1.
Percy era morto, ne era quasi sicuro: non si avevano sue notizie da giorni e anche la lettera dell’8 luglio non aveva ancora ricevuto alcuna risposta. Avrebbe dovuto dirgli che quel caldo afoso e opprimente non prometteva nulla di buono ma, quando il pensiero l’aveva sfiorato, era restato muto. A ogni modo era circolato un bollettino della Capitaneria di Porto di Livorno che metteva in guardia i naviganti dal pericolo imminente ma che Percy aveva bellamente ignorato: “precederemo la tempesta,” aveva commentato, strafottente, facendo rotta verso Lerici.
George iniziava a sentire il tendine del piede destro tirare dolorosamente, per cui aveva deciso di rallentare. Detestava quella menomazione che lo costringeva a zoppicare: il suo corpo non riusciva mai a stare al passo con la sua mente. Si appoggiò a un albero per rifiatare e alzò gli occhi: i pini coprivano totalmente il cielo, ormai il sole stava tramontando e doveva fare presto, l’aria era densa di umidità e lasciava presagire l’arrivo di un temporale; mancava poco, riprese con quell’incedere incerto diretto verso la striscia di luce che si iniziava a intravedere lì dove finiva la macchia verde.
George arrivò al confine tra la fitta pineta e la costa sabbiosa, con le dune che si ergevano di fronte a lui: la sua figura claudicante ondeggiava sulla sabbia; portava ancora i vestiti del mattino ma non se ne curava minimamente, continuava a dirigersi in direzione del mare, alle sue spalle le Apuane svettavano maestose; fece un ultimo sforzo mentre sentiva i muscoli bruciare, finché non si ritrovò faccia a faccia con quel mare che probabilmente s’era portato via Percy. Per sempre.
George s’era soffermato a osservare le grandi onde schiumose che ritmicamente smuovevano la scia di conchiglie depositata sulla battigia e all’improvviso si ritrovò a ridere fragorosamente: Percy era forse la persona al mondo con la più alta considerazione del suo talento, ma non aveva mai pensato a lui come a un amico. Certo, ora che Percy se n’era andato, George era rimasto solo come un cane, ma proprio lì, al Gombo, su quel tratto di spiaggia sconvolto dalla salsedine e dal vento, George sentì che, per la prima volta nella sua vita, non doveva più rendere conto di niente a nessuno e avvertì dentro di sé uno strano misto di euforia, solitudine e annichilimento: anche lui si sentiva finalmente pronto ad andarsene ma non sapeva ancora in che modo questo destino inevitabile si sarebbe manifestato.
Cadde a sedere sulla sabbia bagnata e restò a guardare il mare venato dall’arancione dei pochi raggi di sole che riuscivano a penetrare la fitta coltre di nubi all’orizzonte, lasciò che la schiuma delle onde lo raggiungesse, quindi si stese a guardare il cielo plumbeo e aspettò che la pioggia gli cominciasse a scendere addosso: pioveva sulla sua finissima camicia già madida di sudore, sui suoi pittoreschi capelli ondulati appiccicati sulla fronte; pioveva sui suoi pallidi tratti anglosassoni, pioveva sul suo ruvido sorriso e sulle sue folte sopracciglia aggrottate.
