Il telefono

Appena Nic si sta per addormentare il suo telefono squilla. Non c'è verso di farlo smettere

Da qualche giorno non dormo bene, ma non sarebbe questo il vero guaio. Il fatto è che non dormo perché succede sempre qualcosa appena sembra che io stia prendendo sonno. Dico “sembra” perché nel sogno vedo la mia stanza, e tutto è lì come l’ho lasciato quando sono andato a letto: la finestra coi giornali al posto dei vetri, i miei vestiti ammassati per terra come stracci, la muffa che incrosta il soffitto, le bottiglie di Klevelich vuote sopra il comò.
Così quando quella cosa succede e io riapro gli occhi, non so mai se stavo facendo un incubo oppure se ero ancora con tutte le scarpe dentro la mia sporca, insensata realtà.
Fatto sta che anche l’altra notte mi sveglia lo squillo del telefono. Lo tengo sotto il cuscino perché ho paura che i ladri vengano a rubarmelo. È l’unica cosa di valore che possono sottrarre da qui dentro. Insomma lo prendo, rispondo, e all’altro capo sento una voce di donna che dice: “Niccolò, il suo credito sta per esaurirsi. La consigliamo di effettuare al più presto una ricarica”.
Con la voce impastata le rispondo di farsi i cazzi suoi, ma il messaggio è uno di quelli preregistrati, per cui il mio insulto rimane senza repliche. Mi rimetto a dormire, ma quando sto per renderla a Morfeo il telefono suona di nuovo, ed è sempre la stessa donna finta di prima che ripete il suo mantra: “Niccolò, il suo credito sta per esaurirsi. La consigliamo di effettuare al più presto una ricarica”.
Riattacco e cerco di nuovo di appisolarmi, ma il telefono squilla sul più bello un’altra volta, e la scena di prima si ripete tale e quale. La cosa va avanti per tutta la notte, finché all’alba l’apparecchio smette di cicalare. A quel punto ho talmente i nervi a fior di pelle che non ho più voglia di dormire, solo di bere semmai, infatti vado in cucina, apro un’altra bottiglia di Klevelich e dopo che l’ho quasi svuotata l’aggiungo alla collezione di quelle già accatastate sul comò.
La mattina sul presto decido di andare in un centro di assistenza. Ci arrivo a piedi, è distante un isolato e mezzo. Ad accogliermi c’è un commesso coi capelli gelatinati e la faccia da classista. Gli spiego il problema, che è così assurdo che infatti lui di primo acchito non ci crede.
“Mi sembra strano, signore” dice facendo una smorfia col naso come se sentisse puzza di cacca. “Al massimo la cosa potrebbe dipendere da un’interferenza. Durante la notte tenete vicini i vostri cellulari, lei e sua moglie?”.
Lo guardo serio.
“Mia moglie non c’è”, gli dico.
“Capisco” fa lui.
“Mi ha lasciato”.
“Mi spiace”.
“Due anni fa è scappata con un tester di coupon”.
“In ogni caso” ribadisce lui, “mi faccia dare un’occhiata al suo telefono”, e prende un cacciavite, svita il coperchio e comincia ad armeggiare con la scheda madre. Dopo un po’ mi fa: “C’è un’incrostazione sul citoplasma, guardi…” e mi mostra l’interno dell’apparecchio, in particolare indica una specie di membrana gelatinosa che avvolge in una sorta di bolla tutte le componenti elettriche. “Adesso ci penso io, signore”. Prende una scatola di cotone idrofilo, ne stacca un batuffolo, lo intinge di un liquido bluastro e con gesti lenti comincia a pulire la pellicola. Alla fine dice: “Ora è tutto a posto. Non avrà più problemi, stia sereno”. Richiude il telefono e me lo riconsegna. “Sono 25 euro per l’assistenza” sentenzia.
