Giorno e notte

Diventare una donna forte e il suo prezzo. Un racconto di Ilaria Palomba

Avevo appeso al trabiccolo una corda. Mia madre si alzava ogni notte e prendeva la chiave, i passi salivano e io ridisegnavo i gradini con gli occhi, mi nascondevo nelle pieghe del cuscino, inventavo le orchidee, slargavo la bocca dei fiori. Quando tornavamo dalle passeggiate in bicicletta mio padre aveva le iridi simili a laghi ghiacciati, potevo guardarvi nel fondo e vedermi riflessa. Al mattino percorrevamo il sentiero fino alla vasca artificiale in bicicletta, la luce sulle margherite, sui pioppi, sugli ulivi, i raggi a iridare covoni e gli occhi suoi ceruli erano vivi e avevano il colore del tempo. Salutava i contadini togliendosi il berretto, mio padre, e il volto si disfaceva in una raggiera di rughe vermiglie, m’insegnava a stare in equilibrio, a non curarmi degli sguardi; alle sei del mattino il sole alto, chiarissimo, delle campagne lucane ci rendeva radiosi, il frinire delle cicale e il fragore delle bici sull’asfalto scosceso ci cullava. Alle sette del mattino lui risaliva il viale e mi trovavo sulla bici con il busto piegato per arrivare al manubrio, la vasca si allungava e baluginava glauca, nell’acqua il riflesso lussureggiante dei rami, avevo voglia di entrarvi e saggiarne la profondità.

L’odore del sugo di cinghiale, la pentola sul fuoco, la gonna a quadri di mia madre, i tre colpi di tosse e la voce arrochita.

Così presto?

Mancava l’ultima.

Si voltava, mi guardava e le sue labbra erano una rosa. Mi sembrava bellissima nella fuliggine di quegli occhi bistrati così fitti da nasconderne l’espressione.

Che hai imparato oggi?

A contare.

Bugiarda. Ogni giorno dici le stesse cose.

Alzavo le spalle e lei mi prendeva per i capelli. Mi mettevo le mani sulla testa, aspettavo le passasse, le passava sempre e le passava pure la fame, a me invece non passava mai. Quando finivamo strofinava la spugna sulla pentola e io la ingannavo con il quaderno e i libri aperti fingendo di studiare, in realtà facevo il calco di una fotografia di mio padre da giovane, in dieci fogli replicavo il suo volto e venivano fuori dieci padri diversi. Quando mia madre controllava aprivo uno a caso dei libri e sottolineavo e trascrivevo una a caso delle frasi sottolineate, aspettavo di sentire il rumore delle chincaglierie della cucina per riprendere le minuzie della mia ricomposizione. 

Alle sette di sera mio padre tornava e la luce delle candele lacerava lo spazio in un’atmosfera sepolcrale. I suoi occhi cristallini si facevano torbidi e la raggiera di rughe assomigliava alla ruota di un carro, nel sorriso aveva qualcosa di guasto che mi stracciava. Nascondevo i disegni, portavo via libri, quaderni e fotografie, correvo in camera e aspettavo che i rumori si manifestassero come fatture.

Dalla mia stanza sentivo le voci, ingannavo i rumori masticando la cera delle candele, alle pareti sui chiodi affiggevo i disegni e mio padre mutava volto, gli occhi prendevano vigore, si allungavano, rifulgevano, talvolta in lui balenava una scintilla diabolica. Le voci arrivavano confuse e dimenticavo l’odore del fiato che per poco mi si era attaccato ai vestiti, dimenticavo il colore scuro delle mani di mio padre, le linee dei palmi marcate dal ferro. Gli sentivo nel tono un’acuzie che lo allontanava dal padre del mattino, della bici e della vasca e nei disegni indovinavo il colore dei suoi occhi. In uno di quei volti appariva un teschio e mi veniva incontro ialino, per la gola mi afferrava e si decomponeva. Figure di plasma si formavano nel buio, si slanciavano nella fiamma delle candele per estinguersi a contatto con le pareti. Erano repliche dissimili del prototipo della fotografia e finivano per somigliare al teschio e nel teschio si estinguevano, non cessavano di avvilupparmi finché non avvicinavo la fronte alla candela; ciocche di capelli finivano nella fiamma, si carbonizzavano, diventavano rovi.

