STEFANO DAL BIANCO su e dentro la poesia

Quando e con quali scelte radicali si smette di tacere e si decide di prendere la parola?

“Tradendo nel ricordo / tradendone il ricordo”

Platano

Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare,
tradendo nel ricordo come se lui non esistesse, veramente
platano di rami e foglie nella luce.

Come dimenticarlo

Descriverlo, accettare le metafore, perfettamente sufficienti, indifferenti in apparenza ma vive del suo sguardo, morte del suo splendore, del male che le fa differenti e lucide di sé. E complimenti al platano e addio alla passeggiata, di chi per un momento ha creduto
di vederlo e l’ha dimenticato.

Ricostruirlo come nuovo

Ritornare sul prato come in cerca di qualcosa che non è più albero,
non più albero di me e di te che mi leggi e non stai sul prato,
e senza amore immagini quest’albero, senza riserve di realtà.
Chiederti di venire senza fissare appuntamenti,
chiedere insieme distrattamente
con la sola energia che ci è concessa
un posto libero nel prato, di fronte al mare,
non lontano dalla stanza dove tutto è raccontato.

[da Ritorno a Planaval, Mondadori / Lo Specchio – Milano 2001]

“Platano” è un testo significativo di Stefano Dal Bianco per almeno due ragioni: è una poesia ed è una riflessione sulla poesia. O meglio su come la scrittura, appropriandosi, con lo strumento della parola, delle cose, cioè nominando gli oggetti e creando trame di relazioni tra essi, le neutralizza mentre le pone al centro dell’attenzione. In questa direzione ad esempio, tralasciando il resto del componimento in tre parti, esaminiamo la frase: “tradendo nel ricordo” che può suonare anche, “tradendone il ricordo”– il senso di quel passaggio, in chiave linguistica o puramente sonora (e sonante) si apre a un’ambiguità polisemica, che è un gioco ed è un esempio di come il linguaggio crei slittamenti di senso che modificano il contenuto – che si fa nel suono e nella forma del linguaggio.

Come lo stesso Stefano Dal Bianco ha annotato in “Un autocommento” (2005, inedito poi apparso nel numero 73/2016 di Nuovi Argomenti), “Platano” è una poesia sul rapporto tra percezione, esistenza e scrittura”: “Mettersi a scrivere di una cosa”, aggiunge, ”significa perderla”– qui Marguerite Yourcenar avrebbe detto, “Scrivere di qualcosa è dimenticarsene, liberarsene”. Siamo lì: “perderne l’esperienza” per Stefano Dal Bianco deriva dalla non coincidenza del “momento della scrittura”[…] “col momento vissuto”. Ricordiamo perfettamente che già William Wordsworth nella Preface alle “Lyrical Ballads” (II Edizione, 1800) aveva ricordato a tutti noi che “All genuine poetry takes its origin from emotion recollected in tranquility”, e proprio questo è un punto nevralgico nel costante lavoro critico e di analisi anche dei propri testi che Stefano Dal Bianco va svolgendo fin dagli anni Ottanta, anni altrimenti di svolta nella poesia italiana. Perché Stefano Dal Bianco è ad un tempo poeta e critico in quanto autore in proprio e studioso accademico, allievo di Pier Vincenzo Mengaldo. Tutte le note critiche cui farò qui riferimento sono radunate in un prezioso volume edito da Quodlibet nel 2019, “Distratti dal silenzio – Diario di poesia contemporanea”. Un libro estremamente di valore perché da un lato, in senso cronologico, segue e ricostruisce l’evoluzione degli ultimi abbondanti 30 anni nella poesia italiana e in senso più strettamente critico pone alcune questioni nodali sulla scrittura poetica e su come forma stile e lingua agiscano da un grado minimo a una serie di ulteriori gradi in una certa scala ipotetica sui contenuti e sulla poetica.

Io sono nascosto dalle piante, ogni giardino

copre altre persone, e io conosco male

chi cammina con il vento sulla strada.

Di notte la casa è scoperchiata

e con il buio entra la polvere

e io sento precisa la mia vita.

***

Conoscimi quando si ferma l’estate

o si rallenta in un sogno del pensiero.

Mentre io fingo il mio consenso

conosci dove più alta è la città

più profonda la pelle dell’anca.

Là metti le mani nude.

