A proposito del rapporto realtà-finzione, vorrei provare a farvi un esempio di “storia nella storia”, che tecnicamente si chiama “mise en abyme”, raccontandovi uno strano evento che mi capitò in banca, proprio mentre scrivevo il mio libro sullo stupro di gruppo. Userò a questo scopo la seconda persona, di cui si è parlato in uno degli sconsigli precedenti, ricordate? Una seconda che è una prima travestita… A un certo punto, mentre ero intento a scrivere tutto concentrato il momento più drammatico del romanzo, un collega della mia stanza crollò sul piano della scrivania, sulla busta paga che aveva appena ritirato all’ufficio del personale, fulminato da un infarto.
E tu – cioè io, – sei l’ultimo a capire tant’eri assorbito dal romanzo. Ci metti forse un minuto o due a realizzare fino in fondo, quando già s’era formato un capannello di persone che lo nascondono al tuo sguardo. E già qualcuno si pone il problema di cosa fare del corpo, se adagiarlo per terra o lasciarlo dov’è tutto contorto e gobbo abbracciato alla scrivania di lavoro. Come in quel celebre disegno di Goya Il sonno della ragione genera mostri che da qualche parte avevi visto, dove però sopra il capo dell’uomo volteggiavano dei mostri alati mentre qui al di sopra non ci stava che l’aria viziata della stanza. C’era un viavai frenetico di gente adesso, i paramedici del centodiciotto che qualcuno aveva inutilmente chiamato. E frotte di colleghi provenienti da ogni divisione…
E tu intanto rimuginavi su quella faccenda strana, che fra le due morti, quella della tedesca violentata, che avevi concepito, e quella del collega infartuato, fosse trascorsa appena qualche ora. E se l’una morte avesse indotto/innescato l’altra? La tua scrittura aveva dei poteri che non sapevi ancora dominare come in un racconto nero di King? Ti ponevi queste domande strane e balorde, come sempre in disparte, lontano dal mucchio vociante e operoso, osservando quasi dal di fuori la baraonda, come una macchina da presa. E con un senso quasi di sollievo dentro per quella distrazione forzata dal lavoro – anche questo va detto pure se non ti fa onore. Dall’atmosfera del lavoro nella sua rappresentazione quotidiana. Quel morto era comunque un diversivo dal mortifero ingranaggio della banca.
Continuavi a pensarci – a quello strano sincronismo fra le due morti, l’una finta l’altra vera – costeggiando la Manica lunga del Quirinale – mentre ritornavi a casa, indifferente alla magnificenza candida di Sant’Andrea del Bernini con il suo avancorpo illusionisticamente moltiplicato dalle due uniche colonnine e dalla scalinata brevissima e circolare, quasi a suggerire allo sguardo il colonnato gemello di San Pietro, un’impressione ottica fugace chissà quanto voluta, prima di un lungo muro di cinta quasi nero per la fuliggine percorso da un groviglio di spogli rampicanti e tagliato dalla cresta di una casa umbertina che sapevi ospitare un politico famoso. Lo conoscevi benissimo quello scorcio, ma non lo guardavi più che saltuariamente per via dell’abitudine, e non sempre con quella meravigliosa illusione ottica di profondità. Eri concentrato sulla morte del collega, adesso, alle prodezze architettoniche del Bernini non pensavi proprio, immaginavi il suo corpo breve, magro e tonico già adagiato dentro la cassa – certo non aveva un filo di grasso, questo lo avevi notato spesso con una quella punta di invidia che riservavi a tutti i maschi adulti che si mantenevano in forma – sapevi a malapena che nei weekend qualche volta andava a trovare la vecchia madre a Perugia e forse praticava del footing nel parco pubblico al mattino presto lungo l’argine di un fiume che non era proprio un fiume ma un fiumiciattolo. L’altro morto – la tedesca del romanzo, quella bionda e prosperosa che gli empi giovanotti, quell’orda famelica, chiamavano bisteccona, una parola che ti veniva dal Fellini della Dolce vita e oltreché dalla banca, da qualche collega sboccato, ma non importa, quel che conta è che nel tuo contesto appariva molto più degradata quella parola – non sapevi ancora che fine avrebbe fatto, la bisteccona, se sarebbe stata buttata a fiume come nel noir di Lang – Bassa marea – con quel sacco di iuta contenente il cadavere che passava e ripassava con beffarda insistenza davanti alla casa dell’assassino. A te sarebbe bastato anche un laghetto e il sacco di iuta del tutto verosimilmente poteva trovarsi laggiù, in quello sfascio maledetto, schiaffato in qualche anfratto, vuoto o mezzo pieno di qualche ferraglia. Quello che sapevi è che sarebbe morta – dopo essere stata seviziata e torturata e stuprata per ore da un sacco di uomini, – quanti?, dieci, venti, non lo sapevi ancora, coloro che partecipavano al sacrificio, ubriachi e qualcuno fatto di coca, ma sì, una specie di sacrificio rituale tribale collettivo, arcaico, barbarico, chissà come ci avrebbero sguazzato i critici, pagando ciascuno un ticket al trucido capo dello sfascio, il sor Quinto, quasi una divinità del male, una sorta di mostro terrificante e barbaro, un Kurtz inselvatichito, così te lo immaginavi, un cinquantenne grosso e ottuso, come fu poi nel film, un reticolo di capelli unti appiccicati sul cranio e sulle orecchie grosse e carnose, un toscano ciancicato fra i denti, che parlava a stento un dialetto quasi