Mio Dio… quanto assomiglia a Sveva quella ragazza! Ha gli stessi capelli a punta d’inchiostro. Le stesse mani piccole da bambina. Gli stessi occhi grandi ma dal taglio orientale. Soprattutto ha lo stesso sguardo impaurito, come se qualcuno le avesse appena fatto bubbussettete.
Non ho aperto la finestra. Sono rimasta a guardarla al di qua del vetro mentre Christian alle mie spalle non faceva che ripetere: “E il latte? È il latte? E il latte?” col tono triste ed ossessivo di Puff Daddy quando canta I’ll be missing you. Sì, in quel momento mi sono sentito molto il coprotagonista del video di una canzone rap, anche perché avevo lo zuccotto calato sugli occhi. Non me lo tolgo neanche quando vado a pisciare. Lo porto sempre, perfino in casa, perché se per caso passassi davanti a uno specchio e osservassi la mia stempiatura, me ne vergognerei molto.
Ho cominciato a perdere i capelli da quando Sveva mi ha lasciato.
“E il latte? E il latte? E il latte?” Christian insiste facendo tremare la pareti. Il suo è l’acuto di un cantante tirolese a cui hanno appena dato un calcio sui coglioni.
“Adesso te lo preparo il latte, tesoro. Aspetta un attimo. Fammi vedere una cosa.” Continuo a sbirciare dal vetro della finestra. Quella ragazza è identica a lei. Non c’è dubbio. Ha lo stesso corpicino piccolo e smunto che potrebbe volar via al primo soffio di vento. Ha lo stesso seno florido, rigoglioso. Ha lo stesso modo di camminare. A testa alta. Anche questa ragazza cammina a testa alta. Lo fa anche se ha un peso sulle spalle non indifferente, pur dividendolo con altre quattro persone, quattro uomini vestiti di nero con la cravatta firmata da Cavalli. Sono usciti tutti dal cancello del civico 36, proprio di fronte al mio palazzo. Sono usciti in silenzio, in rigoroso silenzio. Si sentiva solo lo stropiccio delle loro scarpe sul selciato, e avevano assunto tutti la stessa postura. Anche la ragazza ce l’aveva. Schiena leggermente curva, braccia sollevate e mani che brandivano forte una porzione di quel pezzo di legno. Doveva trattarsi di ebano o di qualche altro legno pregiato. Non me ne intendo molto di bare.
“E il latte? E il latte? E il latte?” Christian ha fame e ragione, sono le nove di sera. È dalla merenda che non mangia (pane in cassetta tostato con una sottiletta).
“Dammi due minuti” gli dico, e so che è un’affermazione sopra le righe visto che il mio interlocutore è un bambino di tre anni. Il tempo, per quelli come loro, è assoluto. È qui e ora. Non esistono proroghe. Non esiste il futuro, semplicemente perché il futuro non esiste. “Solo due minuti, Christian, il tempo di…”
Il tempo di cosa? Di ricordare…. Non posso fare altrimenti. Quel corteo funebre è l’unico segnale di vita in questa notte senza luna né avventori allupati. Non vedevo un essere umano da cinque giorni. Ero chiuso in casa, le finestre sbarrate per non far entrare l’uccello nero. Il virus l’ho pensato così, per mio figlio. Lui ne ha paura, e io gli ho detto che se chiudi le finestre, l’uccello non ti vede e passa oltre.
I quattro uomini e quella ragazza sono le prime persone che vedo da circa 120 ore. Mentre transitano sotto la mia finestra, lei – la sosia di Sveva – alza lo sguardo su di me sentendosi osservata. Mi nascondo dietro la tenda e mi calco lo zuccotto sugli occhi, ma è tutto inutile. La mia memoria è stata appena scassinata.
Di Sveva ricordo bene la prima volta che mi ha parlato. Ero in un pub affollato, in compagnia di amici di amici. Non so come ci ero capitato. Forse era il weekend di qualche pausa del campionato per le partite della Nazionale. Solo così si spiega perché sono uscito quella sera. Fatto sta che bevevo una Tennent’s standomene in disparte, più per strategia che per scelta. Sono un timido che vuole farsi notare. A volte questa tattica funziona.
Con Sveva ha funzionato. Lei, che era la cugina di non so di chi, si avvicinò e mi disse: “Tu sei amico di…?” la sua era una domanda a risposta aperta. Aveva una voce senza accenti particolari.
“Non ricordo di chi sono amico” risposi. “Forse non sono amico di nessuno.”
Sorprendentemente, lei rise a quella mia uscita così patetica. Era così bella quando rideva.
“Ti senti solo?” mi chiese.
“Non ci ho mai pensato” risposi.
Si girò verso i commensali, la maggior parte dei quali in quel momento parlava dello scandalo della farfallina di Belen al festival di Sanremo.
“Che palle!” Sveva tornò a rivolgersi a me. “Io mi sto annoiando. Ti va di andare a fare quattro passi?”
“Certo” risposi.
Uscimmo e di passi ne facemmo qualche migliaia. Girammo per la città tutta la notte e non ricordo bene di cosa parlammo. So solo che entrammo da subito in confidenza. A un certo punto eravamo diventanti così intimi che ci mettemmo a parlare di sesso orale.
La baciai sotto la statua di Mazzini, davanti al Circo Massimo. La sera dopo lei mi invitò a casa sua e mi cucinò il soufflé di patate e formaggio. Andammo a letto e lo facemmo tre volte. La terza volta lei pianse perché si sentiva bene. Due mesi dopo ci sposammo, una cosa da pazzi.
