Be’ insomma tra me e questa mia lei era iniziata una convivenza piena di affettuose e meticolose appartenenze iniziali – di cui mi accingo a raccontare – in cui intervenne da parte di lei, una inaspettata, lenta e inesorabile attenzione al resto del circondario della casa, oggetti compresi, dalle imprevedibili conseguenze. Ammetto, c’era di fondo una mia indolenza atavica verso tutto ciò che necessita di manutenzioni varie nell’ambito casalingo, e che, nel mio immaginario, minano la leggerezza delle storie d’amore.
In quel nostro ménage che si avviò, incipienti, le cose di casa dall’apparente immobilità, intendo aggeggi di varia natura e provenienza, trovarono diabolicamente in lei un’inaspettata alleata nella demolizione del mio sentimento. Già, perché ora che ricordo e racconto questa storia, della mia indolenza ne ebbi percezione la prima volta quando da piccolo osservavo mio padre cimentarsi con le attività manutentive degli oggetti in casa. Piccoli e grandi apparecchi che negli anni ’60 avevano incominciato a semplificarci la vita: dalla lavatrice alla televisione, e ovviamente registratori audio, radio a transistor, frullatori, tostapane e compagnia cantando. Una certa diffidenza mi permeava però verso quegli obblighi maschili di assistenza ed ausilio verso un padre intento a cento, mille riparazioni ed aggiustamenti premessi sempre da una giaculatoria che si ripeteva in ogni occasione:
— Voglio vedere quand’è che anche tu comincerai a sistemare qualcosa in casa!
Lui ha atteso per anni, impaziente che anch’io aprissi la cassetta degli attrezzi per le occorrenze del caso, ma ogni volta sviavo il tutto con una celerità sorprendente. Perché? Alcuni torti subiti in tenera età – da me ritenuti tali – relativi a un paio di sberle e qualche calcio ben assestato sul sedere per qualche mio impuntamento, mi erano rimasti indigesti. E così si intraversò il nostro rapporto. In quei frangenti invece, volgendomi verso mia madre, avevo trovato una breccia dove riversare un po’ l’umiliazione patita. Decisi allora che il campo in cui mi trovavo meglio sarebbe stato quello del lato materno. Quello della cura, della relazione, dei gesti estemporanei e affettuosi e di uno sguardo che sorrideva all’incontro con i miei occhi. Lo sguardo burbero di mio padre e la cassetta degli attrezzi e restavano lì pronti a criticarmi e a riparare cose rotte e difettose in casa. Quella casa che invece volevo colma di affetti perfetti. Mentre, quelle cose riparate e tenute lì, sembravano un monito al mio ideale di tranquillità, un presagio contro l’indolenza scelta. Quindi perché mai ripararle? E soprattutto perché io? Crescendo poi non è che sia cambiato molto. Nelle mie case intervenivo solo a fronte di pendenze prossime al disfacimento, proprio magari in attesa della venuta di una compagna dotata di molte qualità tra cui il senso pratico delle cose. Avevo allenato invece molto la passione, le emozioni e i sentimenti per cui sarei stato, nel caso eventuale di una relazione, pronto a sobbarcarmi l’intero onere se necessario. Così quando era iniziata una delle mie periodiche osservazioni dell’universo femminile, finalmente un giorno la vidi. Una lei dai grandi occhioni che oltre l’intensità e la volontà di lasciarsi conquistare, faceva trasparire anche quel senso di concretezza e celerità nell’approccio alle cose che sembrava rispondere alla mia duplice esigenza: sensuale e pratica.
Dunque lei, la nostra storia e le cose di casa. Il primo bacio era stato cercato dal finestrino della macchina su cui era salita a bordo, dopo una allegra serata trascorsa al pub. Si era fatta cogliere volutamente di sorpresa, dimostrando quell’approccio pragmatico alla vita. Salita sull’auto, preso e dato un bacio con una immediata ripartenza verso casa, senza alcun convenevole se non braccio sporgente in segno di saluto. Sembrava una forma di commiato converso alla vecchia iconografia cavalleresca con cui il mio immaginario maschile si era sviluppato: cavolo era lui che solitamente baciava la donna e ripartiva per terre lontane! Qui si erano invertite le parti e la cosa tuttavia mi piaceva.
Già anche in quell’occasione al pub, prima del bacio, dopo aver alternato tra noi alcune battute di spirito, avevo iniziato a parlare dell’importanza della comunicazione e del dialogo fra le persone e di quanto non sia affatto semplice. Lei un po’ annoiata dalla complessità dell’argomento evidentemente, la buttò improvvisamente lì:
—Sai che ho imparato a sostituire le pasticche dei freni e la ruota caso mai dovessi bucare? Era chiaro, troppa vaghezza la mia, il tentativo di restare nell’ambito della sfera sentimental-emozionale di quella sera venne richiamato da lei ad una esigenza più pratica e rassicurante cui poter far riferimento. Risposi in maniera piacevolmente sorpresa intento com’ero a conquistare comunque quella fascinosa donna:
— Cavolo, non è da tutte e neanche da tutti! Hai imparato da sola o cosa?
