Si rifà viva dopo sei anni.
“Ciao, sono io”, dice.
Rimango in silenzio, guardando la pioggia al di là della finestra.
“Ho bisogno di un favore. La scatola a forma di cuore… Dentro c’è una cosa che rivoglio: quella spilla con la pietra verde… quella di mia madre”.
La finestra della cucina sbatte. Poso la tazza di caffè sulla scrivania e mi alzo per chiuderla. “Ok”.
“Devi trovarla, capito? Subito”.
Alzo gli occhi al cielo, sbuffo. Spero che mi abbia sentito. E poi ripeto: “Ok”.
Mi butto sul divano e mi tiro su una coperta. Lo sguardo è fisso sullo schermo del televisore, in testa i ricordi si affastellano l’uno sull’altro. Uno si staglia nitido su tutti gli altri. È un pomeriggio d’inverno, siamo in via dei Gelsi, al numero 16, interno 3. Fuori è buio, dentro è tutto acceso: le luci della cameretta ci illuminano mentre giochiamo a scacchi sul tappeto. Tocca a me, ma non so cosa muovere. Non voglio perdere. Non un’altra volta. Fisso un punto nella libreria alle spalle di Lavinia in cerca di una soluzione che non arriva. Passano i minuti. Abbiamo deciso che non ci sono limiti di tempo. Alleniamo la pazienza. Poi a un certo punto incrocio lo sguardo di Lavinia. Fissa un punto sul mio viso, poi i miei occhi e poi ancora quel punto. Guarda le mie labbra. La mia bocca sempre socchiusa. Mio padre mi chiamava Pellecorta. Penso a qualcosa da dire per spezzare quel silenzio ma lei è più svelta, scansa la scacchiera e carponi mi si avvicina piazzandosi dietro di me. Io sento le spalle irrigidirsi e la fronte corrugarsi. Non capisco dove vuole arrivare ma neanche morta glielo chiederei. Lavinia infila una mano sotto il mio maglioncino. Sento le sue unghie lunghe e curate farsi strada tra la canottiera di lana e la mia schiena. Mi dice: “Indovina cosa sto scrivendo”. Chiudo gli occhi, ho i brividi fino alla punta dei capelli: tra le mani sento le forme di quel cavallo che quella partita non la finirà mai, figuriamoci vincerla, sulla nuca l’alito caldo di Lavinia che sa di menta. Faccio finta di non capire quali lettere sta disegnando con le dita. “Dai, indovina”, mi incalza. Rimaniamo così per un po’. Io immobile, con gli occhi chiusi, non desidero altro che dilatare quel momento all’infinito.
Squilla il telefono. Inciampo nei libri lasciati per terra e non faccio in tempo a rispondere.
Apro l’armadio, tiro giù la scatola dei ricordi e torno sul divano. La prima foto a spuntare è quella di quel gelato preso dopo la gita al Foro romano, quando le avevo chiesto: “Quali sono i tuoi gusti preferiti?” e lei mi aveva risposto: “Fragola e limone, ma tanto so che me l’hai chiesto solo perché vuoi che lo chiedo a te”. C’è un fascio di letterine che un tempo erano profumate. Se solo faccio mente locale posso dire cosa c’è scritto in ognuna. Ci sono le foto con la comitiva, quelle con il gruppo scout e quelle con la classe: la chioma bionda di Lavinia fa capolino da ogni immagine.
Ricordo ancora a memoria il numero di telefono di via dei Gelsi: 2577452. All’epoca ancora non si faceva il prefisso per le chiamate urbane. Sicuramente, se glielo chiedessi, lei si ricorderebbe il mio, di numero. Non capisco come facessimo a sentirci due, tre volte al giorno. La prima, appena rientrate da scuola, iniziava sempre allo stesso modo: “Anita? Lo vedi che anche oggi ti ho chiamato prima io?”. L’ultima per scambiarci la buonanotte e i pensieri bui, quelli della sera che al mattino quasi sempre non ci sono più.
I suoi a volte al mattino c’erano ancora, perché erano troppo grandi e troppo amari per mandarli giù con la colazione. E allora ci scambiavamo bigliettini di conforto anche mentre eravamo a scuola e piuttosto che farli leggere a qualcuno saremmo state disposte a masticarli e mandarli giù, quelli sì, insieme alla merenda. In caso di bisogno anche senza merenda.
Frugo con le mani nella scatola e sento una copertina rigida. Nel tirare via dal fondo quello che so essere il nostro vecchio diario faccio cadere tutto sul pavimento. Forzo il piccolo lucchetto e lo apro. Alla prima pagina c’è un elenco di nomi: Fabio, Maurizio, Fabrizio, Davide, ragazzo III B. Mentre li scorro con gli occhi, nella testa si susseguono i capelli neri dell’uno e gli occhi verdi dell’altro, la felpa col cappuccio sempre tirato su di quello e il cappellino con la visiera all’indietro di quell’altro. Del ragazzo della III B non ricordo niente. Se fossi stata sincera, a quell’elenco avrei dovuto aggiungere il suo di nome: Fabio, Maurizio, Fabrizio, Davide, ragazzo III B, Lavinia.
È una delle mie mancate verità. Ogni volta che essere solo la sua àncora di salvezza non mi andava giù me ne uscivo con una mancata verità: “No, oggi non ci sono, vado a trovare mia nonna”; “No, sabato vado fuori coi miei”… Chiudevo la bocca e contavo mentalmente: uno, due, tre… Se mi lasciava arrivare almeno fino a sette senza spiccicare parola significava che era arrabbiata. E io ero contenta. Così stava male anche lei, mica solo io.
Alzo lo sguardo dal diario e scorgo la spilla verde. È finita vicino al mobile della televisione. Striscio fin lì e la prendo tra le mani. È bella, piccola, a forma di fiore. È leggermente scheggiata. Come me. Me la appunto sul maglione e vado davanti allo specchio. Mi dona. Fa risaltare i miei occhi e la mia pelle chiarissima.
L’ho indossata tante volte in questi anni: ogni cena in famiglia, alla festa per la partenza di mio fratello, ogni importante occasione di lavoro. “È un regalo di tanti anni fa, del mio primo amore”, ho sempre risposto a chi la guardava con interesse.
Sento i morsi della fame. Preparo qualcosa per cena e mangio in piedi in cucina vicino alla finestra. Il matto del palazzo urla le solite sconcerie: è tutto un puttana di qua, mignotta di là. Eppure quando lo incontro per le scale è sempre così gentile. Una volta mi ha detto: “In questo palazzo sono tutti bastardi. Tutti, tranne te”. Dopocena compongo il suo numero. Al quinto squillo risponde. “Allora?”. “L’ho trovata”. “Ah benissimo”. “No, mi hai frainteso. Ho trovato la scatola ma la spilla non c’è”. “Merda! Non è possibile! Cazzo, l’hai persa? Hai cercato bene? Hai guardato dappertutto?”. Allontano la cornetta dall’orecchio. Quando sento che ha finito di sbraitare le dico che cercherò ancora e la saluto.
Lavo i piatti e sistemo il bancone della cucina. Poi vado in bagno, mi guardo allo specchio un’ultima volta, stacco la spilla dal maglione e la getto nella tazza. Tiro lo sciacquone e aspetto. Alla terza volta in fondo alla tazza non c’è più niente.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.