Baciato dalla pioggia George si sentiva ricolmo di una felicità inspiegabile, simile a una liberazione: le sue preoccupazioni erano scemate del tutto quando dalle palpebre socchiuse intravide un bagliore di luce azzurra venire dal mare. Incredulo, si risollevò immediatamente sui gomiti: poco più avanti l’acqua sembrava come ribollire. George si alzò in piedi e mosse ancora qualche passo, immergendosi fino alla vita; guardando verso l’orizzonte vide, non lontana, una goletta a due alberi che faceva rotta verso il largo: sembrava proprio “Ariel”, la barca di Percy… possibile? Strinse gli occhi cercando di leggere il nome scritto sul fianco dell’imbarcazione ma non ebbe il tempo di mettere a fuoco le lettere che un’ondata bollente lo travolse. Si sentì trascinare a fondo dalla corrente, si divincolò e finalmente riuscì a trascinarsi via risalendo fino alla battigia: evidentemente non era ancora arrivato il suo momento. Quando si risollevò ebbe l’impressione di scorgere un piccolo corpo nudo galleggiare sul pelo dell’acqua; osservandolo meglio si rese conto che si trattava di una bambina di circa cinque anni: teneva le gambe unite fino alla punta dei piedi, le cui dita combaciavano perfettamente, e le braccia erano allungate sopra la testa, sfiorate dai riccioli biondi, con i palmi rivolti verso il cielo come i petali di un fiore; la testa, inizialmente chinata all’indietro, si erse improvvisamente e uno sguardo vuoto e si soffermò su di lui; George sgranò gli occhi, un brivido freddo lo riscosse e non ebbe il coraggio di sostenere ulteriormente lo sguardo ma neanche se la sentiva di affrontare l’onta della fuga. Chiuse semplicemente gli occhi intanto che una voce al tempo stesso candida e stridula lo raggiungeva:
“My dear Papa, non vuoi venire dalla tua Allegrina che ti ama tanto?”
Quando riaprì gli occhi si rese conto che il mare, stranamente, era tornato tranquillo: nessuna traccia della bambina. Non lontana dall’orizzonte restava solo la goletta a due alberi che faceva rotta verso il largo. Qualcosa non gli tornava, cercava di pensare ma il cuore che pulsava furiosamente glielo impediva: si trattava forse di uno scherzo di pessimo gusto? O magari di un sogno? E che c’entrava Allegrina? Non riuscendo a trovare una risposta, decise che era ora di rientrare, risalì le dune pensieroso e si avviò sul sentiero che lo conduceva là dove la carrozza lo stava aspettando.
George, più pallido del solito, era stanco, sconvolto e infreddolito per il bagno in mare. Chiese al servo di passargli una coperta e si accomodò sulla carrozza. Si coprì e tenne lo sguardo fisso fuori dal finestrino per tutto il tragitto verso Pisa. Avrebbe solo voluto dormire, ma non riusciva a togliersi dalla testa quella voce inquietante e la visione di quella bambina che con tutta probabilità, per quanto potesse sembrare assurdo, doveva essere proprio sua figlia.
Ormai era calata la sera, il temporale era passato e sui Lungarni era tornata una piacevole calma estiva. George si tolse la coperta e scese dalla carrozza proprio di fronte a Palazzo Lanfranchi. Hobhouse andò a salutarlo e si meravigliò di trovarlo fradicio come un pulcino. George glissò, non sapeva cosa raccontare e comunque era troppo stanco per farlo, magari gli avrebbe fatto un resoconto l’indomani.
Teresa si accorse che George era rientrato soltanto perché, passando di fronte alla camera, lo vide seduto davanti alla finestra assorto nel contemplare la luna. L’aria sapeva di schiuma e sali da bagno. Gli si avvicinò con dolcezza, ma lui sembrava inquieto e distratto: “tesoro, tutto bene?” Gli chiese un po’ titubante.
Lui fece di sì con la testa: “Sono molto stanco, ho solo bisogno di dormire.”
Le baciò la mano per congedarla e lei lasciò la stanza con aria interrogativa.
Una volta solo, George iniziò a sfogliare le lettere che conservava nello scrittoio: erano tantissime. Finalmente trovò quella di Allegra, datata 28 settembre 1821:
“My dear Papa, non vuoi venire dalla tua Allegrina che ti ama tanto?”
Ebbe un tuffo al cuore. Non era mai andato a trovarla da quando l’aveva fatta portare al convento di Bagnacavallo; non si era scomodato neanche quando gli avevano fatto sapere della grave malattia e quindi, poco tempo dopo, del decesso. Aveva giusto disposto che il corpo fosse rispedito in Inghilterra. Nonostante si fosse ritrovato per le mani un ritratto della bambina, si rese conto di non essersi mai soffermato a guardarlo. Solo in quel momento realizzò che non aveva la minima idea di che aspetto avesse sua figlia poco prima di morire. Riaprì nervosamente tutte le lettere degli Shelley, ma non riuscì a scovare niente di utile a parte qualche descrizione relativa al pronunciato pallore del volto della bambina.
