“Quest’anno facciamo una vacanza diversa in mezzo alla natura” mi aveva detto mia madre senza tante spiegazioni.
Io non sentivo il bisogno di passare una vacanza diversa, e per quanto ne sapevo la natura erano la pineta della riviera romagnola e il mare Adriatico, in cui dopo almeno tre ore dai pasti, si poteva sguazzare a piacimento. Era solo lì che avevo moltissima voglia di andare finita la scuola, a giocare coi miei cinque cugini tra bagni, merende, e sparatorie in pineta con le cartucce super Bum.
Ma durante l’inverno i miei genitori erano cambiati: mio padre leggeva libri strani e pronunciava con espressione grave parole nuove come “consumismo”, “cementificazione”, “divertimento di massa”, mentre mia mamma si era iscritta a una scuola di yoga ed era diventata seguace di un maestro di meditazione che le aveva donato un tamburo sciamanico in vera pelle su cui lui stesso aveva dipinto l’albero della vita.
Tra le cose che improvvisamente non andavano più bene ai miei c’era anche il solito modo di passare le vacanze, tutti insieme nella casa dei nonni al mare, scandite tra spiaggia, braciolate e partite di briscola e dove, finita la scuola, desideravo andare più di ogni altra cosa.
Ma siccome erano gli anni Settanta e non si chiedeva il parere dei bambini per programmare le vacanze, mi ritrovai sul sedile posteriore di una Fiat 128, su una strada di montagna e col mal d’auto.
“Si va a respirare l’aria buona, bimba, via quel muso!” disse mia mamma accendendo una Muratti nell’abitacolo già saturo di fumo.
Quando la nausea era ormai insopportabile, l’auto fece un’ultima salita ripidissima e mio padre disse: “ci siamo”.
Stordita e con le orecchie che mi fischiavano scesi e mi trovai davanti una casa scura, con intorno solo alberi fitti e pareti di roccia. Non c’erano altre case e non si vedeva nessuno.
I miei erano entusiasti.
“Senti che aria pura, che profumo di alberi!” cinguettava mia mamma estasiata.
“Che silenzio, che pace, alla faccia dei juke box e della folla sudata!” sentenziava mio babbo scaricando i bagagli.
“E domani yoga all’alba e meditazione nel bosco!”
“E la sera invece della tv si guarda il caminetto acceso!”
Ma al mare mica guardavamo la tv! Noi bambini passavamo quasi ogni sera al cinema all’aperto con la nonna, o mettevamo in scena giochi inventati da noi.
Dopo aver armeggiato non poco con la porticina di legno i miei erano entrati in casa e avevano cominciato a portare i bagagli all’interno.
Dalla porta di ingresso si entrava direttamente in una gran cucina buia e odorosa di muffa, e da quello stanzone partiva una scala ripida e irregolare che portava alle stanze del piano di sopra.
“Che mansarda deliziosa!” sentii dire da mia mamma.
Le camere da letto erano buie, con piccole finestre e il soffitto di travi di legno. Il mio letto era di ferro battuto e aveva una copertina rosa con le frange, ma la cosa non mi consolò: cosa avrei dato per il letto a castello rosso con le lenzuola sempre un po’ insabbiate della mia stanza al mare!
Cominciai di malavoglia a sistemare le mie cose sul comodino: diario segreto, carta da lettere, compiti delle vacanze. Fu allora che sentii mia madre urlare nella stanza a fianco.
Se ne stava lì, con gli occhi spalancati e uno zoccolo del dottor Scholl’s in mano, mentre sul muro di fronte correva un ragnaccio tozzo che non sembrava nemmeno parente di quelli esili e dalle zampe lunghe che vivevano in casa dei nonni.
Gridai anch’io.
Mio padre arrivò di corsa e centrò in pieno con la testa il travone in legno sopra la porta.
Tenendosi la fronte tolse lo zoccolo di mano alla mamma e si mise a menare fendenti qua e là finché il ragno non diventò una poltiglia nera ben distribuita nella fuga tra due conci di pietra.
La mamma mi vide e con tono adulto, mi fece: “era solo un ragnetto, può capitare, nelle case di sasso”.
La sera a tavola l’umore dei miei mi sembrò meno euforico. Mio padre aveva in fronte una striscia rosso vinaccia e mia madre era più taciturna di quando eravamo arrivati, forse anche perché aveva appena scoperto che oltre alla tv mancavano anche lavastoviglie e lavatrice.
Dopo cena papà ci fede ridere scherzando sulle piccole scomodità della casa: la porta del bagno più corta di due spanne rispetto all’apertura, il rumore di ferraglia che faceva il vecchio frigorifero, il boato che sentivi quando tiravi lo sciacquone: “Tanto in casa ci staremo poco, faremo vita all’aperto!”