Serravo la porta con due mandate di chiave, lo facevo quando sentivo il rumore dei vetri infranti. La notte lasciavo almeno una candela accesa e guardavo il cerchio di luce sul soffitto, lasciavo apparire le ombre, provavo a chiudere gli occhi ma le ombre li disserravano. I rumori si acuivano, le lancette scandivano i respiri; all’una mia madre bussava, fingevo di dormire, bussava più forte. Diceva: Marisa, Marisa, non chiuderti dentro. Aprivo e le consegnavo la chiave. Una notte non me la restituì.

Mio padre entrò in camera alle tre di notte ed era il teschio, io non ero Marisa, ero il lago della vasca del mattino. Le mani di mio padre avevano le linee cancellate, nella vasca i contadini gettavano le falci, si tramutavano in teschi, nuotavano fino all’altra sponda e all’altra sponda era notte. Gli occhi di mio padre erano falci, nella vasca mio padre non aveva occhi, i bulbi oculari cavi traboccavano vermi. Nuotavo e le correnti mi portavano in basso, cerchi concentrici mulinavano intorno alle gambe, avviluppata da serpi d’acqua non potevo muovermi. Nella vasca la graticola di ferro aveva la voce del vento, batteva alle finestre e frantumava i vetri. Negli occhi di mio padre la luna era una falce, si sfilacciava fino alle ossa e io ne recuperavo i resti. Nelle ossa della notte mio padre sputava sangue, nei grumi di sangue le nostre corse in bicicletta sul viale, il berretto e i contadini, il pullman su cui saliva alle sette del mattino, l’odore di alcol e i lividi sulle gambe di mia madre, gli occhi cavi del teschio e tutte le figure di plasma si sfilacciavano nella fiamma; le candele spente, il ticchettare dell’orologio. 

Uscii dal lucernario, una luna grandissima del colore del fuoco illuminava l’edera. Ripercorsi il sentiero fino al tratturo, raggiunsi la vasca. I rami erano artigli e le sagome bianche dei contadini vi si muovevano intorno con candele in mano, pregavano. Mi unii a loro a mani giunte, cercai i loro occhi, non avevano pupille. Ritrovai il teschio, mio padre, il disegno. I volti si decomposero.

Questo non è il posto tuo, dissero le sagome di plasma. Vattene adesso o non tornerai più.

Mi trovarono alle quattro di notte, dissero che guardavo la luna dal lucernario, c’era stata un’eclissi, la luna era diventata fulva, grandissima, sembrava riassorbire la terra. Mia madre sfilò la corda e mi cullò portandomi al petto. Mio padre non volle vedere, non seppe mai quanto del suo incubo fosse precipitato in me. Ero ancora nelle terre intermedie, vagavo nel confine tra gli esseri di plasma, ridisegnavo i volti del teschio e scolpivo sulle pareti orchidee che si allungavano in falci. 

Santa, Anna, Santa Lena, Santa Maria Maddalena, disse mia madre e le parole morirono tra le labbra. Giura sul sangue che se la figlia tua si sveglia non bevi mai più.

Mio padre si fece il segno della croce. Andò in cucina e tornò con le forbici. Mia madre m’incise una croce sulla camicia da notte. Mi tagliò i capelli. E sminuzzò la corda.

Santa Maria, Vergine mia, aiuta la figlia mia.

