Io ammiravo Elvi. La ammiravo perché aveva superato i cinquanta ma non gliene fregava niente. Perché portava le camicie un po’ aperte sulle tette e le giacche con il taglio maschile che finivano con uno spacchetto sul culo fasciato dai jeans a zampa. La ammiravo per i capelli tinti arancio, lisci, con la frangetta, lunghi fino alle spalle.
Si diceva che avesse una storia con la Maretti, la prof di Storia e Filosofia. Una tipa con la voce nasale e monotona che portava quasi sempre maglioncini a dolce vita e gonne dritte lunghe fino al ginocchio, prevalentemente grigie o marroni. I capelli erano cortissimi, il viso squadrato. L’espressione sempre seria.
Ma anche delle dicerie, a Elvi non interessava nulla. Certo erano molto vicine. Quando usciva da scuola si accendeva una sigaretta e se ne andavano insieme con una vecchia Fiesta di un rosso sbiadito dal tempo. Elvi la rossa, Anna la grigia.
– Oggi sono di pessimo umore. Non ho voglia di starvi a sentire. Botta, vieni qui vicino a me, caro. Leggiamo Leopardi.
Aveva un debole per Botta, uno che a diciassette anni era già stempiato e che prendeva sempre otto ai compiti in classe. Gli riservava una forma di clemenza che lo salvava dall’impietoso sguardo ironico che rivolgeva a tutti gli altri. Elvi colpiva dritta al punto debole, ci faceva sentire gli esseri informi che eravamo. Eppure, ci lasciava sempre la possibilità della prova contraria.
Sapeva che l’ultima parola, una volta usciti da lì, sarebbe toccata a noi. Forse per questo alcuni di noi nutrivano per lei un sacro rispetto.
– Per carità, Botta. Basta con questa cantilena. Leggi malissimo. Malissimo. Vai, caro. Vai al posto.
Una quindicina di giorni dopo la Maturità, mi chiamò Benedetta.
– Andiamo a salutare Elvi. Vieni?
– Ma dove, a scuola?
– No, a casa sua.
– A casa sua? Sei pazza? Io mi vergogno.
– Ma ha detto che le fa piacere.
– Eh, forse se vai te.
– No, anche se vieni tu.
Salendo le scale, mi sentivo il viso paonazzo, bollente. Mi vedevo come al solito inadeguata. La più goffa, la più ignorante. Ero quella che “che ci faccio io qui.” Cosa avrei detto? E se c’era anche la Maretti? Che poi avevo portato Storia e all’orale avevo fatto pena.
Ci venne ad aprire la figlia di Elvi, una ragazza sulla ventina con i capelli scuri e gli occhi chiari. Ci accompagnò in salotto. Lei fumava, seduta sul divano con le gambe accavallate in un paio di pantaloni verdi. Sul tavolino, la tazzina vuota del caffè che aveva preso poco prima. Sulla parete, centinaia di libri.
– Gatta, mi fa piacere che sia venuta anche tu. Mi ha detto Anna che sei andata abbastanza bene all’orale. Gatta, fammi la cortesia, smettila di pensare che non vali niente. Sei una che sa annullarsi per gli altri. Una bella cosa, ma non esagerare. Per carità, Gatta, che noia.
Tre anni dopo fu di nuovo Benedetta a chiamarmi per dirmi che Elvi era morta. Al funerale, nella chiesa fredda e troppo grande di Santa Chiara, mi misi a sedere in un banco libero nelle ultime file. C’era la Maretti, e c’eravamo noi. Tanti, forse più di quanti lei avrebbe voluto. Qualcuno andò a leggere qualcosa dall’altare. Io pensavo ai sovrumani silenzi de l’Infinito, a lei che ci diceva di come il poeta aveva con quei versi “esorcizzato la sua finitezza”, e al rosso sbiadito della Fiesta.