Quando avevo sette anni, papà ci portò al cinema a vedere Guerre Stellari.
Fino a quel momento ero stata una bambina come tante, di quelle che giocavano con le bambole. La conquista della mia prima Barbie era avvenuta solo un anno prima, dopo una lunga e logorante guerra di posizione contro mia madre che, femminista convinta, riteneva che quella bambola sorridente e formosa fosse il simbolo di una visione stereotipa e sessista della donna, e si rifiutava di regalarmela.
Ma dopo Guerre Stellari, i tempi della Barbie erano finiti, per me.
Improvvisamente i miei orizzonti si erano dilatati a dismisura: non più la casa di Barbie, o il camper di Barbie, ma una galassia lontana lontana, zeppa di pianeti boscosi e lune desertiche e satelliti artificiali capaci di annientare interi sistemi con un raggio laser potentissimo.
Anche mio fratello era stato contagiato dalle avventure spaziali, ma pur essendo più piccolo di me di tre anni, probabilmente covava già il germe del metallaro che sarebbe diventato, perché era rimasto affascinato dalle fattezze inquietanti del bieco Darth Fener, e se ne andava in giro tutto il giorno ansimando come una locomotiva indossando il mantello nero preso dal vestito di Zorro che gli avevano comprato per carnevale.
Io, invece, volevo intraprendere le strade della Forza, spostare le cose semplicemente tendendo la mano, rendermi invisibile per neutralizzare indisturbata raggi traenti, e convincere menti labili che quelli non erano i droidi che stavano cercando.
Volevo diventare un Cavaliere Jedi.
Avevo già un nemico, il bieco e fastidioso Darth-fratello minore, ma non avevo un Obi Wan Kenobi, un maestro Jedi da cui imparare i segreti per governare la Forza.
Poco male: avevo sempre un film. Dovevo solo convincere papà a portarmi di nuovo al cinema.
Lo convinsi nove volte, quell’anno.
Imparai a memoria le battute. Alcune volte erano chiare e comprensibili: “Una volta io ero un Cavaliere Jedi, come tuo padre”, “Fener è stato sedotto dal lato oscuro”, “Che la forza sia con te”.
Altre volte erano più oscure: “La Forza è quella che dà al Jedi la possanza”. Ma che era la possanza? Qualcosa che si indossava per proteggersi dai colpi di folgoratore? Mistero.
Dopo quel training, però, ero convinta di sapere tutto quello che mi serviva: la Forza stava dentro di me, se chiudevo gli occhi era più facile sentirla, e il lato oscuro era il male.
Ora mi mancava solo una cosa, l’arma più elegante e più micidiale dell’intera galassia: la spada laser.
Nel film era un oggetto bellissimo: un manico lucente fatto di una qualche sconosciuta e preziosa lega metallica, dalla quale eruttava un potente fascio di luce con un fruscio come di neon appena acceso, ma che suonava alle mie orecchie come la tromba a distesa quando arrivava la cavalleria nei film western che papà adorava. E infatti quando la sfoderavi, era come se arrivasse la cavalleria: i nemici non avevano scampo, un paio di colpi ben assestati ed eri libero.
La spada laser mi serviva, se volevo essere un Cavaliere Jedi.
Ma dovevo agire d’astuzia, per averla.
Approfittai di una domanda che mi fece mio padre, un sabato, a pranzo: “Allora, fra poco è il tuo compleanno, sai già che regalo vuoi?”.
Per un attimo, pensai di trasmettergli il messaggio usando la Forza, ma poi optai per la strada semplice: “Voglio la spada laser”. Mi schiarii la voce e aggiunsi: “Voglio quella che fa la luce rossa”.
“Quella è di Darth Fener!”, precisò mio fratello, con la bocca piena di pastasciutta.
“Lo so che è quella di Darth Fener e che Luke ce l’ha azzurra”, risposi con una smorfia, “ma a me piace il rosso e quindi la voglio rossa!”
Intervenne mia madre, incuriosita: “Ma tu che te ne fai di una spada laser?”.
Mi vennero in mente due o tre cose così, tanto per cominciare – dividere in due la poltrona del salotto, o creare una profonda frattura nel centro della camera che dividevo con mio fratello, per ribadire i confini fra le mie e le sue cose – ma pensai che fosse meglio tenermi per me quei progetti, e mi limitai all’essenziale.
“Ci gioco”.