In queste due strofe (o stanze), tratte da “Stanze (appunto, ndr) del gusto cattivo” (1991) – seguite a “La bella mano” (Crocetti 1991) –, Stefano Dal Bianco ad esempio “vede” la forzatura reciproca tra  lingua e oggetti che finisce per forgiarli nella veste poetica, cioè li “genera” come poesia. A monte di questo processo per nulla semplice né semplificabile, c’è un lungo percorso meditativo e concreto sul rapporto tra poesia e silenzio, divenuto anche un leit motiv in questi nostri incontri su poesia e poeti. Perché l’idea di fondo è sempre, costantemente, ossessivamente: come si esce dal silenzio?, quando e con quali scelte radicali si smette di tacere e si decide di prendere la parola? (apparentemente il gesto più facile di questo mondo, ma parliamo di parola scritta e di poesia). Stefano Dal Bianco ci mette in guardia dalla lirica e ci avverte che “lirica non è abbandono al canto”. L’allusione qualche riga sopra alle parole di uno dei padri anche teorici (per così dire) della poesia romantica ci torna in mente qui perché uno dei problemi analizzati da Dal Bianco nel suo volume di interventi sulla poesia in senso crono-storico è anche se siamo fuori o no dal romanticismo. Sembra una questione da poco o mal posta ma non lo è. Sappiamo che nel Novecento lo sperimentalismo e l’ermetismo sono sembrati rivolte alla poesia romantica, in realtà guardando meglio abbiamo scoperto che sono stati più tratti ulteriori (decadenti) di quella stessa temperie che non veri suoi rovesciamenti. In seguito le  avanguardie, in un paio di fasi della poesia novecentesca, sono stati momenti di sperimentazione ma ancora non una vera uscita dal romanticismo.

Tutto questo ha nel volume di Dal Bianco una doppia direzione.

Da un lato una ridefinizione di “classico”, e l’indicazione di una linea limpida e chiara che passa per Dante-Petrarca-Ariosto-Leopardi; dall’altro il suggerimento del ricorso a una lingua naturale, che coinvolge il discorso sulla forma e sullo stile, sulla necessità per i poeti di scrollarsi di dosso una “poetic diction” ma anche una posa poetica, una solennità austera, un eloquio poetico impostato. Che sono problemi generazionali! Solo chi può, per ragioni anagrafiche, buttarsi dietro le spalle l’ultimo oltranzismo formale e le avanguardie, può forse scrollarsi di dosso tutto l’armamentario stilistico che gli/le grava addosso e non cedere alla tentazione di impostarsi da poeta. Da un lato allora quei nostri modelli ci mostrano l’esempio di una “soggettività salda, monolitica e sana”, e ci indicano “il significato antropologico dello stare al mondo, la natura profonda e genuina delle cose”; dall’altra il grado zero della lingua, una lingua il più possibile naturale, ci mette nel solco della medietas petrarchesca: “al fondo di ogni lingua naturale, giace la vera mancanza”, “l’essenza della (nostra) mortalità, quindi della (nostra) temporalità: vero rimosso nel secolare uso comunicativo della lingua”. La comunicazione è nemica della poesia perché essa “ci vieta a priori, per sordità, un contatto umano non fittizio – (invece) è il nostro essere per la morte che ci unisce, ed è la consape-volezza dello scorrere del tempo che conferisce verità ai nostri rapporti”.

L’essenza della temporalità si può cogliere fermandosi. Il rallentamento elocutivo che si ottiene all’incrocio di un particolare ordine delle parole con una configurazione ritmica e un particolare assetto intonativo del verso (o della frase), magari in coincidenza con una sia pur lieve ambiguità semantica, procura una sosta, una leggera implicazione autoriflessiva nella catena fonosintattica, una difficoltà di pronuncia che di solito ha a che fare con un prolungamento “artificiale” della quantità o durata delle vocali.

Quanto minore appare la violenza sulla lingua, quanto maggiore è l’illusione sulla sua naturalezza, tanto più aumenta la possibilità, non solo di rivolgersi a tutti – cioè di rifondare la dimensione comunitaria per la poesia – ma anche di svolgere una funzione socialmente utile insinuando la dimensione del silenzio direttamente nel corpo della lingua di comunicazione e promuovendone la riscossa all’insaputa dello stesso lettore.

***

Il vetrino

Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano, inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.

È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno

lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire

lo raccolgo e lo butto»,

e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio

perché non se ne andasse o scomparisse

tra le frange del tappeto o altro.

Ma il bagno libera i pensieri e al momento

di uscire dalla stanza un’altra

memoria ne prendeva il posto,

e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni

è diventato un’ossessione, un’ossessione

all’ultimo secondo regolarmente rimossa.

E oggi mi sono impuntato,

mi sono concentrato più di ieri

e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:

è stata una vittoria graduale

di una memoria su altre memorie

Ho allungato la mano e con sorpresa

il vetro non ha opposto resistenza:

è stato docile, si è fatto raccogliere

come se per tutto questo tempo

avesse atteso me, il mio intervento.

Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere

per rispetto o per amore l’ho posato

sul nero della scrivania, davanti a me,

e scrivendo lo contemplo e raccolgo

la sua storia di cosa legata alla mia,

e uno stesso appartamento ci contiene.

Sono orgoglioso di averlo salvato

e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.

Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte

lo metto all’aperto e me lo guardo

perché c’è la luna, perché ritorni,

nella chiara altezza di cobalto, il cielo.

***

Lenzuola

Ho due lenzuola vecchie di vent’anni
e una federa a fiori
che tengo in casa per gli amici intimi,
usandole sempre ma ogni volta pensando
e pregando, temendo lo strappo
che deve seguire al lavaggio,
ogni volta congetturando
un utilizzo diversificato dei ritagli
come tendina , fazzoletto, come involucro antipolvere,
come sacca per le pantofole.

I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo
a vederli dormire beati
nel sudario di un passato solo mio
che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta,
grazie a loro, mi tortura.

***

Il rumore

Come quando si è concentrati su qualcosa

– per esempio la lettura di un romanzo

e un rumore sordo e secco si produce

in un altro appartamento

che attraverso la finestra aperta più robusto e più preciso

e più imprevisto di un qualsiasi altro rumore

dall’esterno giunge al timpano,

il lettore ha un mancamento e tanto più trasale

quanto più forte è l’altro mondo scritto

e più denso il sogno che conduce;

così non preparato alle figure e ai fatti della sua giornata

è colto uno che conosce

e non ascolta la sua vita.

***

Il sogno

Ho appena fatto un sogno velocissimo

di un attimo

che non ricordo cosa fosse esattamente,

o più che un sogno era un’immagine…

So soltanto che mi sono svegliato

subito con l’intenzione di fissarlo,

catturarlo nella carta

e adesso sono qui con la penna

e il sogno se n’è andato col sonno

forse da Laura che mi dorme accanto

o da qualcuno, attraversando le pareti,

o al piano sopra o sotto:

segno che non era un sogno

rigorosamente mio, era,

probabilmente un sogno vero.

[da Ritorno a Planaval, Mondadori / Lo Specchio, Milano 2001]

Proprio questi componimenti coi loro versi che sembrano discorso: da un alto mi pare aderiscano a questo programma di una lingua naturale che sia il più possibile aderente alle cose; dall’altro, specie, in “Il sogno”, registrano una impossibilità o negative capability che è il frutto dell’ineludibile scelta di un’opzione espressiva maturata come esclusione di ogni altra: la poesia metaforizza (!) la scelta in senso tematico per suscitare la nostra attenzione sulla selezione riguardante più che mai in primis la lingua. Intanto novità e originalità, sostiene Dal Bianco, sono proprio le caratteristiche romantiche più dure a morire ancor oggi (a onor del vero, un dettato così vicino al parlare comune già in sé forse può essere rubricato come novità e originalità: ci si sarebbe aspettati un linguaggio e un andamento più “poetici”, e invece qui troviamo forme della conversazione, o della confessione). L’espressione poi anzi l’espressionismo, qui chiaramente rifuggito, punta tutto su un lessico denso di contenuti: “la petulanza lessicale è specchio di falsità” – ma la poesia, la sua espressione fresca, consiste piuttosto in reti di corrispondenze e insiemi che “mettono le parole a sistema” combinando significanti.

Qual è infatti secondo Stefano Dal Bianco il rapporto tra le parole e le cose?

Intanto “le parole non parlano ma hanno un loro linguaggio e una loro ragion d’essere. […] La lingua è l’allegoria razionale delle cose.” Le parole sono lì a ricordarci (eccoci al punto) che si può stare nel silenzio”. L’uso disinvolto del linguaggio è il chiaro segno di una sordità, di un non ascolto delle cose – è scrittore, soprattutto poeta, chi piuttosto che non parlare ascolta: chi tiene banco si stona con la sua stessa voce, “la condizione di inermità di chi scrive era, ed è, fondamentale”. Quanto agli “atteggiamenti percettivi, si verifica un corto-circuito tra percezione e scrittura: la poesia è il frutto di uno scandaglio in profondità delle cose.” Si dà “l’acutizzarsi momentaneo di una disposizione distratta verso le cose.” Ma il bello è che “la distrazione non si oppone all’attenzione ma alla concentrazione, è insomma attenzione massima e contemporanea verso tutte le cose del mondo.”

Chiudo con una previsione funesta in parte già realizzata.

Al di là del bombardamento di segni da interpretare e delle gragnuole di messaggi da decodificare,  contro una “tensione continua tra desiderio di verità e disincanto necessario, costitutivo”, il rischio è il dilagare di una poesia che metta al proprio centro la comunicazione: la poesia di consumo.

