Si chiamava Iolanda, ma per tutti al di fuori della nostra classe era “la cicciona della III B”. Per noi era in prima battuta “Iolanda” ma eravamo prontissimi ad aggiungere: “La cicciona della classe”. Mai che dicessimo: “Iolanda, la roscia”; “Iolanda, quella riccia”; “Iolanda, quella con gli occhi azzurri”.
Iolanda la cicciona a ricreazione non usciva mai dall’aula. Se ne restava al suo banco a mangiare la merenda che le preparava la nonna: una bella rosetta col salame. Tutti i giorni. Invariabilmente. Non la mangiava con voracità, ma la assaporava con gusto, godendosi ogni boccone.
“Vedi?”, mi disse una volta in cui anche io e il mio pacchetto di cracker eravamo rimasti in classe: “Questa è la corallina. A me piace tagliata bella spessa e invece oggi è sottile sottile… Sai che significa? Che nonna ce l’ha ancora con me perché ieri le ho risposto male”.
Mi piacevano molto di più i miei cracker con una fetta del suo salame, e così quella di restare in classe divenne un’abitudine.
Un giorno, per merenda, Iolanda tirò fuori un involto diverso. Più grande. “Da oggi razione doppia”, mi disse: “Panino col salame di nonna e panino con la lonza del fornaio”. Poi dallo zainetto prese un quaderno. Glielo sfilai dalle mani. Iolanda non mi fermò, si limitò a fissarmi. Il quaderno si aprì a metà sulle mie ginocchia: “13 giugno 1991, balena”; “22 luglio 1991, vacca”; “3 agosto 1991, scrofa in bikini”. All’ultima pagina scritta c’era la data del giorno prima: “4 marzo 1994, brutta cicciona vatti a sparare”. “A questo punto, se devo andarmi a sparare, ci vado come dico io”, mi disse sorridendo solo con le labbra, mentre addentava il primo panino. Poi il suo sguardo si illuminò: “Fa’ una cosa: cerca il 15 settembre del 1991”.
Lo feci. Per quel giorno la Iolanda di tre anni prima aveva scelto di iniziare una pagina nuova: “Domani primo giorno di scuola!!! Ho già deciso: mi metto il vestito rosa che piace a nonna e le scarpette lucide. Sarò bellissima!”.
Me la ricordavo in quel vestito rosa. Non era bellissima. Era una cicciona in un vestito rosa. Ludovica si era girata verso di me e aveva detto: “Quella è Iolanda. Non sembra una maialona con quel vestito!?”. Avevamo riso, fino a farci venire le lacrime agli occhi, e avevamo passato quel primo giorno di scuola a disegnare Iolanda la maialona sul diario nuovo di zecca.
Quel giorno, in fondo alla pagina, Iolanda invece aveva scritto: “Giuro su Dio che quel vestito non lo metto più!!! MAI, MAI, MAI PIÙ”. Le parole erano un po’ sbiadite, come se ci fosse caduta qualche goccia d’acqua.
Iolanda mi guardava senza dire niente. Neanche io riuscivo a dire niente. Me la immaginavo nella sua stanzetta col vestito rosa buttato per terra, la faccia rossa per il pianto, la ciccia strizzata in un reggiseno ancora inutile e in un paio di mutandone bianche.
Le mormorai solo: “Scusa”. Lei mi fissò ancora un poco in silenzio e poi mi annuì con la testa.
Quel giorno, per me, Iolanda la cicciona divenne Iolanda e basta.
Quando le ricreazioni non furono più abbastanza, cominciammo a passare anche i pomeriggi insieme. A casa mia, a casa sua, in giro. Ovunque. Sempre assieme. Poi arrivò l’esame di terza media e l’estate. Trascorremmo lontane un mese. Io le mandai due cartoline: una dalla Svezia e l’altra dall’Umbria; lei una, dal paesino della nonna dove trascorreva sempre le vacanze. “Ninni – scriveva – non vedo l’ora che mi racconti tutto, tutto, tutto quello che mi sto perdendo. Senza di te è una noia mortale”.
Non feci in tempo a raccontarle nulla. Al mio rientro, lei non c’era più. Una malformazione cardiaca, dissero ai miei genitori. Per me le era scoppiato quel cuore ciccione che sicuramente si ritrovava in petto.
È sepolta nella parte più bella del cimitero. Bella, si fa per dire. Io vado a trovarla ogni volta che posso. Invece dei fiori le porto un panino. Con le fette di salame tagliate belle spesse.