— Mio padre ha sempre voluto che anche noi fossimo in grado di saper fare qualche lavoretto pratico …
— Ecco come si conquista l’emancipazione, pinze e cacciaviti invece che mestolo e ferro da stiro!
— Lo dissi sorridente e un po’ compiaciuto a conferma che quella donna presentava comunque apprezzabili attitudini pratiche. Forse troppe. Poi, dopo altri incontri sparsi tra una mostra di pittura, un concertino blues e qualche passeggiata insaporita da dolci (pastarelle allo zabaione soprattutto), ci fu una sera decisiva in un locale di wine-reading, dove alle letture di testi di autore, si accompagnavano assaggi di vini di ottima annata e ovviamente gli sguardi di due persone in procinto d’innamorarsi.
— Be’ insomma se ti ritrovassi anche le altre sere ad attendermi con un paio di bicchieri mi allevierebbe il morale- disse lei- anche pensando al giorno dopo! – e lo aggiunse lanciando uno sguardo di attesa carico di curiosità e un sorriso pieno di disponibilità.
— Magari in cucina non faccio faville, però l’atmosfera giusta dopo le 18 credo di saperla creare. Un paio di poltrone, un lume con un bel cono di luce, qualche lieve essenza diffusa nell’aria e un sottofondo di caldo jazz… et voilà! — risposi con la volontà di facilitare l’esito della proposta fatta. Poi aggiunsi:
—Trasformare la routine quotidiana in attimi fuggenti la sera, come un happy end. E mi riesce assai bene credimi! —Sarebbe bello allora! Perché non porti da me un po’ delle tue cose? Ormai mi sono abbastanza organizzata con le cose di casa. Mi aspetto risvegli profumati al caffè e serate di brindisi augurali per noi due! —Proprio quello che pensavo e speravo di fare! — Fu la mia compiaciuta risposta.
Così con questo viatico ricco di buone intenzioni foriero di un amore duraturo si avviò la convivenza. Ora rammento che fu proprio in quell’occasione che le “cose di casa” fecero la loro apparizione verbale. Dopo il mio arrivo e in occasione dei primi risvegli mattutini nel letto condiviso, quell’apparizione verbale non tardò però a trasformarsi in ambasce per la giornata che iniziava:
—Buongiorno, amore, preparo qualcosa per colazione poi magari ti dico quello che c’è da sistemare per casa… ricordi te ne avevo parlato…
—Ok, sì… grazie. Ne parliamo a colazione, devo ancora connettere…magari metti su un po’ di Schubert o Mozart per conciliare la giornata… Erano i primi tentativi di anteporre coccole da risveglio a bollettini per i naviganti che invece dopo la colazione inesorabilmente venivano emanati. E dunque appena seduto: — Ricordi che le manopole del piano cottura sono difettose? Sono dure a girarsi… anche la scarpiera ha le ante storte, magari se provi con un cacciavite… ci sarebbe anche il modem che non funziona tanto bene…
La guardavo indeciso se prendere appunti rispetto all’elencazione o alzarmi canticchiando. Mi limitai al momento a sorridere un po’ sconsolato sperando non so cosa. Quell’indole di praticità mattutina non tardò, dopo alcune settimane, a trasformare anche il rituale dell’aperitivo delle 18, ricco di promesse, in uno sbiadimento sempre più sorprendente. Si stemperò il calore e si stinse anche il vino rosso. I calici divennero bicchieri, le tartine di pane tostato con sopra spalmati paté di tartufo, funghi e olive nere, vennero presto sostituite da crackers in bustina su cui si andava poggiando una triste e solitaria acciuga. In quel periodo si stava approssimando l’autunno, ma la temperatura in quella casa pareva ormai abbassarsi più bruscamente del previsto. Condividevamo affitti e spese correnti, ma le altre modalità della relazione iniziavano a distanziarci.
La convivenza infatti nel breve volgere di qualche mese sembrava ricalcare quel solco in cui l’amore dopo le sospinte pulsioni iniziali, riconduce silenziosamente nei canoni dei consueti ruoli di una coppia asfittica. Io ormai dedito alla sostituzione delle lampadine difettose, alla spina elettrica del ferro da stiro sfilacciata, alla manopola del gas incastrata dal grasso come se fosse ormai frutto di una complessa opera ingegneristica -tale era la mia insofferenza- mentre lei si dilettava in cucina a sminuzzare ortaggi, bollire patate, oppure mandare la lavatrice o inamidare camicie sull’asse da stiro, lucidare mobili e stoviglie con un’intensità crescente. L’amore arrivava nel primo pomeriggio, dopo la cucina e prima della palestra ovviamente. Non erano previsti i soffusi convenevoli che il caso avrebbe richiesto né sigarette o l’ascolto di romantiche sonate al pianoforte post-coito. Le piante, quelle sul davanzale fuori della finestra della nostra camera mi sembrava che non fiorissero mai.