2.
Il giorno dopo George si svegliò con un’ansia febbrile addosso. Andò subito a chiedere al servo se fossero giunte notizie da Mary o, eventualmente, da Percy stesso. “Sono desolato, signore, ancora niente.” George imprecò ad alta voce e si precipitò nelle sue stanze, trasse d’impulso carta e penna dallo scrittoio e si mise a scrivere una brevissima lettera indirizzata al convento San Giovanni di Bagnacavallo:
Reverendissima Madre Superiora Fabbri,
Fatemi recapitare al più presto quel ritratto di Allegra ad acquarello, ve ne prego. Si tratta di una questione riservatissima ed estremamente urgente! Vogliate distruggere questa lettera subito dopo averla letta.
Rispettosamente,
George Byron
Quelle poche righe lo resero più tranquillo, come se scrivendole fosse riuscito a togliersi un enorme peso di dosso, ma il suo viso era ancora molto pallido e anche l’andatura era più claudicante del solito. Dispose affinché la lettera fosse spedita immediatamente, quindi consumò un pranzo leggero e si fece preparare la carrozza per il primo pomeriggio. Questa volta chiese a Hobhouse di accompagnarlo ma nel tragitto verso la tenuta non aprì bocca, disattendendo i numerosi inviti al dialogo del suo amico. Prima di riferire di quegli strani accadimenti avrebbe chiarito una volta per tutte che cosa stesse davvero accadendo.
Il clima era lo stesso del giorno prima, faceva un caldo umido opprimente; per un po’ George procedette sullo stesso percorso quindi si fece distrarre da un rumore insolito che lo incuriosì: un brusio sordo di voci, come se nella macchia si stesse svolgendo una processione. Per seguirne le tracce imboccò un sentiero verso nord e poco dopo si ritrovò in una radura che non gli sembrava di avere mai visitato prima. All’improvviso, davanti ai suoi occhi, comparve un dromedario, il mitico vascello del deserto! Alto e maestoso se ne stava quasi immobile a ruminare l’erba. Dalla sua prospettiva George non si rese subito conto che sulla sua gobba aleggiava una elegantissima bambina dai riccioli biondi intenta a punzecchiare il povero animale e a tirargli i peli. Di nuovo Allegra? Che cosa veniva mai a significare? L’atmosfera era molto rilassata e i raggi del sole illuminavano il volto ceruleo della bambina, estremamente disteso e sorridente. George pensò che non era proprio il caso di interrompere quell’idillio, avrebbe mantenuto esattamente il contegno che aveva seguito finché Allegra era in vita: non si sarebbe fatto vedere! Ma la bambina si voltò immediatamente verso di lui guardandolo con lo stesso sguardo vuoto e rivolgendosi a lui con la medesima voce stridula del giorno prima:
“My dear Papa, non vuoi venire dalla tua Allegrina che ti ama tanto?”
“Sei tu, Allegra?” Balbettò George.
“Perché non vuoi venire dalla tua Allegrina che ti ama tanto?”
“Sono pronto, dimmi solo che cosa devo fare per raggiungerti.”
“my dear Papa, cos’hai capito? Io ho solo voglia di giocare un po’. Se davvero desideri morire dovrai deciderti a lasciare questo posto fuori dal tempo.”
