Quando ero ragazzina, nella mia città campana fatta di luce accecante e di ombre tenaci, avevo fatto amicizia con una ragazza che in altri contesti sarebbe stata definita outsider. Nel mio tempo semplicemente era una che non si lasciava ingabbiare in nessun ruolo.
La accompagnavo a fotografare angoli particolarmente luminosi, oppure immersi nel buio. Perché lei volesse fotografare solo angoli visti dal basso o dall’alto non gliel’ho mai chiesto. Non mi sembrava importante. Il mio ragazzo di allora aveva le guance tonde e la pancia morbida per l’uso eccessivo di carboidrati, ma aveva lance nelle unghie e la sua saliva corrodeva anche la tenerezza. Secondo lui non dovevo mischiarmi a una ragazza equivoca, che si diceva avesse abortito, e che aveva una relazione con un uomo molto più grande. Gli dissi che non potevo rinunciare alle mie immagini di angoli. Mi erano necessarie, attraverso i giri che facevamo insieme, io e la ragazza, sentivo un senso di pace. Intinse le dita nel sugo e mi sputò addosso. Lo lasciai in quel momento, dopo aver leccato il sugo dal pane che stavo mangiando.
Nel corso del tempo imparai anch’io a scovare immagini che parlavano di distanze e di distrazioni. Quelle cose che sfuggono a chi ha lo sguardo facile, non adatto ad assorbire luce e buio con la stessa intensità.
I nostri giri finirono quando mi disse di essere incinta. Non mi diede altre notizie. Mi lasciò la sua macchina fotografica. La sua passione per gli angoli.
Le cose che conservo ancora in tutti i miei traslochi, nella città eterna abitata da un fiume verde e da ponti che non si sono sbriciolati neanche sotto le bombe. Percorro gli argini di quel fiume insieme al ragazzo che amo, e penso a come dev’essere stato per lui vivere qui, circondato da tutta questa immensa bellezza. I suoi occhi hanno il colore verde intenso del fiume che luccica sotto il sole. Il suo corpo è un mistero impastato della stessa contraddizione di luce e buio che trovo nei sanpietrini.
Gli faccio vedere gli angoli che amo, mentre le sue braccia mi stringono senza farmi male. Sento il desiderio come una corda d’argento che gira intorno a noi due e vibra come un diapason.
Per continuare ad amarlo devo essere sola. La mia pelle ha bisogno di essere necessaria a se stessa. Camminando di notte.
Il modo in cui lui mi imbocca. Le briciole croccanti del pane. Anche il suo gomito forma un angolo. Talmente potente da farmi paura. Perché non sono abituata a sapere che dovunque andrò sentirò la sua mancanza e vorrò sempre le sue braccia addosso. Il desiderio mi espone alla mancanza, alla perdita. La distanza fatta di tutta la vita che ci attraversa. Rapida.
Gli angoli di città socchiusi come imposte ci guardano.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.