Mi frugo nelle tasche. Tiro fuori i soldi. Tra spiccioli e carte arrivo solo a 19 euro e 77 centesimi. Guardo il commesso grattandomi la nuca.
“Facciamo che questi bastano” dice lui rifacendo la stessa smorfia di prima. “Ora se ne vada”.
Torno a casa e passo il resto della giornata a bere birra. Quando arriva sera mi faccio gli impacchi di acqua fredda sulla fronte (soffro di sinusite psicosomatica) e poi me ne vado a letto. Ho un certo ammanco di sonno da riscuotere. Non devono essere neanche le undici quando sto per passare al primo stadio dei sogni e quel maledetto telefono ricomincia a suonare. Mi alzo di scatto, sollevo il cuscino e lo agguanto con un gesto scomposto, flettendo cioè il gomito verso l’esterno, tanto che vado ad intruppare la bottiglia di Klevelich ancora finita, che per il colpo finisce a terra sgocciolando su un maglione di lana caprina che ho lasciato lì da non so quanto tempo. Rispondo al telefono e c’è sempre la stessa signora della sera prima: “Niccolò, il suo credito sta per esaurirsi. La consigliamo di …”. Interrompo con uno strillo strozzato la comunicazione. Il telefono poco dopo risuona, e a quel punto decido di smorzarlo pigiando sul tasto OFF/LINE. L’apparecchio si spegne emettendo un suono monofonico che somiglia ad una scampanellata. Così non mi disturberà più. Perché non ci ho pensato prima? Adesso per l’eccitazione di aver risolto i miei problemi quasi mi è passato il sonno.
Il cellulare si riaccende e squilla di nuovo. Non credo alle mie sporche orecchie. Lo riprendo e mio malgrado rispondo.
“Niccolò, il suo credito sta per esaurirsi. La consigliamo di effettuare al più presto una…” sovrasto la voce della telefonista sparando un bestemmione dedicato a Gesù Cristo e a tutta la sua schiera di angeli serafini. Poi rispengo il cellulare, che però tempo due minuti si rimette a suonare. Lo rispengo, ma quello risuona, e così fino a che non spunta il sole fuori dalla mia finestra di giornali.
Il giorno dopo torno al Centro Assistenza. Dietro al bancone non c’è il commesso laido della volta precedente, ma una ragazzina che deve aver superato l’esame di maturità qualche ora prima. Sta parlando al telefono.
“Dai? Ma davvero, dici? E dove… dove?”.
Le faccio segno che ho una certa fretta, ma lei a sua volta mi fa il segno di aspettare.
“Uhm… ma che dici…? ma no…!”.
Le indico il mio cellulare facendole intendere che ho proprio bisogno di parlare con lei.
“Ma non mi dire… e quando è successo?”.
Nell’attesa uso il lato corto del telefono per grattarmi il sedere. Soffro di emorroidi, anch’esse psicosomatiche.
“E lo ha baciato proprio lì?” la commessa scoppia a ridere, una risata da oca giuliva.
“Senti, adesso ti saluto che c’è un cliente con la faccia da fesso che mi vuole parlare. Ciao bella, a stasera!”.
Attacca, mi guarda e sprigiona un sorriso di plastica,
“Come posso esserle d’aiuto, signore?” mi chiede.
“Questo telefono è stregato” gli rispondo.
“Prego?”
“Suona e parla da solo, mi capisce?”.
“No”.
“Mi perseguita, perdio. Mi sta facendo ammattire!”.
“Signore, se vuole può comprane un altro”. Si gira verso la scaffalatura alle sue spalle. “Abbiamo in offerta un modello con un display da 5 punto otto pollici…”
“No grazie”.
“…64 gigabyte espandibili…”
“Le ho detto di no, signorina”.
“…una Ram da 3 gigabyte…”.
“None!”.
“…una batteria da 3000 millampereora…”.
“No, perdio!”.
“… e una Dual Sim che…”.