Più che dalla visione della figlia morta, George fu turbato dalle sue ultime parole: se le cose stavano veramente così allora aveva sbagliato tutto, come minimo aveva male interpretato la volontà del fato, le tracce, i richiami mortali che gl’erano stati inviati. Per liberarsi da questo pensiero George si lanciò in una folle corsa zoppicando forsennatamente verso il mare fuori dal sentiero tracciato: in quell’incedere frenetico tranciava ramoscelli con le braccia, col corpo e col volto, si rotolava nella fanghiglia delle maglie; in un batter d’occhio si ritrovò fuori dalla macchia e finalmente crollò sulla sommità di una duna. Pancia a terra, guardando verso l’orizzonte, vide di nuovo la goletta a due alberi che faceva rotta verso il largo: si trattava proprio “Ariel”, la barca di Percy! In una virata era riuscito a scorgerne il nome. Mentre aggrottava la fronte e stringeva gli occhi per metterne a fuoco le lettere, diverse gocce di sudore gli colarono sugli occhi dalle folte sopracciglia; d’un tratto la goletta scomparve e il mare si trasformò in un mondo accecato, come visto attraverso un fondo di bottiglia. George si asciugò il sudore con le mani sporche di fango e di sabbia: la goletta era davvero sparita, in compenso, alla sua destra, era comparso un gruppetto di persone nero-vestite riunito attorno a un falò. George si ritirò su con le sue ultime forze; osservando meglio si rese conto di conoscere quelle persone: c’era Mary e c’erano Trelawny, Hunt… con una morsa alla bocca dello stomaco si rese conto che lì in mezzo c’era pure lui, George Byron! Possibile? Avrebbe voluto restare vigile, lucido, ma, complice l’estrema spossatezza, alla visione di se stesso ebbe tosto un mancamento; quando rinvenne non c’era più nessuno ma il fuoco era ancora vivo e la colonna di fumo continuava a salire verso il cielo; si rialzò in piedi e si avvicinò ulteriormente: un odore fortissimo gli penetrò le narici, il fumo gli fece di nuovo lacrimare gli occhi. Quando fu a pochi passi vide distintamente il corpo di un uomo bruciare sulla pira: teneva un libro stranamente intatto tra le mani incrociate e il cuore, rimasto in sede ma ben visibile dall’esterno, batteva furiosamente e grondava sangue d’un rosso vivo. George. Inorridito, si obbligò a non fuggire via e, mentre anche il suo cuore impazziva, cercò di studiare meglio quel corpo concentrandosi sul volto: il fuoco aveva aggredito le carni e l’aveva reso irriconoscibile. Si accorse però che la copertina del libro era leggibilissima: si trattava dell’Adonais! Allora quello non poteva che essere il corpo di Percy… Ma che fine avevano fatto tutti gli altri? Si era avvicinato talmente tanto ai poveri resti inceneriti che il fumo gli aveva fatto mancare completamente l’aria. Perse di nuovo i sensi e quando rinvenne si ritrovò sulla sua carrozza lanciata velocissima verso Pisa: Hobhouse, fuori di sé, gli stava tenendo la testa mentre reiteratamente gridava “George, George, George…”. George sollevò appena la testa quindi, d’istinto, si guardò le mani: erano sporche di fango, di sabbia e di sangue, così come lo erano anche i suoi vestiti. A ogni modo di una cosa era certo: si sentiva benissimo, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno ristoratore. Ammesso che quel sangue fosse vero non poteva di certo trattarsi del suo, doveva quindi essere il sangue di Percy… non gli venne in mente nessun’altra spiegazione. In mezzo a quella totale confusione, con Hobhouse che continuava a gridare e i cavalli a galoppare vorticosamente, George si sentì di nuovo pervadere da quella pace totale che aveva provato anche il giorno prima sulla spiaggia del Gombo. La decisione era presa: doveva assolutamente lasciare Pisa e andare incontro al proprio destino, non c’era altro tempo da perdere. Eppure sentiva che un giorno sarebbe tornato al Gombo: finalmente avrebbe trovato le parole per dire a Percy di non partire e il tempo… il tempo per salire sul Dromedario a giocare con Allegrina. In quel giorno ogni cosa avrebbe acquisito un senso e sarebbe stato perfino possibile raccontarla a Hobhouse. Ma intanto non poteva far altro che fuggire via da quel posto fuori dal tempo.