Seguita la vita come prima
con gente in piedi, seduta,
e che cammina.
Sembra scritto in questi giorni questo epigramma, questo mazzetto fulminante di versi brevi e invece è una poesia inclusa in una delle primissime raccolte di Patrizia Cavalli, LE MIE POESIE NON CAMBIERANNO IL MONDO, titolo con cui la Cavalli, grande poeta, sembra volersi schermire, non prendersi troppo sul serio, mentre, testi alla mano, fin dall’inizio fa sul serio eccome!
Sono questi versi parte della raccolta POESIE (1974-1992 / Einaudi) come queste che seguono:
Vado in guerra lasciando una città
senza lasciarla; simulo l’eternità
portando assieme alle valigie
due cappotti.
***
L’educazione permette di mangiare
con educazione e permette
altre cose; ma se vuoi volare
le ali si hanno o non si hanno.
***
Mi darà la mano mi dirà:
“ciao bella ci vediamo”.
***
Nel cesto della biancheria sporca
riconosco l’estate,
i pantaloni leggeri le magliette.
Avevo troppa fretta di partire
per potermi fermare a ripulire
le tracce della corsa.
***
Del suo silenzio io sono invidiosa
e di come si appoggia a un davanzale
lasciando alla luce i suoi miracoli.
Sembrerebbe un ballerino smemorato
se qualche volta non sorridesse
come a scusarsi di tanta bellezza.
***
Sono malata sono malnata
e poi tanto dico sempre
le stesse cose.
Una risorsa indubbia della poesia di Patrizia Cavalli è anche questo gioco sul senso e sulla musica della lingua: basta un inserimento a procurare uno spostamento, un sottile scarto linguistico, una diversificazione (qui: malata / malnata), che può sembrare un trucchetto – in realtà quel minuscolo dettaglio permette di spalancare le porte su altri mondi che erano là giusto in attesa d’essere portati alla luce. Il gioco è frutto lieve di grazioso scarto anche qui:
Amor che fa la rima
sta un po’ meglio di prima.
Amor che rima fa
tanto male non sta.
[da DATURA, IL CONVENIENTE AMORE – Einaudi 2013]
***
Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione
dei visceri, per fuggire maledetta
e maledicendo, per serbare castità
e per piangerla, per escludere la mia bocca
dal sapore pericoloso di altre bocche
e spingerla insaziata a saziarsi dei veleni del cibo
nell’apoteosi delle cene quando il ventre
già gonfio continua a gonfiarsi;
per toccare solitudini irraggiungibili e lì
ai piedi di un letto di una sedia
o di una scala recitare l’addio
per poterti escludere dalla mia fantasia
e ricoprirti di una nuvolaglia qualunque
perché la tua luce non stingesse il mio sentiero,
non scompigliasse il mio cerchio oltre il quale
ti rimando, tu stella involontaria,
passaggio inaspettato che mi ricordi la morte.
Per tutto questo io ti ho chiesto un bacio
e tu, complice gentile e innocente, non me lo hai dato.
[da POESIE (1974-1992), IL CIELO – Einaudi 1992]
***
Non affidarti alla mia immaginazione
non ti fidare, io non ti conservo,
non ti metto da parte per l’inverno,
io ti apro e ti mangio in un boccone.
***
Oggi il mio cuore superbamente alberga
nel suo immenso malumore. Addio. Pazienza.
[-opposto e simile, dopotutto, al magrelliano “tranquillo possidente”, no?]
***
Un esempio barbaro. Uno solo.
E poi il ritorno e l’usignolo,
canta canta sullo stesso albero,
non era solo, vive, dura,
si moltiplica, ma quanto dura
un usignolo?
[-John Keats, nella sua famosa Ode, simulò la morte dell’usignolo, song-bird che simula il poeta e non può opporsi alle contraddizioni e alle crudeltà del mondo, cioè scopre di “non potere”, di “non avere la possibilità”: canta e resiste, come il Colibrì che batte forsennato le ali e non vola, resta. Qui la Cavalli apre proprio questa questione, e con precisione di lama che ricorda Emily Dickinson ritaglia il destino dell’usignolo, cioè del poeta: quanto dura?].
