Devi imparare a gestire la tua solitudine. Le ore passate senza parlare con nessuno che sono state nell’infanzia la tua normalità. Ricordi quando avevi dodici anni e i tuoi unici amici erano i libri? Ecco: leggiti un libro e smettila di scalpitare. E non entrare più su Tinder che tanto lo sai che gli uomini sono troppi e stupidi, e le donne troppo poche e timide, e si finisce sempre per non parlare con nessuno, figuriamoci uscirci.
Devi imparare a gestire il tempo, e la noia, e la stanchezza esistenziale. Devi accettare tutti i lati di te, o almeno provarci, perché sei tu, alla fine, l’unica persona che per te ci sarà sempre. Devi abbracciare la possibilità di sentirti sola, capire che sei in grado di farlo senza perdere te stessa, che non esisti soltanto in relazione a qualcun altro. Accettare il fatto di poter superare giorni interi senza uscire di casa, settimane senza toccare un corpo che non sia il tuo.
Passare rabbiosamente da una relazione all’altra come hai sempre fatto finisce per portarti solo guai. Come quel periodo l’anno scorso in cui nel giro di tre giorni sei saltata dal letto di un ex al letto di un altro, e poi dal letto dell’altro al letto di un altro ancora, ma ecco che anche con lui adesso è finita, e cosa ti ha lasciato? Un paio di anelli, dei boxer neri con la scritta “UOMO”, la mappa delle stelle su Roma la notte che vi siete conosciuti (appesa sopra il letto e che non puoi staccare perché è attaccata con il biadesivo e si rovinerebbe il muro), l’aver capito (di nuovo) che il poliamore proprio non fa per te. Che poi questo lo sapevi già, lo sapevi benissimo, ma quando lui è arrivato con le sue allettanti proposte di libertà, e tu ti sentivi intrappolata dall’altro e la sua cieca convinzione che eri la donna della sua vita, come potevi lasciar andare una nuova occasione per crogiolarti nel dolore? Per provare (già, di nuovo) bruciante il graffio della gelosia, e cercare di convincerti, bugiarda, che era proprio quello che volevi in quel momento. Che per qualche motivo questa volta ne sarebbe valsa la pena. Che sarebbe stato diverso, che avrebbe funzionato e avresti virtuosamente voluto bene alle sue amanti, che ti avrebbe fatto stare bene.
Ti faceva sentire una persona migliore, poter dire che lui era con lei, o con l’altra, poter dire che non ti turbava affatto la cosa. Ti faceva sentire una persona peggiore, piangere nel tuo letto mentre lui condivideva il suo con lei, o con l’altra.
Pensa a tutte le stronzate che ti sei raccontata, solo per poterti buttare in una relazione con gli occhi bendati come fai sempre, in una relazione che fosse nuova ed eccitante e con una dinamica interessante da raccontare, una dinamica che stupisse e che ti permettesse di soffrire segretamente la notte, di crogiolarti nel dolore, di scrivere per lui parole piene d’amore e parole piene d’odio allo stesso tempo.
Porti ancora addosso il peso di quel periodo a diciassette anni in cui non andavi a scuola e ti sembrava di fare una vita talmente diversa da tutti i tuoi amici che avevi paura di lasciarli indietro, o che loro lasciassero indietro te, quel periodo in cui facevi una strana vita da mezzo adulto e per studiare non uscivi mai, e pensavi che l’unico modo per combattere la solitudine che ti attanagliava il petto fosse scoparti tre sconosciuti a settimana. Come ti lusingava, come ti faceva sentire bene, in apparenza, il fatto che avessi sempre un uomo disponibile, bastava schioccare le dita e si materializzavano alla tua porta. E per cinque minuti o per un’ora o per due, ti sentivi di nuovo viva, ti sentivi di nuovo umana contro quei corpi misteriosi, che arrivavano e se ne andavano con il vento, senza darti nemmeno il tempo di vederli davvero.
Si riferisce soprattutto a quel periodo, tua madre, quando ti dice con aria di rimprovero: devi fare meno cazzate. Sapete benissimo entrambe che le tue cazzate hanno sempre un nome ed è sempre un nome di uomo. Ma quello che tua madre non sa, quello che non vuole vedere, è che quelle cazzate – quegli uomini – tu le hai cercate una per una.
Hai passato l’ultimo anno lavorando sempre, lavorando troppo, senza lasciarti il tempo di pensare, senza lasciarti il tempo di essere te stessa. E ora che sei scappata – da un giorno all’altro, mettendo in piedi un dramma più grande di te, la più recente delle tue cazzate – ora che sei scappata che ti resta? Ora che stai facendo fatica a ricordarti com’è, una te che non lavora?
Hai imparato a spillare le birre, e hai capito che le IPA non ti piacciono, anche se sono le birre che piacciono di solito alle persone che fanno finta di capirci qualcosa. Sono birre da veri uomini, amare come la vita, birre che sbatti sul bancone con forza e ne devi bere almeno tre, altrimenti non vale.
