Calci di rigore sotto il monte finestra è il primo romanzo di Daniele Evaristo, ambientato nel 1966, nel paese di origine della sua famiglia, Cava de’ Tirreni. Esce in questo momento di chiusura pandemica e quindi rischia di finire intrappolato tra i tanti libri che attendono la riapertura e una nuova stagione letteraria. Sono convinto però che i suoi lettori non si pentiranno di averlo letto e magari, tramite il classico passa parola, riusciranno a moltiplicarsi. Evaristo è un sociologo di poche parole e solide letture, spesso sorridente, che ha già scritto diversi racconti. Il suo Gli occhiali magici, per esempio, ha vinto la XVIII edizione del Concorso letterario promosso dalla Comunità Evangelica Luterana di Napoli nel 2016. Mi è sembrato il caso di rivolgergli qualche domanda sulla sua bella storia di formazione.
Nel romanzo racconti la storia di un bambino, questo ragazzino ti somiglia?
Il romanzo è in parte autobiografico e in parte di fantasia. Il protagonista sono io e dunque mi somiglia molto. La parte autobiografica riguarda l’ambientazione, alcuni protagonisti a me cari e la situazione familiare; il resto è fantasia, la fantasia galoppante di un bambino.
È stato difficile scrivere la voce narrante di un protagonista così giovane? È stato difficile trovarla e intonarla?
Scrivere in prima persona è stata la sfida più impegnativa perché non volevo un libro per ragazzi con un linguaggio semplice. Contenere l’adulto che è in me per lasciare spazio alle emozioni e ai pensieri del bambino è stata una partita difficile. Mi ha aiutato il fatto che da bambino ero molto vispo e in grado di fare considerazioni più grandi di me. Per questi motivi non è stato facile trovare la voce narrante. Nell’intonarla, invece, è stato più semplice, soprattutto nei dialoghi.
Lo sfondo della vicenda è un paese ai piedi di una montagna, il Monte Finestra, appunto. Esiste davvero?
Il Monte Finestra esiste davvero. Lo sfondo della vicenda è il paese dei miei genitori Cava de’ Tirreni, Passiano è una sua frazione, e il Monte Finestra domina entrambi. Le location sono autentiche, compresa la casa che ospita il protagonista. Nella foto di copertina si vede proprio la finestra del monte.
Dice Stephen King nel suo racconto, The Body, che non si hanno mai più amici come quelli che si hanno da giovanissimi, sei d’accordo?
Stephen King ha ragione: gli amici dell’infanzia sono amici con i quali si prova a condividere ogni avventura alla scoperta del mondo, così come prova a fare Pietro, il protagonista del romanzo, con i coetanei della frazione. Gli amici che seguiranno, il mondo lo hanno in parte conosciuto e l’avventura è più limitata, così il legame è meno totalizzante.
Il tempo sospeso della vacanza sembra il momento ideale perché accadano le cose importanti per un ragazzo.
Durante le vacanze possono succedere molte cose perché si allentano i controlli familiari e perché si ha molto tempo libero. Si tratta di un tempo nel quale i desideri e i sogni provano a realizzarsi. Pietro, in quella lunga vacanza del ’66 nel paese dei suoi genitori, è particolarmente vivace e aperto. Nel libro vive esperienze che segneranno la sua vita: il primo incontro forzato con il padre, i rapporti con gli altri bambini, la scoperta della sessualità delle bambine, le luci e le ombre del mondo degli adulti, persino l’incontro con la morte di una persona cara.
Tocchi con delicatezza un tema molto duro, quello della pedofilia, nel tuo romanzo non c’è però un giudizio di condanna, come mai?
Le ombre del mondo degli adulti sono rappresentate proprio dalla pedofilia, ma il bambino di otto anni non ne ha contezza. Può essere sedotto dalle attenzioni di un adulto, ma non sa cosa possa nascondersi dietro quelle attenzioni. Anche quando vive i primi assalti del pedofilo non ne comprende il significato. Solo il dolore fisico del tentato stupro lo scuote e lo allontana dal pedofilo, ma non condanna perché nessuno gli ha spiegato cos’è. Pietro vede un maestro e quasi un padre davanti a sé e non è in grado di capire chi può nascondersi dietro quei ruoli.
Un altro dei temi è il rapporto tra padre e figlio, secondo te c’è una distanza recuperabile tra generazioni oppure sono destinate a non capirsi?
Il rapporto tra Pietro e suo padre corre lungo l’intero romanzo e si tratta di un rapporto complicato. I due sono separati dalla distanza geografica, il padre vive a Cava, mentre Pietro a Roma, dal rancore della madre per il padre e dalla superficialità di quest’ultimo: un rapporto senza speranza. Più in generale, oggi, le distanze tra genitori e figli, fatte le debite eccezioni, mi appaiono sempre più lunghe. I mutamenti sociali, tecnologici, economici e forse antropologici sono sempre più veloci e incisivi e impattano fortemente su ogni relazione.
C’è la storia di una famiglia con genitori separati, hai vissuto questa esperienza da figlio o da genitore?
Ho vissuto la storia di genitori separati e poi, tra i primi in Italia, divorziati. Una storia dolorosa, ma inevitabile vista la totale incompatibilità tra i miei genitori, scoperta a posteriori. Ricordo ancora che a scuola mi additavano come figlio di divorziati.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere questo tuo romanzo? Ci pensavi da molto?
Sentivo il bisogno di immortalare le mie uniche vacanze da bambino e di rendere omaggio alle tante persone semplici e ospitali che mi avevano accompagnato in quei giorni. L’idea del romanzo e la sua prima stesura sono avvenute durante la frequentazione della scuola di scrittura. Al termine della scuola ho rivisto il romanzo con tagli e approfondimenti, impiegando circa un anno per completarlo.
Potresti scrivere la storia del bambino di allora com’è diventato oggi? Sarebbe altrettanto interessante?
Confesso che all’inizio avevo ipotizzato una trilogia che vedeva il protagonista vivere le proprie esperienze a otto anni, a venti e a sessanta. Oggi, dopo la stesura del primo romanzo, sento il bisogno di cimentarmi in qualcosa di diverso, senza però escludere in futuro di scrivere le esperienze di Pietro a venti e a sessant’anni per mostrare le conseguenze di un’infanzia problematica.