La sconosciuta

L’avevo avvertita: arrivare al mattino presto al Colosseo può causare un colpo di Stendhal

Silvia era arrivata da noi all’ alba con un flixbus da Trapani e dopo una notte di viaggio invece di prendere la metro aveva preferito camminare dalla stazione Tiburtina per 40 minuti fino a casa nostra facendo a piedi tutta la via Tiburtina, attraversando il quartiere San Lorenzo, poi l’Esquilino, Piazza Vittorio e chissà quale altro angolo sporco di Roma per evitare lo shock. L’avevo avvertita: arrivare al mattino presto al Colosseo può causare un colpo di Stendhal.

Il colle oppio è un giardino pubblico, un manto erboso che si adagia sul Mons Oppius. Fu la sede di una domus sontuosa, oggi è un belvedere, anzi, il belvedere per eccellenza che si affaccia sul Colosseo, e si trasforma in un parcheggio per autobus turistici, un centro di accoglienza a cielo aperto per i rifugiati, un parco giochi fatiscente, un campetto di calcio, un centro anziani, un luogo di culto per il musulmano rivolto a Est, un covo per la destra, una latrina per i turisti e non solo, una palestra di tai chi dalle 6 alle 8 ogni mattina, una piazza di spaccio, un sito archeologico, una grande pattumiera, un rosaio antico, un punto di raccolta, una piazzola per  picnic, una pista di pattinaggio ma anche di zumba, un parco per cani, un giardino botanico, un rifugio per gatti, un solarium per aragoste provenienti da tutto il mondo, un sito d’obbligo per farsi un selfie, un baretto, una coordinata sul tuo GPS, un centro di meditazione e di yoga, un nascondiglio, in gergo immobiliarista è un polmone, un teatro all’aperto, un luogo di incontri, un set cinematografico, una voliera per varie specie di uccelli, per molti esseri viventi è una tana, una sala di attesa, un ufficio per l’impiego, un centro di smistamento bottigliette d’acqua e ombrelli, un area wi-fi, un osservatorio, un percorso campestre, un luogo romantico, una zona per esercitazioni militari o per una caccia al tesoro, una cabina telefonica senza pareti, una passerella, il fondale di tante foto di matrimonio, un percorso a ostacoli per il borseggiatore in fuga, una pista da corsa, un atelier per l’ artista senzatetto che disegna su cartoncini riciclati catturando i raggi del sole con una lente, una ragion di vivere per la puntuale colombofila, un hotel diurno dove dopo una notte passata rannicchiato su una panchina con un pezzo di travertino che fa da cuscino, si fa fagotto e ci si lava i denti alle fontanelle dei fasci, infine una benedetta scorciatoia per raggiungere presto la stazione Termini.

I pini marittimi immensi e altissimi dalle prepotenti radici deformano i vialetti asfaltati, i cigli di travertino non sono più eretti e in linea dritta, ma sembrano vagoni dislocati di un treno deragliato, alcune palme nane hanno resistito all’epidemia di parassiti e sono lì di conforto all’emigrato clandestino che ormai ci ha preso la residenza. I cipressi sono tutti piantati in fila lungo il viale principale, un grande glicine si è arrampicato fin su ben quattro di essi davanti all’entrata del museo archeologico della Domus Aurea rallegrando cosi, un conifero funesto per definizione. Ci sono anche mirti, lecci, oleandri e tanto alloro, una ventina di ulivi secolari ispirano pace e silenzio malgrado il frastuono delle sirene e dei clacson. Una volta un gruppo di turisti teutonici mi ha chiesto le indicazioni proprio per raggiungere la piazza centrale del parco: Piazza Martin Lutero, ho capito dopo, che questo è anche un luogo di pellegrinaggio per i protestanti.

Il prato viene raso dai carcerati sorvegliati a vista e devo ammettere che il lavoro non è inglese. Non potendo usare oggetti contundenti per il taglio dell’erba, lavorano da seduti su trattorini quindi rimangono tanti ciuffi di erbacce lungo tutto il perimetro e intorno agli alberi. In un secondo momento, passano i giardinieri del comune per le rifiniture. Quel giorno, quando come per miracolo il parco è bello, profumato e curato, mi sembra di stare lì dove mi dico sempre che potrei stare, in quel paese di origine materna dove la perfezione è norma. Il fermo immagine viene subito interrotto dal ritmo del djembè che mi riporta qui dove il movimento è usurante. Avvolta dalla musica cadenzata dagli africani seduti in cerchio intorno alla vasca del ninfeo, la fontana principale, ovvero, un vascone vuoto pieno di rifiuti dove i gabbiani vengono a ficcare il becco ma dove l’acustica è perfetta, realizzo il godimento di ciascun passante, il quale stando in contatto con il proprio camaleonte interiore, si mimetizza aspettando all’ ombra del Colosseo, il controllo del permesso per soggiornare al margine.