“Signorina, non mi interessa un telefono nuovo. Io voglio il mio, ma prima dovete fargli un esorcismo”.
“Non capisco, signore. Può cederlo in permuta se vuole. In cambio può avere un nuovo telefono con Processore Octa-Core 1.2 GHz, memoria interna da 16 GB, 2 GB Ram, fotocamera 13 MP, e una…”.
“Lei mi sta stressando, signorina. Faccia qualcosa per rilassarmi. Che ne dice di un ciuccio?”.
“Prego?”
“Un’intervista. Un soffocotto. Come cazzo li chiamate voi giovani?”
“Signore, se ne vada o chiamo la polizia”.
La lascio lì e torno a casa.
Passo la giornata a giocare ad Animal Crossing sul cellulare. Il mio obiettivo è consumargli la batteria. Ci riesco, così la sera vado a letto più tranquillo. Senza carica elettrica quell’aggeggio non ha più alcun potere su di me.
Sto per prendere sonno quando il telefono resuscita e si mette a suonare. Rispondo: “Niccolò, il tuo credito sta per terminare, che aspetti?” il contenuto della registrazione adesso è più secco, più confidenziale.
Ho bisogno di testimoni. Mi alzo portandomi dietro il cellulare ed esco dal mio appartamento. Abito al secondo piano. Scendo una rampa di scale, mi fermo al primo e suono a Dario Di Napoli. Mi apre la sua vecchia che avrà quasi ottant’anni.
“Niccolò, che cosa vuoi a quest’ora?” mi dice acida.
“C’è Dario?” gli chiedo.
“Sì, è di là che guarda la Tv”.
“Posso entrare?”
“Tornatene a casa. È tardi”.
“Gli devo parlare, solo qualche minuto”.
“Entra, allora”.
Entriamo e mi porta in salotto, dove c’è il mio amico davanti alla TV con le mani dentro le mutande che guarda un monologo teatrale di Belén.
“Nic, che diavolo ci fai qui a quest’ora?”.
“È successo un fatto grave, Dario”.
“Vieni, siediti. Non lì, quella poltrona ha la molla rotta. Su quell’altra, quella con la federa strappata. Allora, che ti succede?”.
“Te l’ho detto. Un fatto grave”. Esito. La vecchia di Dario è rimasta lì in piedi a guardarci con aria sospettosa. Lui si volta verso di lei.
“Lasciaci sola, brutta strega. Non vedi che il mio amico ha un diavolo per capello?”.
La vecchia lo guarda male, poi guarda male anche a me. Alla fine se ne va, da qualche parte nella casa.
“Allora che succede, Nic?”.
“Succede che questo telefono ce l’ha con me”.
Lo tendo verso di lui.
“Che intendi dire?”.
“Che non mi fa dormire, Dario. O perlomeno suona appena sto per riuscirci”.
“Chi è che ti chiama?”.
“Nessuno. È il gestore telefonico che mi avverte che sto esaurendo il credito”.
“E ti chiama a ripetizione?”.
“Si”.
“Strano”.
“Già”.
“Avrai inserito qualche impostazione di chiamata automatica”.
“No, non ho fatto niente di tutto questo”.
“Ma dev’esserci una spiegazione. Hai pensato di chiamare direttamente l’azienda telefonica per capire se c’è qualche problema?”.
No. Non ci avevo pensato.
“Potrei farlo, Dario. Ma il fatto è che non credo più di riuscirci. Di reclamare loro qualcosa, intendo. Oggi ho fatto fatica ad entrare in un bar e ad ordinare un caffè”.
“Che ti succede, amico?” mi fissa con aria preoccupata. “È da quando Miriam ti ha lasciato che non sei più lo stesso”.
Lo guardo e deglutisco. Un fiotto amaro di saliva mi scivola giù per la trachea.
“Il fatto è che” gli dico “non sento più niente. Per niente intendo niente. È come se questo cazzo di telefono suonasse ogni volta per ricordarmelo”.