“E il latte? E il latte? E il latte?” Christian sta battendo i pugni sul tavolo. Chiamerà il Telefono Azzurro se non mi decido ad accendere i fornelli.
“Ancora un minuto, tesoro” sono un padre snaturato, lo so, ma non posso smettere di guardare il corteo dalla finestra. Scosto lo zuccotto dagli occhi e vedo quella scia di morte ambulante avanzare verso il carro funebre, cinquanta metri alla mia destra. Sono circa a metà strada. La ragazza stacca una mano dalla bara e si aggiusta i capelli.
Anche Sveva faceva lo stesso gesto quando le leggevo Carver dopo che avevamo fatto l’amore. Lei appoggiava la testa sul mio petto, ma un attimo prima si tirava indietro i capelli per non farli tracimare tutti sul mio torace. Sapeva che mi facevano il solletico, e che io il solletico non lo sopportavo proprio. Un giorno le lessi “La moglie dello studente”, uno dei miei racconti preferiti. Si addormentò dopo una mezza pagina. Ma io lo lessi lo stesso tutto fino alla fine, perché in qualche modo credevo che la mia voce l’avrebbe accompagnata nei suoi sogni, e che quei sogni non sarebbero mai diventati incubi in virtù di quella mia indiretta presenza. L’unica maniera che avevo di proteggerla era leggerle qualcosa. Io sono funzionale solo quando leggo qualcosa. Per tutto il resto, rivolgersi altrove.
“E il latte? E il latte? E il latte?” Christian è al colmo dell’esasperazione, quanto una casalinga repressa che ha dimenticato che cos’è l’amore. Lui però ha tre anni, non dovrebbe essere già a questo punto. Sono un padre senza spina dorsale.
“Trenta secondi, Christian. Solo trenta secondi.” Sollevo ulteriormente lo zuccotto fino a scoprire interamente la fronte, poi premo il viso contro il vetro della finestra: è l’unico modo che ho di continuare a vedere, perché adesso il corteo è decisamente ad est della mia visuale. I quattro uomini in divisa e la ragazza hanno raggiunto il carro. Uno di loro solleva il portellone, poi tutti e cinque adagiano la bara all’interno del vano posteriore. La ragazza si gira un’altra volta verso la mia finestra e mi saluta. Non me lo sto sognando. Mi saluta. E ha un sorriso strano, il sorriso innocente di chi non riesci proprio a detestare.
“Dove vai?” domandai quel giorno a Sveva mentre vedevo che faceva le valigie in fretta e furia.
“Parto. Te l’ho detto” andava su e giù per la stanza, i suoi capelli d’inchiostro che fluttuavano come le serpi dal paniere dell’incantatore. E non mi guardò in faccia mentre disse: “Non ti amo più adesso. Io amo solo Richard.”
“Chi cazzo è Richard?” glielo chiesi con una voce da castrato, mettendo la mano a bocca di cigno.
“È il mio istruttore australiano di pilates. Ci siamo piaciuti da subito.”
“E me lo dici solo adesso?”
“Non volevo ferirti.”
“Ma io sono già ferito. Stai andando via.”
“Mi spiace, devo farlo.”
“Ma non ci pensi a Christian? Morirà senza sua madre.”
“Sarai in grado da solo di badare a lui.” Si fermò a fissarmi, con due occhi assenti. “Sarai un padre meraviglioso, credimi. Dimentica tutto il resto.”
Se ne andò via portandosi dietro le valigie. Chiuse la porta senza fare alcun rumore. Avrei voluto dirle che per innamorarsi basta un secondo, ma che per dimenticare serve un’eternità. Ma non riuscii a dirle niente. Andai in cucina e preparai da mangiare per Christian che frignava nella culla.
“E il latte? E il latte? E il latte?” mio figlio ha ragione a protestare. Sono un torturatore sociopatico di bambini affamati.
“Solo un secondo, amore.” Devo ancora guardare dalla finestra. “Solo un secondo.”
È notte piena ormai. I quattro dell’Ave Maria, armati di cacciavite e santa pazienza, svitano il coperchio e lo sollevano. La bara è vuota. Uno di loro, con un gesto gentile, invita la ragazza ad accomodarsi lì dentro. Lei si volta verso di me, di nuovo. È lontana ma non troppo. Ha gli stessi occhi, gli stessi capelli, lo stesso sguardo perduto di Sveva. Sembra Sveva. Mi lancia un bacio che io ricambio salutandola con un’alzata di mano. La vedo entrare nella bara e stendercisi dentro supina. Gli uomini abbassano il coperchio, riavvitano, chiudono il portellone ed entrano in macchina. Il carro riparte nel silenzio della notte, poi sparisce dietro l’angolo di un palazzo.
Mi sento stranamente leggero. Quasi euforico. I miei sbalzi d’umore sono da psicoanalisi iper-clinica.
“E il latte, papà?” mi volto finalmente verso Christian. Ha il viso rosso di rabbia.
“Scusami, tesoro. Vado subito a preparartelo.” Mi tolgo lo zuccotto e libero la testa. Sto per andare in cucina ma la sua vocetta mi ferma.
“Papà, chi guardavi dalla finestra?”
“Nessuno, amore.”
“L’uccello nero ha ucciso qualcuno?”
“No, che vai a pensare? Papà ha solo smesso di… di soffrire.”
“Davvero?”
“Sì. Davvero. Di punto in bianco.”
“Sono contento per te.”
“Grazie.”
Vado in cucina a preparargli il latte, ci aggiungo sempre un po’ di zucchero e un cucchiaio di miele. Mi viene buono il latte. È un’altra delle cose di cui sono capace.