Poi un’accelerazione. Era iniziata da parte di lei una malcelata frenesia verso gli oggetti, un assillo quasi da guardia giurata chiamata a far osservare scrupolosamente un disciplinare creato per ogni cosa ogni occasione riguardante le cose di casa. A volte, anzi spesso, dopo aver conquistato una comoda lettura o un ascolto musicale in poltrona, presagivo o assistevo a passaggi quasi forsennati tra un corridoio, una stanza, la cucina o il bagno di lei, che con rinnovata dedizione provvedeva ai bisogni di cura per i soprammobili, lavelli, mobili e piante e ovviamente elettrodomestici, pavimenti e ceramiche. Sorgeva allora in me un interrogativo che presto si trasformò in una riflessa strategia su chi dovesse essere preminente in questo ameno triangolo in divenire. Un uomo, una donna e le cose di casa. Avevo letto che le cose di casa, oggetti e suppellettili dell’arredo non sono in realtà semplici oggetti ma che possono reagire ai nostri pensieri e alle nostre proiezioni a distanza. Forse teorie di fisica quantistica. Lei mi sembrava che avesse iniziato davvero questo processo come se fosse sempre stata parte del tutto. Così loro, gli oggetti, cominciarono probabilmente a emettere segnali criptici che io non riuscivo a capire, mentre lei invece… ci dialogava! Lampade, soprammobili e elettrodomestici erano parte delle sue conversazioni quotidiane. Io ero preoccupato del pericolo di sovversione delle gerarchie affettive in atto, mentre lei sembrava in perfetta sintonia all’interno di uno spazio dove ogni cosa era diventato un particolare strumento di composizione e esecuzione per oscure sonorità.
— Guarda che bisognerebbe sistemare il battiscopa, sostituire la cinghia della serranda e anche risistemare un po’ la sedia dello studio ormai un po’ zoppicante e poi il telecomando scarico, i feltrini da comprare…— Non accennava quel giorno a fermarsi nell’elencazione delle cose di casa che avevano generato inaspettati rumori e sonorità.
— Sì certo, magari se ora però ci prendiamo una tisana riusciamo anche a goderci un film o buona musica da ascoltare insieme. – In fin dei conti l’ora segnava le 18…
— Sì certamente, faccio in un attimo e sono lì!
Le mie reiterate richieste però non sortivano effetto. Le cose di casa ormai dettavano l’agenda. I tempi si dilatavano, le aspettative si riducevano e scemavano. La sovversione dell’ordine iniziale tra me e le cose mi indusse mio malgrado in maniera lenta e progressiva a ritirarmi, in attesa di ottenere la mia razione quotidiana di attenzioni. Continuavo a dirmi: —Prima o poi arriverà un segnale discontinuo da parte sua! Feci però male i conti. Certo era chiara ormai la mia ritrosia diffusa nell’etere casalingo a salire su quella strana giostra. Unita ad un’accidia, ormai assunta anche per dispetto, venivano apertamente percepite da loro, i due vertici del supposto e surreale triangolo, come atteggiamenti indifferenti e magari ostili. Questo mio ritiro, se prima assumeva le sembianze della mutezza, poi si trasformò in allontanamento anche dagli spazi fisici, che lei colonizzava con nomignoli e aggettivi dati alle cose e agli oggetti, come una sorta di esploratore inviato in Africa alla ricerca di nuove specie. Io ero solo l’inconsapevole portatore di viveri, dei soldi insomma per la conduzione collaborativa del ménage e di quel mondo per me scombinato. Non era finita. L’intento diabolico di annullamento del terzo vertice del triangolo si completò con un investimento tecnologico massiccio che portò alla quasi completa automazione dei dispositivi e elettrodomestici vari. Credo che la parola giusta sia “domotica”. Nel non gettare definitivamente al vento quel sentimento iniziale fra noi e i relativi vagheggiamenti ancora in vita, accettai anche quella diabolica richiesta fatta da lei, quasi supplichevole al momento, per darci un’altra possibilità:
— Con queste applicazioni telecomandate amore mio, potrò anch’io liberarmi dalle continue necessità domestiche e ci riprenderemo spazi e tempo anche per farlo l’amore! Preceduti magari da un happy hour con ritrovata intimità…
— Continuo a non esserne molto convinto…io sono per un abbonamento a teatro o un corso di ballo, darebbe risultati migliori. Magari invitiamo a cena qualcuno…
— Assolutamente, ma prima vorrei tanto facilitare nella nostra vita il disbrigo delle faccende domestiche, sarebbe importante!