Avevo notato il sorrisetto di mamma, che in virtù del suo femminismo militante probabilmente era restia a sottolineare la singolarità della mia richiesta. Dopo la lunga guerra contro la Barbie, adesso non poteva ribaltare la sua posizione e sostenere che la spada laser era un regalo da maschi.
Papà, invece, aprì bocca senza pensarci su troppo: “Ma la spada laser è un regalo da maschi”.
Nel momento in cui la ‘schi’ di maschi finiva di uscire dalla sua bocca si rese conto delle implicazioni di quella affermazione, ma anni e anni di allenamento alla dialettica con mamma lo avevano reso un mago dell’aggiustamento del tiro e prima che lei lo investisse con una sequela di slogan femministi si affrettò ad aggiungere: “L’hai visto dieci volte quel film, lo sai, la spada laser ce l’ha Luke, mica la principessa Leila. Lei al massimo usa la pistola laser”.
L’osservazione era filologicamente esatta, ma non era quello il punto.
“Io non voglio essere la principessa Leila. Quella c’ha le pagnotte sulle orecchie e corre per la galassia vestita come una suora, io voglio fare il cavaliere Jedi e quindi voglio la spada laser!”
“Pure io la voglio”, intervenne mio fratello, fissandomi con un ghigno feroce.
Già vedevo la fregatura all’orizzonte. Quel bambino dall’apparenza di un angioletto paffutello era in realtà un raffinatissimo provocatore di sensi di colpa genitoriali, capace di ottenere qualsiasi cosa grazie allo sfoggio di pianti disperati corredati da apnee da campione e scene madri degne dei più grandi attori drammatici. Le sue migliori interpretazioni avvenivano in genere nei pressi del negozio di giocattoli del corso, e gli facevano ottenere il rapido soddisfacimento di ogni suo desiderio.
Gli invidiavo molto questa capacità, ma ero consapevole che non avrei mai potuto imitarlo: non si poteva imitare l’arte, e lui era un artista del capriccio infantile.
E poi, non era certo una qualità da Cavaliere Jedi. No, io dovevo fare a modo mio.
L’occasione non si fece attendere. Quel pomeriggio, la passeggiata in centro si era puntualmente interrotta davanti alla vetrina del negozio di giocattoli sul corso, grazie all’ennesima sceneggiata da manuale di mio fratello. Il piccolo Darth Fener, che con la scusa che a camminare gli facevano male gli alluci si faceva ancora trasportare sul passeggino ogni volta che il tragitto in programma superava i venti metri, arrivò a buttarsi in terra scalciando e ululando fra i singhiozzi che voleva il camion rosso dei pompieri.
I miei, rassegnati, ci trascinarono nel negozio, e mentre mamma consegnava a mio fratello l’ennesimo premio alla carriera di piagnucolone, papà si diresse sconsolato alla cassa a pagare.
Decisi che era quello il mio momento. Muovendomi rapida e silenziosa come avevo imparato osservando il vecchio Kenobi raggiunsi lo scaffale alle mie spalle e ne sfilai la scatola della spada laser, assicurandomi che fosse quella con la luce rossa, e prima che mamma si accorgesse della mia sortita, ero di nuovo accanto al passeggino, con una mano posata distrattamente sul manubrio, mentre con l’altra infilavo la scatola nel cestello sottostante.
Mio fratello aveva preso di nuovo posizione nel passeggino, con il camion dei pompieri stretto fra le mani e sul viso il ghigno da principe del lato oscuro , e insieme raggiungemmo l’uscita, dove papà ci aspettava con il portafogli alleggerito e l’animo rassegnato.
Mentre attraversavamo l’uscita, nella mia testa c’erano solo immagini di me, in abiti da pastore e con le cioce ai piedi come Luke Skywalker, che distruggevo con un sol colpo tutti i camion dei pompieri, i Big Jim, le ruspe e le macchinine che infestavano gli scaffali della cameretta con la mia bella e lucente spada laser con la luce rossa fiammante fra le mani.
Fu una luce rossa, in effetti, a interrompere quei pensieri.
Accompagnata dal suono di una sirena.
Nel corso dell’interrogatorio che seguì, condotto da una coppia di investigatori degni dell’FBI, sebbene dalle sembianze familiari di mamma e papà, provai a scaricare la responsabilità del tentato furto sul mio capriccioso fratello, ma non funzionò. Mamma era certa di non averlo lasciato nemmeno un secondo durante tutto il tempo che avevamo trascorso nel negozio. E d’altra parte, quella che voleva la spada laser ero io.