Dalla gabbia

Vi sono giorni di debolezza estrema
poiché – dice qualcuno – la pressione
atmosferica di fuori,
che ha potere sui corpi, essendo bassa,
si consustanzia a noi fin dentro il sangue
con la sua tenera virtù di morte.

Ma altri vi potranno assicurare
(e oggi io sono tra quelli)
che tutto questo spossamento, in certi giorni,
non procede dall’aria né dal corpo
ma è soltanto dolore
di anime costrette,

solitudine di molti,
vuoto vissuto male,
mancanza o assenza di uno scopo.

***

Per la mattina dopo del mio amore, prima che vada al lavoro

Ho toccato la felicità stasera
solo perché ero stato via per una settimana intera
senza pensare, lo confesso, più di tanto a voi per tutto il tempo,
preso da chissà quali altri pensieri
– di spostamento, di lavoro –
mi ero come dimenticato
della mia sola fonte di sostentamento,
del mio bambino e del mio amore,
prima di aprire la porta di casa stasera.

E la stanchezza, no, non è svanita in quel momento
ma si è fidata della vostra leggerezza,

sciogliendosi per questo in noi o innalzandosi.

In questa nostra zona franca ma non senza memoria
siamo ancora nel momento in cui scrivo
e mi allontano, sì, da noi, da casa nostra ma per poco,
per quel tanto che basta a raccontare e ringraziare
di leggerezza e vita, e di dimenticanza.

***

Albori di io

Ma se nessuna cosa esiste prima
di ricevere un nome,
se senza il nome non c’è esistenza,
se una chiamata lo precede e lo crea,
che cosa sarà stato io
prima-di-essere-stato-chiamato?

Una poltiglia, un surgelato,
il vuoto, il niente, l’assoluto…

Oppure solo… solo niente, in tutta
gravità,
senza la dimensione dell’attesa…

Ma ora che sento che sono
stato chiamato e so che sono
(in qualche infinitesima parte sono),
sono un abbozzo di centro
nel regno della prima aggregazione
con memoria intermittente
di tutta la disgregatezza vera
di ciò che per brevità, di ciò che per errore,
di ciò che per dissennatezza vera
e abitudine mortale
avevamo incominciato a chiamare
avevamo chiamato io.

***

Le fasi di una vita

Adesso che siamo quasi vecchi
e abbiamo anche degli eredi
per sangue o elezione,
adesso che la maturità bussa alle porte,
non aspettata ma con un’aria già di tipico trionfo,
come se fosse una cosa acquisita, una forma
di personalità raggiunta a suon di botte,
come racconteremo noi le scelte del passato,
e del perché siamo ora qui, e non altrove?

Perché l’avvicendarsi di persone
e tutte così intime,
amici e amori
così vicini e diversi di tempo in tempo
andati persi, rinnovati, trasformati o nuovi nuovi…

Ci siamo approssimati, di sicuro,
a qualche cosa di più nostro,
abbiamo vagliato
sapendo e non sapendo
con che motivazione le persone,
ma con quale valore alle spalle,
e in nome di che cosa e perché la fatica
degli abbandoni e degli incontri?

Le parole ci sono, eccole qui:

APERTURA AUTOCOSCIENZA VERITÀ

scritte maiuscole,
da portare in fronte,
da tramandare a chi ci ama e le comprende,
da regalare in pasto a chi è diverso e non è forte,
a chi ne fa mercato,
con amore non ricambiato,
con amore osteggiato,
a chi non ce la fa
e ci saluta e resta preso e fa altra scuola.

«Mamma che presunzione!»

«Questo si crede d’essere…»

Eredi miei,
figli di una scrittura e della carne,
voi tutto ascolterete
e di tutto crescerete:
non c’è uguaglianza al mondo,
chi vede solo il vago delle tre parole vi soggioga,
chi giudica dal fango,
chi fugge dalla morte.
Noi siamo felici.

***

Essere umani

Interrogare è importante qualora si preveda l’eventualità di una risposta e qualora si preveda l’eventualità di darle credito, qualora si preveda l’eventualità di dare in noi un seguito a ciò che potremmo intravedere. Interrogare è importante qualora si preveda l’eventualità di dover dare ascolto ai barlumi intravisti. L’interrogare senza conseguenze pratiche non è un interrogare. È un gioco di criceti ingabbiati. Interrogare negando a priori l’eventualità di una risposta positiva è un vizio da poveretti. Interrogarsi sul come delle cose evitando il perché è un vizio da meccanici. Come una cosa funziona non può andare disgiunto dal suo scopo. Perché noi sempre ci spacchiamo la testa sulla funzione e mai sulla finalità? Per carità, per amore, per grazia di Dio diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo.

[da Prove di Libertà, Mondadori 2012]


La fotografia in questa pagina è di Riccardo Rinetti.

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