***
Ma qui perdiamo tempo e luce,
perdiamo corpo. Dormi!
Corpo mio, mia stagione, profumo.
A letto a letto, Macbetto, a letto!
***
Solo a sentire un verbo
che mi sembri vero
sento corrermi il sangue
alla salvezza. Come tornare a casa
e ritrovare pietosa freschezza di lenzuola.
[-solo una minuscola notazione qui per ricordare che così, di passaggio, scivolano nei versi gocce di un sangue che è anche il sangue che sparge Macbeth e imbratta le mani della sua gelida Lady, materia poetica che Patrizia Cavalli da tempo frequenta anche da traduttrice].
***
LA MAESTÀ BARBARICA
Qualcosa che mi chiama
mi chiama sempre
e non prende. E con dolcezza elastica volevo
con lento movimento
essere appresa e sciogliermi.
Come scivolando verso il caldo
come aria fredda
che muove verso il caldo
e si trasforma in vento e poi ancora
in sbalordita calma
uscire dai miei margini e raggiungerla.
Stanche divinità che mi lasciate all’anima
senza governo troppo esagerata,
voi che mi davate forme e nomi
ora anche voi indistinte vi sciogliete.
C’è al vostro una maestà barbarica
che gira nel quartiere […]
[da DATURA, LA MAESTÀ BARBARICA – Einaudi 2013]
Ma adesso esploriamo un altro versante della scrittura di Patrizia Cavalli. La prosa. Le prose.
Soprattutto scopriamo come le prose siano in dialogo costante e in poetica corrispondenza con la messe di versi, e il metodo migliore credo sia il semplice accostamento rivelatorio.
Le mani nelle tasche giuste, in alto,
trovo il felice passo marinaio,
divaricando appena i piedi infrango
il flutto duro dei sampietrini scabri.
Mi faccio vela aprendomi la giacca
contro una brezza che solo a un passo svelto
si rivela, ma che potrebbe presto
volgersi in naufragio. Mare di terra,
dove andrò di questo passo?
Viro di prua ed entro nella piazza,
mi ancoro salda in placida terrazza.
[da SEMPRE APERTO TEATRO, PER GARANZIA ANIMALE – Einaudi 1999]
E poi più nulla. Il silenzio. E nel silenzio l’alto dolore della scienza offesa […]. Come scienziata infatti si chiudeva in casa a valutare tutte le possibili ragioni per cui quel suo edificio era così d’un colpo rovinato, ma, rivisti i principî, rifatti i calcoli, struttura e fondamenta erano solide, il suo era un problema di capienza […] E allora eccola la scienza inane, l’esausta ingegneria che ciabatta infelice e non mangia, non dorme. Bisogna dunque cedere al disordine? Tutti gli sforzi fatti, tutti inutili? A nulla valgono i calcoli, le analisi, i riscontri? E le leggi? A questo era ridotta, ora che disperava di restaurare l’opera, di ricrearla fervida e infallibile. E stava quasi per sbaraccare tutto, le fantasie i progetti le ambizioni, ma proprio in quel momento, quando la volontà senza più nervi sta per darsi molle boccone alla rinunzia, e ci si affida alla santità del vuoto, da qualche parte, non si sa da dove, le giungeva il soccorso di un pensiero che, trovandosi lì senza rivali, quasi gigante faceva da padrone e con tali parole la istruiva:
Non disperare, non è tuo il difetto,
è giusto il tuo strumento, in sé è perfetto,
…se mai vi è colpa è solo nell’oggetto
la cui materia capricciosa e labile
quando l’osservi muta nell’aspetto.
Essendo percioappunto perturbabile,
il quanto e il come non determinabile,
non c’è strumento che non sia fallibile
e quindi mai saprai cos’è in se stesso
perché è lo sguardo che lo fa imprendibile.