Silvia mi ha scritto un whatsapp: sono giù. Ho aperto la finestra, aveva lunghi dreadlocks colorati fino al sedere, un grande maglione fatto a mano molto vivace che la copriva fino alle ginocchia e uno zaino sulle spalle. Ti apro! le ho gridato. Sali fino al secondo piano! Quando si è presentata avevo davanti una donna di appena 23 anni sorridente con la bocca carnosa e un naso pronunciato. Con il suo forte accento siciliano ha detto: che bella casa! L’ho abbracciata e le ho teso subito un asciugamano bianco di cotone a nido d’ ape. Mi ha guardata incuriosita, le ho detto: dopo una notte di viaggio non vuoi darti una rinfrescata? Ha detto: No grazie sto a posto, ma uso volentieri il bagno. Ho risposto: Certo fai come se fossi a casa tua, io intanto porto mia figlia a scuola, tu fatti pure un caffè, anzi un orzo, una tisana, che so… Mia figlia è sbucata dalla sua stanza, pronta per andare a scuola, una tredicenne, che esce di casa più perfetta di me, con un filo leggerissimo di trucco, i capelli satinati, lisciati a colpi di piastra, le ciglia ripiegate all’ insù. Ci siamo ritrovate nel mio ingresso che in effetti sembra una sala d’ attesa, è un rettangolo grande con i soffitti altissimi, uno specchio dorato sul lato che domina un divano di velluto rosso anni 50. Tre donne, tutte diverse, all’ alba, insieme per un attimo in totale estraneità. Dai andiamo, ho detto a mia figlia e sul cammino verso scuola, mi ha chiesto: mamma, ma chi è quella zingara? Avevo fallito! Io che predicavo l’apertura mentale, le uguaglianze, mi trovavo a dover spiegare di nuovo che era solo diversa nel vestire ma che era anche lei una giovane mamma di due figli maschi, Ariel e Uriel, che faceva l’artigiana e che veniva dritto da Alcamo Marina, un posto sicuramente incantevole ad ovest della Sicilia. Va beh mamma mi ha risposto mi figlia, però le hai lasciato casa e non la conosci. Ho sorriso, sono queste le paure giovanili, basta un aspetto un pochino diverso ed ecco arrivare il pericolo.

Di ritorno a casa, ho trovato Silvia che si guardava intorno, mi ha detto che aveva la passione per i dettagli, così ho rivisto la mia casa con gli occhi di un estranea. Ho fatto l’intrusa a casa mia e ho osservato attentamente il mio ambiente, la mia stanza era molto disordinata, soprattutto la scrivania, i miei vestiti erano accumulati a penzoloni sopra un’antica piattaia ormai destinata ad un altro uso, pile di libri chiusi ad ogni angolo della stanza, quadri infilati sotto al letto e sopra l’armadio, una lunga foto composta da tanti autoscatti che circonda tutto il perimetro della stanza. Cose che facevo da giovane, quelli che chiamavo gli auto-braccio-scatti, oggi si chiamano selfie. Il mio lavoro di autoritratti era una ricerca interiore basata sulla mia appartenenza. Da dove venivo? Su quale suolo ero approdata? Quali sono le mie radici? Facevo installazioni con le mie foto che abbinavo a letti. Il letto come luogo di nascita che può comunque essere extraterritoriale alle origini della propria madre.

Tutte queste mie amiche nomadi sembravano avere, al contrario di me, delle radici solidi. Ma tornando all’ispezione: la stanza di mia figlia più giovane invece era perfetta, candida, ordinata, minimalista, ogni cosa si trovava al posto giusto, decorata con gusto, quella di mia figlia quasi maggiorenne per fortuna era piena di libri, quindi ho chiuso gli occhi di fronte al suo disordine. In generale, a casa mia ci sono pochi accenni hippie, gli unici sono un piccolo acchiappa-sogni appeso sulla porta in salotto che accarezza la testa di chi entra e delle bandierine buddiste appoggiate sul bordo superiore di uno specchio a figura intera in fondo al corridoio, per non scordare che l’apparenza è futile. Si denota una mania per i prodotti di bellezza, sulla vasca ci sono tanti tipi di flaconi accumulati di marche diverse per molteplici usi, viso-corpo-mani, dopotutto siamo tre femmine in casa e si vede! Mi domando se la mia ospite avrà anche aperto il frigo? Lo apro, ci sono confezioni di cibi pronti, tutti bio pagati troppo, ai quali tolgo sempre il prezzo. Ho richiuso subito il frigo, preparato le ultime cose da prendere e siamo andate via con la mia macchina. Siamo passate in stazione dove ci aspettava Iaia con le sue due bimbe Oasi e Loto. Iaia vive isolata nelle montagne vicino a Sondrio in una yurta mongola. Durante il viaggio in macchina verso il lago di Nemi, Silvia ci ha chiesto quali erano i nostri cognomi. Io ho detto tre cognomi. Mi sono chiesta come mai avevo fatto questo lapsus. Di fatto lei mi aveva chiesto il mio cognome e non quello delle mie figlie. La siciliana mi ha dato subito la risposta: era nella tua lista dei sogni. In effetti, ci eravamo fatte una lista dei desideri che avremmo letto a turno sedute in cerchio intorno al fuoco, sotto la luna piena. Il mio desiderio era quello di sanare in qualche maniera il cognome che porta mia figlia maggiore. Lei porta il mio e non quello di suo padre naturale. Stando con donne alternative, tutti questi traumi svaniscono. L’effetto benefico di vivere momenti preziosi assieme a donne vere, in connessione con la Grande Madre Terra e consapevoli delle Leggi Sacre Universali mi corrispondeva e mi curava le ferite.

L’indomani mi sono ricordata che Silvia non ci aveva detto il suo di cognome. Gliel’ho chiesto tramite whatsapp. Ha risposto: il mio cognome è Messina, mentre la mia provincia è Trapani.

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