostituisce spesso il passato prossimo nella lingua parlata e chi scrive può scegliere di tenerne conto soprattutto nel parlato.

Di solito il passato remoto serve a stabilire un primo piano del racconto, mentre per lo sfondo e per le situazioni del passato si usa l’imperfetto. Per i flashback si usa facilmente l’imperfetto, ma si può anche usare il presente, se vogliamo proprio immergerci nella situazione del passato… e dare quasi l’illusione di una continuità fra il presente e passato. A me capita spesso di usare la formula del flash-back che ti permette di approfondire meglio il carattere del personaggio, gettando un ponte nel suo passato.

Proprio come abbiamo visto per il punto di vista, qualche sconsiglio fa, si può anche scrivere tutto un racconto, o perfino tutto un romanzo, in un certo tempo verbale e poi accorgersi che abbiamo sbagliato. E che vale la pena riscriverlo tutto in un tempo diverso. E cambiare il tempo verbale (o meglio i tempi verbali, perché il tempo verbale può cambiare da capitolo a capitolo, e perfino da periodo a periodo…) è un’operazione non del tutto indolore da un punto di vista della sintassi. In generale comunque conviene mantenere uniforme il tempo verbale in un racconto altrimenti si rischia di perdersi, e di disorientare chi legge. Cambiamo il tempo verbale solo se ciò è davvero necessario nello sviluppo dell’intreccio.

Il tempo di un film è presente per definizione. Un presente che equivale a un “presente storico” in quanto ogni azione, anche se passata, ci viene presentata nel suo svolgersi, cioè al presente.

Anche il tempo, come lo spazio, nel cinema diviene convenzionale visto che può essere rappresentato in modo frammentato, dilatato ecc. Se entri che il film è già iniziato per esempio non sai se si sta raccontando al presente oppure al passato.

Vi suggerisco questo esercizio: scriviamo un breve racconto al presente e poi lo cambiamo al passato prossimo o al passato remoto e vediamo che effetto ci fanno le diverse versioni. E quale alla fine si mostra quella vincente.

Arrivederci alla prossima, al prossimo Sconsiglio, amici neo-scrittori, passate una buona settimana…

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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