Così propose e così fece. Scomparvero o vennero ridotti ai minimi termini anche gli spostamenti fisici nella casa. Telecomandati a distanza di tempo e luogo o al massimo con l’utilizzo di un dito o della voce, ora si accendevano caldaie, lavatrici, televisioni, lampade e computer che ovviamente ti chiedevano anche cosa gradissi o meno per la sera o il giorno dopo, da vedere, da mangiare da comprare… —Ti riduco il disturbo e glorifico la tua inerzia e avrai più tempo. — Pensava magari lei, ormai impegnata a orchestrare gioiosamente le cose di casa.
Ma per un uomo come me cresciuto nella vagante indolenza e attento a cogliere gli attimi fuggenti, vivere quei tempi di attesa era come deprivare l’anima ormai sempre più solitaria. E quelli colti solo per noi erano ormai il frutto di estenuanti trattative, mediati da oggetti e cose che rivendicavano pari dignità o forse anche di più (sic!). Fu allora, in un mutevole pomeriggio autunnale, che pensai e dissi: — Basta! Ora credo che questo pazzo triangolo in casa debba essere dissolto! Ho speso soldi, il mio tempo, la mia dedizione… c’era anche un po’ d’amore e vorrei una storia diversa cavolo. Cominciamo dalla casa e dalle cose! Va cambiato registro… Lo pensai ho detto, perché dopo la determinazione nel pensarlo e dirlo, immaginai la scena seguente. Una scena classica in cui a un certo punto, dopo che lei sarebbe rientrata, iniziava un’accanita, accusatoria e diffamatoria discussione sui nostri atteggiamenti. E se lei poi se ne fosse andata chiudendo la porta? Il mio sguardo l’avrebbe seguita in attesa di un suo pentito ritorno? Ero sul terrazzo in quel momento. Rivedevo quei vasi colmi di terra, di foglie e ora anche qualche fiore su quel davanzale testimone del nostro amoreggiare. Sembravano curiosi ora di vedere chi sarebbe stato il loro curatore se lei se ne fosse andata, visto che il suo sistema domotico assicurava loro acqua tutti i giorni. I libri gli scaffali e le mensole, che non conoscevano più la polvere grazie a una solerte e fidata collaboratrice domestica di lei tanto amica, proprio quella polvere sarebbe presto tornata a stendere un pietoso velo sottile. E la cucina con i suoi elettrodomestici teleguidati? E il bagno? Avvezzi ormai ai comandi, agli igienizzanti e brillantanti che venivano da lei cosparsi con cura, non avrebbero più continuato a sorridere fra loro. Ahimé anche per loro un lento e progressivo calcare avrebbe inciso la bellezza, deturpando sagome angoli e spigoli. Tutto sarebbe volto verso un plastico grigio uniforme. Aprire gli occhi a quel punto, da solo, la mattina, e risintonizzarsi con le molte cose ormai aliene e fra loro complici sarebbe stato un grosso impegno che avrebbe condizionato pesantemente le mie cervella. In effetti immaginavo, in sua assenza, già qualche sinistro scricchiolio di tubi e traverse del soffitto magari sovrastanti il letto che mi avrebbero avvisato del loro disaccordo su quella scelta imposta e non condivisa. Quella staticità che sembrava essere tutto sommato rassicurante, al momento del mio pensiero istintivo fatto poco prima per riaffermare la mia identità, in realtà non era percepito dalla casa in tal modo. Per loro l’assenza di lei significava l’abbandono. Ho avuto paura allora. Anche i mattoni, i legni, le ceramiche, gli intonaci stessi reclamavano attenzione e cure che la mia indolenza notoriamente refrattaria alle cose avrebbe alterato. Un nuovo rapporto di forze non sarebbe stato tollerato. Ho creduto a quel punto che le forme delle cose, gli atomi stessi, scossi dall’abbandono e dall’assenza dei suoi segnali, avrebbero fatto crollare ogni geometria costituita su di me. Forse uccidendomi.
No, quel teorema che volevo confutare si era ormai perfezionato col passare dei mesi. Non era lei il vertice del triangolo da allontanare. Le guardai ancora quelle piante sul terrazzo e quell’ordine geometricamente costituito alle mie spalle, poi alzai lo sguardo e vidi alberi cangianti, tanti alberi su una collina sovrastante. Vidi anche una radura. Quello spiazzo era illuminato da un sole incerto e circondato da quel verde antico. Là forse guardando bene, c’era anche la mia nuova casa.