“Anche lui ha detto che la voleva”, provai a ribattere, ma sapevo che non sarebbe servito. Per mio fratello il verbo “volere” aveva per complemento oggetto qualsiasi cosa esistesse nel mondo, nel momento in cui quella cosa si palesava di fronte ai suoi occhi. Voleva tutto, il che significava che non voleva niente.
Io invece, volevo solo la spada laser.
Alla fine la ottenni: papà, troppo imbarazzato dagli sguardi di riprovazione degli altri clienti mentre la commessa sfilava dal cestello del passeggino la refurtiva, si era affrettato alla cassa per pagarla, e me l’aveva consegnata.
Ora che me la trovavo fra le mani, però, non mi sentivo soddisfatta come pensavo sarei stata.
E non era solo per via della scena madre che si era svolta nel negozio, certo imbarazzante per un Jedi, ma tutto sommato senza conseguenze di rilievo.
La verità era che quella dentro la scatola non era la spada laser che mi aspettavo. Il manico non era di una lega metallica segreta, ma di plastica, e quando spingevi il bottone non si azionava una lama di luce rossa con un elegante fruscio, ma una serie di tubi di plastica semitrasparente che si allungavano a incastro con rumori molto meno eleganti, e se non ci mettevi dentro due pile stilo la luce rossa nemmeno si accendeva.
In effetti, a pensarci bene, non poteva essere così facile. “Vuoi diventare Cavaliere Jedi? Vieni nel nostro negozio! Troverai tutto quello che ti serve, mantelli, cioce, e spade laser per tutti i gusti!”
No, non era quello il modo. La Forza, quella che ti dava la famigerata possanza, non poteva essere comprata.
E infatti, la trovai nascosta in fondo al ripostiglio di casa.
Non era lucente come quella del film. A coloro che l’avessero esaminata senza possedere i poteri del Cavaliere Jedi sarebbe potuta sembrare un semplice pezzo di tubo metallico grigio scuro venato di strisce rossastre di ruggine.
Ma la prova evidente del fatto che la Forza scorreva potente in me fu il colpo di genio che trasformò quel tubo senza vita nella spada laser di un vero cavaliere Jedi. Fu sufficiente infilare dentro il tubo una torcia, di quelle che papà usava per andare a cercare le bottiglie di vino nella parte più buia del ripostiglio. Ci entrava perfettamente, bastava tenerla ferma alla base con un pezzo di scotch. E per ottenere la luce rossa colorai il vetro della torcia con uno dei pennarelli indelebili che papà teneva sulla scrivania nello studio.
Finalmente avevo una vera spada laser, costruita con i poteri che avevo acquisito esplorando le vie della Forza.
Ora però dovevo provarla.
Uscii dallo studio e mi avviai, col passo silenzioso dello Jedi, lungo il corridoio. Quando giunsi nei pressi della cameretta che dividevo con mio fratello, sbirciai all’interno. Il mio Darth fratellino minore stava giocando da solo: indossava il mantello nero di Zorro, e ansimava come il nonno quando aveva un attacco d’asma. In mano teneva la spada laser, quella finta di plastica, che avevamo comprato al negozio.
Quella che nulla avrebbe potuto contro la mia.
Sfilai la torcia, la accesi e la reinserii nel tubo, riposizionando lo scotch di sicurezza.
Feci un respiro, e balzai in camera urlando: “E’ la tua fine, Darth Fener!”.
Mentre mio fratello si voltava brandendo la sua spada farlocca, sollevai la mia e con una potente rotazione del braccio feci partire il primo fendente. Lo scotch non resse la forza centrifuga impressagli dal movimento rotatorio, e la torcia schizzò fuori dalla parte opposta del tubo, volando via come un missile e stampandosi con violenza sulla fronte del mio nemico.
Inutile dire che, nonostante l’indubbio successo della missione, la mia carriera da Jedi fu bruscamente interrotta a causa delle conseguenze di quell’incidente – la corsa al pronto soccorso, i sette punti di sutura sulla fronte di mio fratello, il conseguente divieto assoluto di pronunciare mai più anche solo per sbaglio le parole Jedi, Forza e Spada laser.
Ma la Forza conosce imperscrutabili vie per affermarsi, e la cicatrice che tuttora mio fratello sfoggia sulla fronte viene oggi universalmente considerata un tocco di classe nel suo look da metallaro maledetto.
E di questa cosa il vecchio Darth non smette di ringraziarmi.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.