Randagi

Cinquantacinque chili di timidezza in un metro e sessanta di ossa.

Cinquantacinque chili di timidezza in un metro e sessanta di ossa. Due gambe secche perse dentro un paio di jeans di due taglie più grandi, stessa sorte della sua t-shirt e un 43 di adidas tarocche che il 16 settembre 2019 solcavano per la prima volta il cortile del Don Ghinelli.

Giovanni Siculo, questo il suo nome, ma in pochi lo sapevano.

“Testina di minchia”, “ciucciacazzi”, “busone” i tre soprannomi preferiti con cui David, Matteo e Christian si divertivano a chiamarlo.

Era arrivato in 3B occupando l’unico banco rimasto vuoto, accanto a Silvia, la più carina di tutta la scuola. Nessuno di loro aveva avuto il coraggio di farlo.

Giovanni e Silvia su quei banchi sembravano due piume tratteggiate, entrambi a modo loro inconsapevoli di qualcosa. Silvia della sua bellezza, Giovanni di quanto gli sarebbe costata.

David, Matteo e Christian si muovevano come fossero un solo corpo, le tre teste di Cerbero.

Arguti

Feroci

Vigliacchi.

DMC avevano qualcosa che a Giovanni mancava: l’autorità, e l’autorità o viene dal corpo o dal cervello.

Giovanni la testa ce l’aveva, ancora in divenire.

Cerbero di teste ne aveva tre, piene di nulla.

Bastarono 5 minuti a David per inquadrare quelle che sarebbero state le sorti di Giovanni dentro quella classe. Bastò il banco, proprio quello vicino a Silvia e bastarono soprattutto quelle gambe secche e senza un pelo così simili a quelle del fratello, sufficienti per detestarle.

David voleva gente forte vicino a sé, gente che gli somigliasse. Come Matteo e Christian, scelti per la loro sete di distruzione, per la noia che attanagliava le loro vite e che riuscivano a smorzare solo d’estate, quando Bologna si svuotava degli occhi dei passanti e trascorrevano le giornate a infilare petardi su per il culo dei gatti di via Zanardi, per vederli saltare in aria sbrindellati. Era per loro un modo come un altro per passare il tempo ed era per quello che per tutti erano diventati “I randagi”.

L’avevano chiamato più volte all’uscita dalla classe quella mattina.

“Giovanni!!” cominciò David

“Giooovaaanni!” insistette Matteo, senza cenni di risposta

“Testina di minchia!” aggiunse Christian, coprendo sul finire il suono della campanella. Solo allora Giovanni si girò.

“Un deficiente che si gira quando non lo chiamano per nome, ma sfottendolo a bestia è uno sfigato del cazzo! ci ho preso in pieno!” disse Christian all’orecchio di David, prendendosi meriti non suoi.

“Volevamo solo invitarti a casa oggi pomeriggio” – continuò David – “È il compleanno di mio fratello, fa una festa per i suoi 17 anni, posso dirlo a qualche amico se voglio. Ho pensato a te.”

Era nuovamente tornato sui suoi passi verso l’uscita e questo affronto a David gli aveva fatto salire la carogna. Matteo e Christian se ne erano accorti e come seguaci fedeli sferzarono a turno il colpo di grazia.

“Se preferisci ammazzarti di seghe a casa puoi dirlo”

“Poi però non andare a piangere da mammina se in questa scuola non ti caga un cazzo di nessuno!”

“Sei dei nostri?” chiuse David.

Giovanni si sfilò la maglietta fuori dai jeans, li guardò tutti e tre negli occhi un secondo e sorrise.

Quell’immaginarsi per la prima volta parte di un gruppo doveva avergli fatto accendere i sensi e dimenticare di essere stato fino a qualche secondo prima l’ultimo arrivato, la testina di minchia, il ciucciacazzi, il busone. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sbarazzarsi della sua solitudine. In 13 anni aveva cambiato 3 scuole e 3 città, l’unica figura di più simile a un amico era l’edicolante di via Mazzini che ogni domenica gli teneva da parte i doppioni delle figurine, nel giro di due settimane era riuscito ad avere Ronaldo e Dybala senza spendere un euro.

Alle 15 raggiunse la casa in cui quei tre randagi passavano ogni santo pomeriggio. David a 13 anni aveva un Mac 27 pollici sulla scrivania della sua camera, finito per diventare il loro passatempo preferito. Porn hub un parcogiochi.

A David i suoi genitori facevano mancare tutto fuorché la libertà, così credeva lui. La libertà di non studiare per esempio o quella di sfondarsi di patatine e ruttare coca cola ad ogni ora. Persino la libertà di non andare a scuola ogni tanto. La libertà di essere un ragazzino come tanti però… quella sì che gli mancava, eccome! Costretto da taciti accordi a badare ogni pomeriggio, con un misto di commiserazione e schifo il fratello paraplegico, di cui solo Matteo e Christian fino a quel giorno conoscevano l’esistenza.

