Con lo sguardo sognante sulle Langhe, le colline dei soggiorni estivi e dell’infanzia, Cesare Pavese osserva i luoghi natii nell’ora preferita del crepuscolo, quasi trattenendo il respiro: “i colli dove nacqui sempre avrò nel cuore”. Le liriche che si esercita a comporre da studente ginnasiale, nella competizione fraterna con l’amico Mario Sturani, giovane pittore talentuoso, raramente conservano un tratto festoso: “i canti che dai filari lieti i vendemmiatori levavano alla brezza della sera”. Lo si rivede fanciullo, scorrazzante nei boschi o steso sull’erba fresca con lo sguardo che spazia in alto, perso nel cielo, “negli incendi di nubi”. Coglie le variazioni di colore della natura e gli effetti della luce nelle stagioni con l’attenzione di un pittore: “i fianchi verdeggianti di boschi”, “le vigne rossastre”, “le nuvole vermiglie sul cupo azzurro”, fino alle suggestioni del paesaggio collinare osservato sotto la luce lunare: “e azzurrina risplende nel ciel pallido la luna sui colli”.
Sogna di distinguersi fra gli “ingegni brillanti”, nutre le stesse ambizioni di tanti suoi coetanei, e un ossessivo desiderio di emergere, di uscire dall’anonimato. Nel fermento intellettuale dei ruggenti anni venti, persegue l’ideale di un’esistenza faticosamente immolata all’arte, della fatica e della “lotta e per riuscire”, dello sforzo titanico “per comprendere la vita e adattarla al proprio ideale”. Irreparabilmente il paesaggio si trasforma, il vento spinge contro il fumo della città, del mondo delle fabbriche, che lascia uno strato di fuliggine. Il grigiore simbolicamente crea una cesura con i sogni e fa trasparire la più aspra realtà. La vita, vissuta in solitudine, è una partita persa se subentra la coscienza del fallimento. Il senso di impotenza cresce fatalmente con l’incapacità sentita di suscitare interesse nelle donne desiderate e di innamorarle. Una sera aspetta invano sotto la pioggia, fuori da un teatrino, una bellissima soubrette di café chantant. Si ammala di pleurite e si assenta parecchi giorni da scuola: “sono la mia debolezza le innamorate, e il bello è che non ne ho mai avuta neppure una”.
Il suicidio del compagno di classe Elico Baraldi che si toglie la vita con un colpo di pistola alla tempia, nella casa paterna di Bardonecchia, in cima a un poggio, lo segna profondamente e aggrava l’ossessione del gesto definitivo: paragonato a un’impresa eroica, si lega al dissolversi dei sogni di gloria. Cesare Pavese si confronta con la tragica fine dell’amico e, spinto all’emulazione, nell’esaltazione del coraggio, annuncia nel diario il proprio destino: “Baraldi che mi hai dato l’esempio e mi attendi, per le mie parole, anch’io ho finalmente nel cuore il tuo coraggio, soltanto un po’ più pallido. Perdonami tutto questo tempo vile che ti sono mancato”.