Se tali corpi chiudono l’ingresso
negandosi alla luce del progresso
tralascia, ignora, e subito avrai accesso
al felice segreto del successo
[da CON PASSI GIAPPONESI, Einaudi 2019]
-un minuscolo appunto, qui: questo passaggio in prosa (in chiaro colloquio con i versi che lo precedono) esita in un sonetto di insolita struttura: endecasillabi in due strofe di cinque versi e quartina finale in cui lo schema di rime è AAABA / BBBCB / CCCC (verso scalino?, quarto verso in ogni strofa di cinque che è rostro verso il / insider trader del- gruppo di versi successivo?). E il tono divertito divertente irriverente irridente irredento è irresistibile.
Facciamo un altro esempio, l’ultimo, di questo gioco di specchi tra poesie e prose:
La casa. Beato chi è padrone della casa,
non dico della casa catastale, ma della casa,
della casa reale. Per quindici anni
io sono stata ospite della mia casa,,
un’ospite indesiderata. Buio,
più lampadine metto e più fa buio.
Beato chi non vede le curve, gli spigoli,
le ombre, beato chi, vero proprietario,
usa e abusa di quello che gli è dato.
Io sono in soggezione dei rigidi cuscini,
dei libri aperti, dei corridoi inutili
e feroci, dei quadri appesi, dei cimiteri
di camicie e sciarpe che in ogni stanza
io stessa ho seminato.
[da DATURA, L’IO SINGOLARE PROPRIO MIO – Einaudi 2013]
Bella, sì! Sì sì, è una bella casa! Molto scomoda però, anzi, assurda. Ecco, lì c’è il mio studio, ma ora non lo è più. È vero, sto sempre in postazione dietro quel tavolo, telefono, faccio liste di cose da fare (ho sempre molto da fare), cerco di essere diligente, ordinata, di non lasciare nulla in sospeso, passo in realtà il mio tempo a ripulire il terreno da ogni ingombro, ma questi sbocciano ogni giorno e mi sommergono. Il mio ideale sarebbe lo stato zero: non avere più niente da fare, levitare nel nulla, ridurre il tempo a una sconfinata distesa tutta mia, che sia io a occupare lui, non il contrario.
A forza di stare seduta su quella sedia, tra le più scomode della terra, e anche brutta, mi sono distrutta la schiena. […] Questa sedia sta lì non so da quanto, non so neanche se l’ho comprata io o se me l’hanno regalata. Di molti dei miei oggetti non ricordo la provenienza. Sembra quasi che ci siano sempre stati o che siano apparsi da soli. Questo gli conferisce una certa dignità. […] … a quali sogni ci costringono gli oggetti. Quali fantasticherie di perfezione la loro stolida imperfezione ci risuscita! Gli oggetti, sia chiaro, se non li sposti tu, loro non si spostano. Ma perché quella sedia sia lì, dietro quel tavolo, messa in quella posizione, Dio solo lo sa. […] Nel mio primo insediamento questo studio era la mia unica stanza e quindi quello era il mio letto. L’asse tavolo-letto è il più frequentato. Mi alzo dalla sedia, faccio due passi e mi ritrovo sdraiata. Un percorso amatissimo, lo si può fare senza neanche accorgersene.
[da CON PASSI GIAPPONESI, Einaudi 2019]
Per Silvana Grasso, autrice di ME PUDET (raccolta pubblicata controvoglia per insistente cura del filologo Gandolfo Cascio), definivo quell’unica silloge costituisce una sorta di diario di bordo o catalogo di annotazioni parallele, corse affiancate alla produzione in prosa.
Per Patrizia Cavalli, al contrario, mi sento di indicare in CON PASSI GIAPPONESI, testi in prosa che concorrono adesso al Campiello, il controcanto alla messe di versi meravigliosi, agili, arguti, sensibili e spiazzanti, che da anni l’editore Einaudi le pubblica nella ambita collana bianca. “In queste pagine, ci avverte Alfonso Berardinelli (critico puntuale e veridico), troppo a lungo rimaste inedite per distrazione editoriale dell’autrice, è scritta la morale parallela, a rovescio, di uno dei maggiori poeti contemporanei. Non propriamente narrativa né saggistica, o le due cose insieme, (troviamo in queste prose, ndr) la genialità analitica e visionaria, percettiva e sintattica che qui sorprende il lettore…”.
