Il foglio sopravvissuto

Non hai più tempo per pensare a morire perché tutti non vogliono smette di ridere su quello che scrivi?

Sono uno scrittore orizzontale, penso meglio da sdraiato, con una tazza di caffè a portata di mano. Sono quasi un costumista; scrivo come se disegnassi caricature. Sono un comico. Un cazzo di scrittore comico. Uno di quelli da “facce ride’!”

Diventi veramente famoso quando ti leggono quelli che pensano che sei già morto.

“Ecco… questo! Ah! Sì… non l’hai letto? Perché l’hanno letto tutti, è fortissimo, da creparsi dal ridere. Sto tizio è forte, ma è vivo? Si può incontrare? Invitare a cena? Sai che risate.”

È una faccenda malinconica essere divertente e, peggio ancora, fingere di divertirsi.

Magari sto diventando vecchio, o forse lo sono sempre stato: a tredici anni sembravo già un sopravvissuto.

Quando il carabiniere mi riportò a casa e mi sollevò la manica della camicia per mostrare a mio padre che mi bucavo, lui rise. Forse perché era americano, o magari solo perché era ubriaco. Lo feci ridere e per me già era qualcosa.

Rise la hostess che mi fece salire sul volo per New York; forse perché a tredici anni, sembravo averne dieci ed ero piccolo, leggero e anche un po’ fatto. Questa doveva sembrarle una cosa buffa.

Rise mio fratello che mi accolse all’aeroporto: “Ora ci penso io a te”, mi disse in un brutto italiano. E rideva perché stava scherzando; non ebbe mai tempo per me.

Rideva anche quel nero che parlava al microfono, nella chiesa in cui entrai diciassettenne e quasi agonizzante per tutta la robaccia che avevo rimediato nei vicoli. Raccontava che da venticinque anni non beveva più e che il pensiero ancora andava sempre lì e che lo combatteva col sorriso. Mi avvicinai e lui mi diede un indirizzo: “Ricevono il mercoledì e ne prendono solo uno. Cerca di superare il colloquio, perché al mercoledì successivo non ci arrivi di sicuro.”

Rideva l’infermiera che mi accompagnò nella camera dell’ospedale. Dopo capii che lo faceva perché mi avevano assegnato il letto vicino a Tommy e stava scommettendo con una sua collega su quanto avrei resistito.

Rideva Tommy, che non aveva più i denti.

Ridevano in tanti perché quello era un ospedale psichiatrico, l’unica struttura pubblica in cui potevi provare a disintossicarti. E infatti ridevano perché nessun tossico era in grado di riuscirci, in un posto simile.

Tommy rideva gridando e sbavando, forse per cacciare il terrore fuori dai suoi occhi. Non rideva per me, ma lo perdonavo. Non era mai a letto, né di notte, né di giorno. Stava dieci minuti in corridoio a guardare fuori dalle finestre, poi rientrava in camera e gridava: “Tornerò a casa? Mia moglie mi starà ancora aspettando? Mia figlia mi riconoscerà?”

Io rispondevo: “Sì.”

Ma a lui non bastava: “Sì cosa?”

“Sì, tornerai a casa.”

“E poi?”

“Sì, tua moglie ti sta aspettando.”

E Tommy rideva: “E poi?”

“Sì, tua figlia ti riconoscerà.”

E allora piangeva continuando a ridere. Andava altri dieci minuti in corridoio, poi tornava e la scena ricominciava sempre uguale, sempre con le stesse battute. Sia di notte che di giorno.

Se non mi trovava in camera, iniziava a lanciarsi contro le pareti fino a svenire. Non potevo neanche andare a pisciare in santa pace. Fino a che un giorno ebbi l’idea di scrivere qualcosa su un foglio e di appenderlo al muro, sopra al mio letto. Da quel momento cambiò qualcosa per Tommy e tutto per me.

Tommy stava dieci minuti in corridoio, compariva sulla porta della camera senza gridare, leggeva il foglio, si commuoveva, tornava in corridoio e rideva guardando fuori dalla finestra, sia di giorno che di notte.

Quando vennero le infermiere a vedere come mai Tommy non gridava più e io, addirittura, avevo iniziato a dormire, notarono il foglio appeso e lessero ad alta voce: “Sì, tornerai a casa. Sì tua moglie ti sta aspettando e sì, tua figlia ti riconoscerà.” Anche loro si misero a ridere e andarono a raccontare in giro che ero un burlone. Non ebbi più tempo per pensare a morire perché tutti non volevano smette di ridere e io avevo preso a scrivere. Scherzi, barzellette, battute, poi scenette per la compagnia teatrale dei matti, poi racconti. Un medico ne mando qualcuno ad una rivista, poi a una casa editrice, e mi disse che se avessi ricominciato a farmi nessuno avrebbe riso più.

Così, con gli anni, diventai uno scrittore orizzontale, con una tazza di caffè a portata di mano e un vecchio foglio appeso sopra al divano; un foglio triste, ma che è sopravvissuto perché fa ridere, un po’ come me.

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