Alle 15:10 il citofono suonò per la terza volta. Fu Christian a decidere che il portone delle scale condominiali si doveva aprire.

“Cazzo fai?” tuonò David

“Oh è la terza volta che suona!”

“Ti ho forse detto di aprirgli?” ribadì seccato David. “Non ti divertiva farlo aspettare ancora un po’ di sotto, deficiente?”

Christian guardò Matteo cercando un po’ di complicità, entrambi sfidarono gli occhi di David, in silenzio.

Suonò infine anche il campanello, David aprì la porta e la prima cosa che vide furono un paio di Stan Smith bianche numero 43 nuove di pacca, poi lo sguardo risalì per le gambe fino al regalo stretto tra cinque dita secche, incartato con cura, con una carta che puzzava ancora di nuovo.

“È per tuo fratello” disse Giovanni felice di porgerglielo

“Questo è il re degli scemi” borbottò Matteo rivolto verso Christian. “Qui oggi si va con un filo di gas!”

“Quando arrivano gli altri glielo do” disse David, lanciando il pacchetto sul mobile dell’ingresso.

Matteo e Christian risero forte.

“Aspetti la festa eh!” ironizzò il primo.

Gli occhi sgranati di Giovanni parlavano per lui.

“E allora andiamo!” Disse Christian, tirandolo per un braccio dentro casa.

Era già la terza volta quel giorno che Christian stava giocando a un gioco che a David piaceva poco. Il chi ce l’ha più grosso con lui non si doveva fare, ma non era quello il momento per certe puntualizzazioni. La punizione sarebbe arrivata, prima però le cose più importanti. Le iniziazioni eccitavano David, vedere gli altri soffrire era come rimettere insieme i tasselli di un puzzle che con lui erano stati spietati e a ricordarglielo ogni minuto c’erano i mugugni attufati che uscivano dalla bocca di quell’abbozzo di fratello che la vita gli aveva riservato.

“Con lui la specie umana si è fermata alle scimmie!” lo ripeteva con rabbia ai suoi genitori per rimarcargli ogni volta la colpa di averlo messo al mondo.

“Smettila David! Ivan è come te” replicava sua mamma.

Proprio per sottolineare la loro diversità quindi David aveva messo in atto la macchina della tortura.

Attraversarono il lungo e stretto corridoio di casa, Giovanni non vedeva l’ora di dare il suo primo tiro a una sigaretta. Era sicuro che sarebbe successo, ne aveva viste un paio spente sul mobile dell’ingresso e ora che David gli camminava davanti vedeva sbucargli dalla tasca dei jeans un pacchetto di Pueblo, le stesse che fumava suo padre e questo lo faceva sentire in qualche modo protetto. Alla festa non ci pensava più, sentiva che stava per entrare nel branco e gli bastava per non farsi troppe domande.

Contò tre porte, chiuse. La quarta si spalancò su un corpo. Un cumulo di nervi nudi e ritorti su se stessi. Come una bestia in cattività lasciata morire di stenti su una enorme sedia a rotelle, davanti al Mac 27 pollici. Scorrevano silenziose le immagini di donne e uomini che si penetravano famelici, mentre sulla fronte di quel povero cristo incartapecorito scendevano rigoli di sudore.

Giovanni si era bloccato sull’uscio della porta, quelle due gambe secche non riuscivano a fare un passo di più e il suo corpo stava per diventare un’altra sagoma del poligono, mitragliato dalle domande che quei tre erano pronti a sputargli addosso. Sputavano e ridevano.

“Non ci dire che non hai mai visto una figa nuda!”

“Com’è la Silvia là sotto, eh?”

“Ce l’hai già infilato?”

“Cos’è, ti si è bloccato lo sviluppo?”

Giovanni sarebbe voluto uscire da quella stanza, da quella casa, lasciarsi quelle scene alle spalle e diventare grande in un altro momento, ma forse quella era l’opportunità che la vita gli stava dando per sentirsi finalmente parte di qualcosa. Qualunque cosa fosse. Ancora una volta fu Christian a dettare i tempi. Uscì repentino dalla stanza, tornò qualche secondo dopo scaraventandogli addosso il regalo rimasto sul mobile dell’ingresso.

“Toh! adesso puoi darglielo” – disse ridendo – e poi chiuse a chiave la porta dietro sé togliendo la chiave. Matteo lo guardò compiaciuto.