Lo osservo mentre senza rendersene conto è tornato a grattarsi le palle.
“Io sono vuoto, Dario”.
“No, tu sei stressato, Nic”. Si alza dal divano e mi viene incontro. Mi alzo pure io. “Dobbiamo berci su, soltanto che ho finito le riserve”.
“Ci penso io. Ho una bottiglia di Klevelich sigillata a casa. Aspetta che torno”. Sto per andare via quando guardo il telefono che luccica nella mia mano. “Posso lasciartelo mentre vado su?”.
“Certo” fa lui, e lo prende.
Esco dall’appartamento di Dario, salgo su, entro in casa, vado in cucina, apro il frigo, prendo la vodka ed esco di nuovo. Scendo giù. Dario è sulla porta di casa, con un viso bianco come la pagina word di uno scrittore in crisi.
“Che succede?”.
“Succede che te ne devi andare, Nic!” e mi riconsegna il cellulare.
“Mi spieghi che cosa c’è che non va?”.
“C’è che appena sei salito io mi sono appisolato sul divano, e a un tratto ho sentito il frastuono di mille campane. Ho aperto gli occhi e ho visto che quell’aggeggio infernale mi era saltato sull’orecchio – io l’avevo posato sul cuscino! – e si era messo a squillare a tutto volume. Ho risposto e c’era una voce di donna che mi diceva che dovevo lasciarti stare, altrimenti sarebbero stati guai per me e per la mia famiglia”.
Dario è tutto sudato mentre parla.
“Mi ha fatto paura, cazzo” tira giù uno sbuffo. “Vattene, Niccolò, non voglio più vederti” e fa un balzo all’indietro e mi chiude la porta in faccia.
Torno su. È notte fonda. Rientro in camera, i giornali si sono staccati dall’intelaiatura della finestra, e da fuori entra un’aria gelida. Adesso siamo di nuovo solo noi due, io e il telefono. Entrambi combattuti tra la voglia di parlare e quella di sparire. A me viene sonno, e infatti sto per addormentarmi in piedi, come i cavalli.
Di lì a breve l’aggeggio risuona. Mi desto e rispondo. Dall’altra parte c’è una voce che riconosco.
“Amore, sei tu?”.
Col cuore nello stomaco riaggancio. Quando infilo le mani tra i capelli il telefono squilla di nuovo.
Rispondo: “Amore, se sei tu lasciami parlare. Devo dirti qualcosa di molto impor…”.
Riattacco, e stremato mi butto sul letto a bocconi. Vorrei che tutto fosse diverso. Che il mio mal di stomaco fosse diverso, meno psicosomatico, più congenito.
Rieccolo che squilla. Dovrei renderla a Dio, così non sentirei più il suo trillo che suona di rimprovero, di emergenza da affrontare. Mi metto seduto e rispondo per la terza volta.
“Niccolòòòòò…” riecheggia quella voce, come se provenisse dal fondo di un pozzo. “Io ti amo ancora, Niccolò. Hai capito? Io ti amo ancora!”.
“Vaffanculo Miriam!” urlo, “è tardi ormai!” Mi alzo in piedi e scaravento il cellulare sul muro. Si rompe in mille pezzi. “È tardi!” continuo ad urlare, “è troppo tardi, brutta troia!” e senza un briciolo di premeditazione mi avvicino alla finestra rotta sporgendomi sul gocciolatoio. “È tardi, avete capito tutti, brutti figli di puttana?!”. La mia voce rimbomba all’esterno, propagandosi tra le sagome scure dei palazzi circostanti. Da quello di fronte si accendono luci all’interno degli appartamenti. Odo voci incazzate di gente che dormiva. Da un balcone si affaccia un signore pelato che mi guarda storto.
Lo fisso con aria colpevole. Poi alzo le mani in segno di scusa. Devo essere pazzo, pazzo sul serio.

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