Hai visto i lati peggiori del popolo della notte, quarantenni depressi che buttano giù, un bicchiere dopo l’altro, tutto il loro dolore, che lavorano solo per potersi pagare da bere (al massimo, a volte, per potersi pagare una donna), che si sforzano di sembrare attraenti, e risultano solo tristi. Che, arrivati con la camicia abbottonata e i capelli impomatati, escono dal pub alle quattro di notte con la bava alla bocca e la giacca infilata a metà.
Hai scoperto sulla tua pelle, invece che per sentito dire, quanto è difficile combattere da sola in un mondo di uomini che pensano di essere più bravi e più importanti e più esperti di te. Che i clienti se c’eri tu e c’era un cameriere che per caso era un uomo, automaticamente chiedevano le cose a lui, perché ispirava autorità, anche se il capo eri tu. Che nessuno ti prendeva mai veramente sul serio. Che ti prendevano in giro alle tue spalle, e si permettevano di dirti che eri troppo scontrosa, e ti dicevano: sorridi!
Al tuo socio nessuno diceva di sorridere, quando gli giravano i coglioni e ringhiava contro tutto e tutti.
Volevi solo sentirti di nuovo viva, quella notte. Come tante altre notti, con tanti altri uomini. Era tanto tempo che il bisogno di sentirti al mondo non ti faceva tremare, volevi sentire l’adrenalina, quell’adrenalina che ti scorre nelle vene quando sai che stai per fare qualcosa di sconveniente, di sbagliato, di pericoloso, che finalmente ti fa sentire parte del mondo e dell’aria che respiri.
Il rischio di essere colti in flagrante: questo è vivere.
Ti butti nelle cose senza pensare, ti dice sempre tua madre, ed è vero, è vero, lo sai, ma quale altro modo potresti avere per buttarti nelle cose? Il paracadute è sopravvalutato. Meglio il vuoto intorno e il pericolo sulle labbra.
Ed è questo che hai fatto, la fatidica notte della tua ultima cazzata. Ti sei chiusa la porta del locale alle spalle senza pensare, ed erano le due e quaranta, e poi l’hai sentita aprirsi, due ore dopo – due ore passate a girarvi intorno. Due ore di David che provava a buttarti tra le braccia dell’Alchimista senza riuscirci, e lui che continuava a dire di no ma intanto si rifiutava categoricamente di uscire (ah, il momento in cui avevi lanciato le chiavi sul bancone e lo avevi guardato dritto negli occhi e gli avevi detto: se vuoi andare, vai), e allora restavate là a guardarvi appoggiati al bancone, come avevate fatto tante altre notti, e David seduto su una sedia che vi guardava senza capire cos’era, che non stava funzionando. Povero David, tu eri andata da lui giorni prima e gli avevi detto: David, non so che fare, un giorno mi dice di sì e il giorno dopo ha già cambiato idea, David, è il tuo migliore amico, aiutami tu. E David si era fatto in quattro, ce l’aveva proprio messa tutta, ma non era bastato. E come aveva fatto per i quattro mesi precedenti, l’Alchimista un momento ti afferrava e tu pensavi: ecco, è fatta, e poi già il momento dopo si tirava indietro e cercava di riabbottonarsi goffamente la camicia. Un momento David ti prendeva per il collo e l’Alchimista ti baciava e tu pensavi: beh, ci siamo, e un momento dopo niente, avevate acceso un’altra sigaretta. E così quando avevi sentito la porta che si apriva voi tre, mezzi vestiti, vi guardate in faccia da due ore senza combinare nulla o quasi: qualche bacio, una cintura sfilata e finita chissà come intorno al tuo collo, molti sguardi, qualche carezza, e quante parole vuote. La porta che si apre, i passi che scendono le scale, tu che ti tuffi in bagno, David che ti tira i pantaloni dietro, l’Alchimista pavido come sempre che dice: io non ho fatto niente! E accidenti, era vero: lui non aveva proprio fatto niente.
E lui, il tuo socio, che ringhia sempre contro tutto e tutti, l’uomo che ti ha colta in flagrante, che ha scoperto che ti eri chiusa nel pub e che forse eri nuda e ha pensato: ora vado là e con le chiavi apro la porta e la becco, e magari vedo pure qualcosa di tutta la scena. Immaginandosela già, pregustandosela forse, lui che è un verme ipocrita, e che in quel momento ti urla contro, e ti urla contro puttana, e nell’eco delle mille e una notte che ha passato lui con le sue amanti lì dentro – ma lui può, lui è un uomo, se lo fai tu sei una puttana – tu ti senti tanto superiore che rispondi alle sue urla, ti senti tanto forte da non sentirti schiacciata, da non sentirti puttana, tanto forte che se potessi gli cammineresti in testa con il sacro fuoco della tua rabbia, del tuo diritto a scopare, del tuo diritto a comportarti come un uomo, a fregartene come un uomo, del tuo diritto a fare cazzate.
Uscire urlando ai rami degli alberi tutto il tuo sdegno, alle quattro di notte con la bava alla bocca e la pelliccia rosa infilata a metà.