Se nella poesia parallela di Silvana Grasso notavamo formule accenti modi toni barocchi, sinceri e sapienziali, in queste prose “fiancheggiatrici” di Patrizia Cavalli notiamo un dettato essenziale, sfrondato, diretto, per certi versi (mi si passi l’ironia) rivolto a brutto muso, che, pure, cela una mente sontuosa: un io (L’IO SINGOLARE PROPRIO MIO, recita il titolo di una sezione di POESIE (1974-1992) che imbocca il sicuro rifugio della personificazione, si mette in scena, e si sbriglia poi in esplorazioni vertiginose del labirinto interiore (lo dico anche su indicazione della lettura di Berardinelli) e in SEMPRE APERTO TEATRO (altro noto titolo della raccolta pubblicata da Patrizia Cavalli con Einaudi nel 1999) automaticamente lo schiude a una dimensione pubblica e universale-
[-tuttavia attenzione!
Il poeta che scrivendo usa il plurale
sembra subito più vasto e veritiero.
Se poi il plurale si fa anche impersonale
accorre l’universo col cimitero.
(da SEMPRE APERTO TEATRO – Einaudi 1999)]
– senza rinunciare a un sale che ricorre (facendosene piuttosto un punto di forza, quasi marchio di fabbrica), che forgia la lingua e scolpisce il dettato: l’ironia, una chiave di distacco, a volte morbido a volte scontroso poche volte altezzoso ma sempre anche coniugato come presa di distanza, come smarcamento, e scarto rispetto ai gorghi che stregano la ‘nostra’e la spingono all’inseguimento dei molti casi di interesse umano, i cui altri due nodi essenziali (ed esistenziali) sono il corpo e l’amore.
La scena è mia, questo teatro è mio,
io sono la platea, sono il foyer,
ho questo ben di dio, è tutto mio,
così lo voglio, vuoto,
e vuoto sia. Pieno del mio ritardo.
[da SEMPRE APERTO TEATRO, LA NOTTE PALOMBARA – Einaudi 1999]
Come morta, meno che morta,
più che morta. Vivente
a due passi, scomparsa
ai miei occhi. Dio degli incontri,
ritornami amico!
***
Tu non mi hai mai parlato, parlami.
Fammi vedere il viso che si anima
e gli occhi che cercano i pensieri.
Che cosa ho visto? Ho visto.
E non dimentico.
Sappi. Lo sai.
***
Ora ho capito, tu sei davvero il mare.
Ho preso la rincorsa e mi sono tuffata,
ti ho centrata, ma senza farmi male,
tu non più bruna ma bionda, occhi cerulei,
e nuotavo nuotavo sulla sua molto
accogliente superficie.
Tu in piedi poi altamente signorile
pompaduresca con i capelli alti
e costruiti, ossequiente io a tanta signoria,
timida e distante ti guardavo, felice
sapevo che eri mia.
[da SEMPRE APERTO TEATRO – Einaudi 1999]
Ti odio perché non ti amo più,
perché non posso perdonarti
di non riuscire più ad amarti.
***
Neanche mi ricordo come stavo.
Il ricordo del male e del dolore
è un pensiero gelato,
lo sai che ti ha bruciato
ma vedi il fuoco e non c’è più il calore.
***
Ma se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d’ospedale o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una galleria; ai tuoi occhi che cedono
sotto l’invasione, all’estrema terribile bugia
con la quale vorrai respingere l’attacco
o l’infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato nell’ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti sopravviveranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?
[da POESIE (1974-1992), IL CIELO – Einaudi 1992]
È tutto per questa volta amici lettori!
E buona fortuna a Patrizia Cavalli “racconteuse” col suo CON PASSI GIAPPONESI per il Campiello 2020!
[Serata finale il cinque settembre prossimo, a Venezia]
(Fotografia di Giovanna Nuvoletti)