Mi ricordo una gonna a pieghe di colore blu cobalto e un maglione di lana grossa, fucsia, lavorato da mia mamma, poi una calzamaglia bianca e un paio di scarpette da bambola di vernice nera.
Ci ho ripensato stamattina in macchina, ho avuto un flash di colore fucsia e da quel maglione fatto a mano è riemersa una testa di riccioli corti castani, due occhioni nocciola, ed un sorriso sbilenco con un incisivo non ancora spuntato.
Eravamo andate io e mia mamma ad una festa di famiglia, una comunione oppure una cresima, non erano parenti stretti, forse cugini di mio padre, lui era rimasto a casa, bloccato dall’artrosi, non sapevo bene cosa fosse, ma sicuramente teneva papà a casa malato per lunghi periodi. Ci aveva accompagnato zio Enzo, era il fratello di mio padre ed era l’altro adulto che sovrastava la vita mia e dei miei fratelli, giudicando e richiedendo punizioni laddove l’occhio di papà non arrivava. Era molto mondano e in assenza di mio padre aveva il piacere e la vanità di rappresentare l’uomo di famiglia. Mia madre mi diceva sempre <<impara a buttare tutto dietro le spalle, senò campi male>> e lei applicava questa regola nei confronti di qualsiasi difficoltà della vita e quando l’invadenza di mio zio superava i confini del suo ruolo, mamma confortava noi figli con un grosso sorriso.
Quella mattina iniziò all’autolavaggio. Io e mamma rimanemmo in auto, mentre l’auto di zio attraversava i grandi spazzoloni e la doccia immensa, che mi ricordò una specie di Mar Rosso degli Ebrei al contrario. Le setole lunghissime blu ci catturarono all’improvviso, mentre io, terrorizzata, mi attaccavo al sedile del passeggero, dove era seduta mia madre, comprendendo in un abbraccio lei e il sedile. Mamma rise forte, come sapeva fare lei, per smorzare il mio disagio. Il lavaggio auto era una esperienza nuova, lasciarci dentro era stata una sadica e strana iniziazione.
Raggiungemmo la chiesa per la messa e poi risalimmo in macchina per andare a casa dei festeggiati. Ho il ricordo di una giornata grigia, fredda, di umidità appiccicosa, quando sei nel pieno di un inverno che sembra non finire mai, la mano di mamma era gelata come la mia. Poco prima di scendere dalla macchina mi era caduto lo sguardo nel retrovisore e avevo ritrovato la mia faccia sbattuta, tipica della bambina anemica che ero, con un colorito olivastro che d’inverno tendeva pericolosamente verso il giallo. Indugiando nello specchietto a fare le smorfie, incontrai gli occhi del guidatore.
<< Sei carina si!>>
Concluse la frase con la sua risata insopportabile. Mio zio risultava un uomo simpatico, era sempre stato brillante con i clienti, con gli amici, con i parenti ma io non gli volevo bene, vergognandomi anche un po’ di questo sentimento nei confronti di un adulto della mia famiglia. Fumava in casa a tutte le ore, aveva un bagno solo per sé, era maleducato a tavola, lasciava la dentiera in bella vista, in casa aveva la corona senza averne il diritto e invece di aiutarci non faceva che ostacolare la ricerca di libertà mia e dei miei fratelli.
Quel <<sei carina, si!>> mi fece stringere la bocca e il viso in un musetto offeso che dovetti mascherare per non irritarlo.
Alla festa c’erano tanti bambini e adulti. La casa era una tipica costruzione degli anni settanta, con corridoio lungo che si apriva in una ampia sala da pranzo, a terra marmi che persero la lucentezza molto presto, tra molliche, passi di polvere e umidità. Alle pareti una tappezzeria di stoffa color crema con disegni bianchi di gigli e losanghe, me li ricordo perché lo sguardo si perdeva a capire dove iniziassero e dove finissero quei decori. La tavola apparecchiata con una tovaglia bianca di pizzo, era arricchita da cibi e bevande di ogni genere. Io in quel periodo non ero attratta dal cibo, però approfittavo dell’occasione per riempirmi la pancia di bibite gasate che a casa mia non erano permesse. Era soprattutto una occasione di gioco con gli altri ragazzini, stando sempre attenta a non rovinare le bellissime scarpe nuove che dopo un po’ cominciarono a stancarmi i piedi, tanto da costringermi a toglierle.
Enzo in quelle occasioni aveva sempre la possibilità di incontrare parenti o amici che non vedeva da anni, con cui aveva partecipato a scorribande da giovane. Di solito questi personaggi epici erano ben conosciuti in famiglia e quando se ne nominava qualcuno io sapevo ricondurre la faccia al nome. Quel giorno c’era un uomo che io non avevo mai visto, lui e mio zio si misero a raccontarsi proprio accanto a dove ero seduta.
<<Questa è mia nipote, la figlia di mio fratello>>
Tirata in causa, alzai il volto verso di loro che erano in piedi. Accanto a noi c’era solo un’altra sedia, mio zio si sedette.
<<Alzati fai sedere>>
Era come se me lo sentissi, da quando si erano avvicinati, mentre mi piegavo per infilarmi le scarpe, vagai lo sguardo per la sala alla ricerca di mia madre, senza esito.
<<Forza, cosa ti ho detto?>>
Dolorante ai piedi e anche un po’ nell’amor proprio mi alzai.
<<Vieni, siediti qui>>
Lo sconosciuto mi prese le mani, abbassò un po’ il ginocchio destro e mi fece salire, poi quell’improvvisato cavalluccio, non richiesto e alquanto imbarazzante, si rialzò. Ero seduta immobile, a cavalcioni sulla sua gamba, le punte dei piedi sfioravano il pavimento, rivolte verso la faccia di mio zio. Lo sconosciuto mi teneva un braccio intorno alla vita, con una confidenza che fino ad allora era stata riservata a mia madre e ai miei fratelli e poche volte a mio padre, chiedeva a mio zio mie notizie,
<<Quanti anni ha? Che scuola fa? È brava a scuola?>>
e lui rispondeva, come se io fossi sorda oppure muta, oppure fossi incapace di capire. A ripensarci, forse era proprio così, perché l’imbarazzo di quella situazione mi rendeva sorda, muta, incapace di capire. Quella dimestichezza col mio corpo, le sue mani intorno alla mia vita toccavano il maglione fucsia, sotto il maglione c’era la canottiera e sotto la canottiera c’era la pelle e poco sotto la linea della mia vita c’era l’interno delle mie gambe, e tra quello e la sua gamba, il tessuto della mia gonna a pieghe, un tessuto leggero, la cui trasparenza era impedita soltanto da una sottogonna di sintetico dello stesso blu cobalto.
Mi voltai di nuovo verso il centro della sala e mamma venne verso di me a prendermi le mani.
<<Vieni a sederti laggiù>>
Raggiungemmo le due sedie libere che mi aveva indicato e potei togliere di nuovo le scarpe, appoggiai la testa alla sua spalla, non mi mossi più.
Alla fine della festa raggiungemmo la macchina e mamma si sedette dietro con me. Enzo prima di avviare, aprì entrambi i finestrini davanti, che rimasero abbassati fino al nostro arrivo, non era per limitarci il fastidio della sigaretta accesa, ma per tenersi sveglio dopo l’alcool bevuto in allegria.
Ci ho ripensato stamattina in auto, guardando il mio maglione fucsia, un altro fucsia.