incomprensibile, come dei borborigmi animali da cui a momenti isolavi brani di insulti e bestemmie fra colpi di tosse catarrosi, sbuffate di fumo e scaracchi, colui che regolava l’accesso alla baracca dove si consumava la violenza, sapete, al riparo dagli occhi del lettore, ma gli giungevano gli strilli, al lettore, e le percosse e le minacce – e uno di loro, il più ubriaco, il più violento, il più matto, per farla smettere di strillare, o forse perché non voleva prenderglielo in bocca, ma sì, senza vergogna, senza pudori!, le aveva inferto un ultimo fatale colpo in testa con qualcosa di pesante, un randello, un lucchetto grosso, un cavetto di ferro, tutta roba che non si faceva fatica a collocare nella baracca su un tavolaccio o inchiodata al muro. La botta, tremenda, mortale immediatamente aveva fatto cessare ogni rumore dentro, trasmettendo un panico crescente all’esterno, a quell’assembramento di maschi allupati accorsi in massa al richiamo dell’orda, che avevano già consumato o si accingevano a farlo, si è detto, ma è utile ribadirlo, c’era l’idea del linciaggio forse da La caccia di Arthur Penn anche più di Furia – e dunque pure i notabili del paese, certo, l’avvocato, il farmacista, il piccolo imprenditore arricchito di trattori, di macchinari agricoli, vai a sapere, maschi adulti venuti giù dal paese a frotte con moto e macchine e pickup e anche un’ape, carica di merce qualsiasi, magari olive, sì, qualcuna l’avevi vista in giro, tutti mezzi che adesso stazionavano disordinatamente sullo spiazzo, magari con gli sportelli aperti mezzi aperti e una musica burina che ne usciva da uno stereo sparato forte tipo Masini o Ramazzotti… Ecco – eri a quel punto, con quel cadavere tumefatto dagli abusi che veniva portato fuori della baracca, trascinato da qualcuno per le ascelle, magari dallo stesso che l’aveva uccisa, e adagiato per terra in qualche punto ancora libero dello spiazzo, mentre fuori, dall’altra parte della storia, il collega infartuato stava agonizzando abbracciato alla sua scrivania, con lo stipendio stampigliato sulla guancia e una corte di colleghi attorno in apparenza affranti dolenti o forse soltanto curiosi di vedere il seguito.
In serata, a casa, riferendo ai tuoi l’accaduto, ti affannavi a definire un’identità a quel povero cristo che aveva concluso così, in quel modo teatrale e balordo, la sua esistenza terrena, un tizio che conoscevi poco, benché fosse tuo collega di stanza da un bel po’: un perugino schivo, esile di corporatura, bassino, sempre in divisa da travet, cioè, tipicamente, in giacca e cravatta, con interi o spezzati dozzinali ma dignitosi, maniaco dell’ordine e della pulizia (la sua scrivania era uno specchio, ogni tanto ci passava un certo prodotto detergente e disinfettante con lo straccio che teneva in un cassetto: le cartelline di lavoro sempre nuove e perfettamente allineate al bordo del tavolo, quasi le avesse aggiustate col righello, accanto al giornale che pareva intonso per il riguardo con cui lo trattava – nessuno osava chiederglielo in lettura, mentre il tuo era quello della puttana – e alla ventiquattrore di pelle blu scura che lucida brillava proprio all’angolo del mobile). Cos’altro sapevi di quel disgraziato? – figlio unico di madre vedova; anzianissima, già, la vedova, la madre, ch’egli chiamava al telefono aziendale ogni mattino infallibilmente a mezzogiorno; che altro?, ancora single a 46 anni, questa l’età, e destinato a restarci, dall’aria che tirava quanto a donne, se non fosse morto. Il suo nome si è perduto, Enzo forse, o Lorenzo o Daniele… Non aveva mai sofferto di cuore, a parte un soffietto diagnosticato da ragazzino, anche questo bene o male potevi riferire, ammesso che qualcuno ti stesse ancora ad ascoltare.
L’indomani si discusse un bel po’ su chi avrebbe occupato la sua scrivania vacante. Nessuno voleva, per ragioni meno sentimentali che scaramantiche, si può capire, nonostante fosse di gran lunga la postazione migliore della stanza per esposizione alla luce e riparo; credo bene, solo ieri un collega ci aveva tirato le cuoia! Alla fine ti facesti avanti tu, con l’aria di chi si sacrifica per il bene comune, in realtà al settimo cielo per com’eri finalmente riparato dalla porta. Non ti sfuggiva certo il livido simbolismo di quell’evento, nel contesto della tua esperienza, certo, e anche in un senso più universale: esisteva pure un libro così intitolato, La morte in banca, che quel senso aveva eternizzato – anch’egli bancario, l’autore, il Pontiggia, come te, ma d’un livello ben diverso: funzionario di alto livello, almeno così ti pareva, mentre il suo eroe era forse un semplice contabile, dovevi approfondire. Insomma quella morte del tuo collega poteva servire assai bene a raccontare la banca, perfino dal tuo viziato e stravolto punto di vista! Non ti sfuggiva neppure quel simbolismo nel simbolismo, quel simbolismo di secondo grado, se si vuole, della morte-sulla-busta-paga, proprio sulla busta paga, che ti pareva così raffinato e perspicuo…
Ecco, siamo alla fine: provate anche voi a raccontare in parallelo la finzione e la realtà, la cosiddetta mise en abyme, messa in abisso letteralmente, cioè la “storia nella storia”, in cui c’è la storia narrata – livello basso – e la storia che la incornicia – livello alto.
Alla prossima!