“Come cazzo sei messo? – disse invece David – non era questo il momento”. “Rivestitelo” uscì appena dalla bocca di Giovanni che pensava alle betulle dei Giardini Margherita, al loro fusto alto e bianco, mentre desiderava morire o – se fosse stato più facile – svenire sordo sul parquet, come era stato per il pacco che gli avevano appena scaraventato addosso. Per sua sventura invece i suoi sensi erano tutt’altro che spenti e lo sentiva dal suo stomaco, in procinto di riversarsi, verde, sul pavimento.

“Ma tu stai bene così, vero Ivan?” chiese David al fratello, con voce languida. “Cosa dici?? ahhh dici che deve spogliarsi anche lui. Hai sentito ciucciacazzi, devi spogliarti!”

Non rideva più nessuno dei tre con gli occhi puntati su Giovanni. Lo sguardo di Christian passava dalla zip dei suoi jeans a quelle pupille impaurite.

“Cavati i jeans!” gli ordinò alitando caldo sulla sua guancia.

Si unì anche Matteo schiacciandolo spalle al muro

“Sei sordo testina di minchia?”

Giovanni freddo e pallido come il muro di quella stanza sentiva solo il suo cuore menargli anche lui forte nel petto.

“Forse vogliono vedere il mio pisello, forse vogliono vedere se è grosso abbastanza” pensava terrorizzato all’idea di mostrare una parte del suo corpo, così intima e bambina.

“Allora vedi che sei un frocio ciucciacazzi di merda?” Lo incalzò Christian spingendogli le spalle ancora più violento contro il muro.

Gli tirò giù la zip, glielo prese in mano e con il fiato di Pueblo continuò:

“L’hai mai usato per qualcosa di buono? Hai mai fatto sesso con la Silvia, sì o no?”

Riuscì a dirlo Giovanni, mentre i suoi occhi si fermarono su una scatola nera con scritto in giallo “Magnum”, 40 pezzi.

Ridevano tutti. Tranne Giovanni. E Ivan.

Li chiamavano I Randagi e Silvia gli aveva spiegato il perché. Gli aveva raccontato dei petardi e dei gatti, delle budella spiattellate sui marciapiedi di via Zanardi. Giovanni, lì, chiuso tra le 4 mura di quella stanza, aveva cominciato a crederci a quella storia.

“Senti Giovanni – prese parola David con tono improvvisamente dolce e mansueto – adesso che sei entrato in questa casa tra noi non ci sono più segreti e quello che succede qui dentro, qui dentro rimane. Dobbiamo essere sicuri però della tua fedeltà. Sei dei nostri?”

Era bravo David a parlare. Sapeva quali parole usare e come metterle sul piatto. Due parole chiave, una all’inizio, una alla fine. Quelle che a Giovanni bastarono per rispondere sì: il suo nome e ‘nostri’.

Pensava che non ci sarebbero stati petardi esplosi quel giorno, pensava che avrebbe riportato a casa le penne, pensava che forse domani gliel’avrebbe fatta pagare, che sarebbe diventato un randagio anche lui. Pensava a tutte queste cose mentre la sua testa si muoveva su e giù sul sesso di Ivan.

La povera bestia urlava in una lingua tutta sua e piangeva, il telefono di Christian riprendeva. David non vedeva.

“Sapevo di poter contare su di te Giovanni!” gli disse David mentre lo accompagnava all’uscita, lasciando indietro Christian.

I gatti per le strade di Bologna quel 10 aprile giravano indisturbati. Le stan smith di Giovanni erano un po’ meno bianche del giorno prima, ma dicono che le cose vissute siano più belle perché hanno delle storie da raccontare.

Arrivò in classe e in pochi secondi apprese del video che aveva già fatto il giro di tutta la scuola.

Corse in bagno senza una lacrima e lacerato tirò un pugno alla porta, rimase l’impronta stagliata come a marcare una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. La sua mano sanguinava ma non bruciava, non più almeno del suo fegato in fiamme. Con un calcio si scaraventò contro David, seduto di fianco al lavandino con la testa tra le gambe piegate. La testa di David rimbalzò sul muro due volte, il rumore fu assordante.

Non reagì, guardò Giovanni come i maiali guardano i loro assassini, prima di crollare nell’acqua putrida.

“Ci hanno fregato”, disse con un filo di voce.

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Giada Pari

Giada Pari lavora in radio da oltre 15 anni, oggi è autrice e conduttrice su Rai Radio2. A questo affianca il lavoro come podcast producer, realizzando progetti a carattere personale e per terze realtà. Nel 2019, grazie alla scuola di scrittura Genius, comprende che è possibile dare una forma ai propri pensieri e così inizia il suo viaggio nel mondo della scrittura e dell’introspezione. Nel podcast ha trovato il modo perfetto di unire le sue anime danzanti.

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