“Dai che domani ci aspetta il bosco!” disse mia madre. “Adesso tutti a dormire!”
Sognai la casa del mare, con noi bambini che ci rincorrevamo in cortile tirandoci i palloncini pieni d’acqua per rinfrescarci nella calura estiva, quando uno mi colpì direttamente in faccia e mi svegliai con la testa bagnata. La stanza era illuminata a giorno dai lampi, tuonava fortissimo e soprattutto pioveva dentro. Anche i miei erano svegli, e stavano piazzando qua e là dei tegami in prossimità delle gocce che filtravano dal tetto.
“E’ un forte temporale, piove di vento” mi disse mio padre mentre mi faceva posto nel lettone. “Ma domattina sarà tutto finito e andremo al fiume a fare il bagno”.
Il giorno dopo però al fiume non ci andammo, perché diluviava.
“Nel pomeriggio smette, vedrai che si apre” disse mio padre a mia mamma vedendo che cominciava a incupirsi. Ma la pioggia non accennava a diminuire. Eravamo chiusi in casa dalla sera prima, ormai assuefatti alla luce delle lampadine che facevano del loro meglio contro il grigio di quelle mura di sasso.
Il tempo non passava: dalla colazione eravamo passati al pranzo senza essere veramente affamati, giusto per passare il tempo.
Nel pomeriggio le cose non cambiarono: io avevo fatto già la metà dei compiti di italiano, mentre mio babbo tentava di dar fuoco a dei legni umidi per accendere il camino. Ogni tanto dovevamo vuotare i tegami nella mansarda, che goccia dopo goccia continuavano a riempirsi.
Dal piano di sopra arrivavano i colpi cadenzati del tamburo sciamanico della mamma, coperti ogni tanto da un tuono e dallo scrosciare dell’acqua che aumentava e diminuiva senza però smettere mai.
Verso sera io e mio padre stavamo giocando una partita a scacchi quando vidi qualcosa muoversi sulla parete della cucina: un filo lunghissimo che ondeggiava. Era una processione di vermi sottili, che entravano da una fessura sotto la porta di ingresso.
Mi spiegò che erano anellidi innocui che cercavano l’asciutto “ma non c’è bisogno di dirlo alla mamma” disse facendomi l’occhiolino mentre si affrettava a farli sparire nella spazzatura dopo averli schiacciati per bene con un vecchio ferro da stiro.
Ma la mamma stava urlando al piano di sopra.
“Aiuto! Aiutoooo! Formicheeeee!!”
Corremmo su. Le formiche uscivano a decine dalle fessure delle pareti della stanza da bagno, dallo scarico della vasca, da sotto il water, persino dall’interruttore della luce.
E mia mamma le formiche le odiava. Non avevo mai capito come quegli innocui animaletti laboriosi, portati ad esempio per la loro intelligenza, potessero darle tanto fastidio.
Anche se queste, a confronto delle formichine che ogni tanto entravano nella cucina della casa al mare in cerca di qualche briciola di piadina, erano enormi e soprattutto avevano le ali. E infatti cominciarono a svolazzare per tutta la stanza.
E lì, mia mamma perse le staffe.
“Manteniamo la calma, sono solo formiche” tentò di dire mio padre.
“Calma un cavolo, di chi è stata l’idea di venire in questo posto di mer…”
“Abbassa la voce, che c’è la bambina”
“Tu e le tue fregnacce sulla natura e la vita semplice, che se era per me stavo benissimo dai miei come tutti gli anni”
“Che cosa? chi è che ha cominciato a fare yoga e a chiedere un bosco per poter meditare? Lo sai che in natura esistono gli insetti? E a proposito, tutta quella meditazione non ti serve a evitare di urlare se vedi una formica?”
Con le mani sulle orecchie uscii dal bagno per non sentire quei due che litigavano, le voci sempre più alterate, coperte a tratti dai tuoni.
Passando davanti alla loro stanza vidi quello stupido tamburo sciamanico abbandonato a terra. L’albero della vita brillava, illuminato dalla luce dei lampi. Pensai che sarebbe bastato un attimo per aprire la finestrella e lanciarlo fuori, al vento e alla pioggia.
Invece lo presi e cominciai a colpirlo ritmicamente con la bacchetta. A ogni colpo gli ripetevo la stessa cosa: voglio tornare a casa, a casa, a casa…
Il mattino dopo, sotto un’acqua torrenziale, nel buio squarciato dalle saette, due adulti col muso lungo e una bambina rasserenata, rifecero il percorso a ritroso verso la civiltà dei consumi.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.