Mise i capelli sulle abrasioni, cosparse di nero i lividi viola e accarezzò il collo. Mio padre s’inginocchiò. Le sollevò il vestito e sembrò accorgersi per la prima volta dei lividi che lui le aveva provocato. Ero diventata l’occhio con cui mio padre vedeva sé stesso e li guardavo dall’alto degli esseri di plasma, dalla superficie delle terre di mezzo, dall’abisso vitreo della vasca. Non mi risvegliai ancora ma camminai per casa con gli occhi rovesciati. Mia madre e mio padre in ginocchio si tennero per mano. Nel buio videro le ombre. Stettero a contatto con le terre di mezzo. Scendemmo tutti e tre nella vasca. Uscimmo insieme dal lucernario e trasmigrammo nel rossore magnetico dell’eclissi. Erano rimaste dieci candele fioche sul limitare del bosco. Degli esseri di plasma non restava che memoria. Nell’acqua si specchiavano i rami. Quando la luna raggiunse il massimo fulgore, all’altra sponda della vasca comparve il nitore aurorale e le stelle una per volta furono cancellate dal bagliore. I primi raggi del sole allagarono la notte, l’acqua scura si schiarì in diciannove tonalità di blu fino a raggiungere il tono ceruleo degli occhi di mio padre. Le fiamme delle candele, tutte, si estinsero.

Li trovai in ginocchio, si tenevano per mano. Mi vergognai per i disegni e per lo scempio che avevo fatto del volto di mio padre. Se avessi avuto le forze avrei strappato i fogli dal muro, avrei spazzato via i resti della corda con cui mi ero impiccata ma non riuscii a fare altro che crollare sulle loro gambe. Aprirono gli occhi simultaneamente. Le mani di mia madre corsero sui miei fianchi, quelle di mio padre sui capelli. Potevano sentirmi respirare.  Dal lucernario il sole colpiva le labbra tumide di mia madre, bagnate di lacrime.

Mia, diceva, mia bambina, mia promessa.

Non parlavo, respiravo. E a loro bastava. Mio padre si alzò. Lasciò che lei mi cullasse. Sentii i passi oltre la porta, il fragore della bicicletta. Pensai che non sarebbe tornato.

Restai a lungo sulle gambe di mia madre, quando trovai il fiato dissi: Mi renderai una donna forte?

Più forte di te non c’è nessuno, sei tornata da molto lontano.

Si torna se si ha chi sa chiamarti, dissi.

Mio padre la sera tornò e il suo fiato non aveva l’afrore dell’alcol. A cena non parlammo molto, non avevamo mai parlato molto ma, dopo, ricordo, nelle fiamme delle candele, bruciai i resti della corda e tutti i disegni.

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Ilaria Palomba

Ha studiato Filosofia a Bari e fatto ricerca per un anno in Sociologia dell'immaginario al CeaQ (Sorbonne, Paris). Ha poi conseguito un master in Filosofia e Psicoanalisi all'Istituto di Filosofia e Psicoanalisi di Roma. Ha lavorato come docente in alcune scuole di scrittura creativa e scuole medie e tenuto corsi come operatrice letteraria in vari centri diurni di psichiatria. Ha frequentato un corso di editing alla Scuola Omero e il corso principe per redattori editoriali da Oblique Studio. Ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi, 2012; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015; Premio Carver 2015), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018; da cui lo spettacolo teatrale Disturbi, con regia di Olivia Balzar, andato in scena all'Ivelise di Roma nel novembre 2019), Brama (Perrone, 2020); le sillogi: Mancanza, Deserto (Premio Profumi di poesia 2018) e Città metafisiche (Ensemble, 2020); il saggio Io Sono un'opera d'arte, viaggio nel mondo della performance art (Edizioni Dal Sud, 2018). Alcuni suoi racconti sono pubblicati in francese, tedesco e inglese, in Les Cahiers européens de l'imaginaire e Mammoth Book. Un suo racconto è stato pubblicato su Retabloid di Oblique, uno nell'antologia Il mestiere più antico del mondo? (Elliot), e un altro nell'antologia L'ultimo sesso al tempo della peste (Neo). Alcune poesie tratte da Mancanza e Città metafisiche sono in Nuovi Argomenti. Dal 2010 (tesi di laurea sul narcisismo collettivo) conduce una ricerca sul tema del disagio (psichico, sociale, generazionale), ha aperto un blog dove ha svolto un'indagine sul dolore dell'anima mediante interviste a persone che anonimamente le hanno raccontato la propria esperienza di disagio. Ha scritto per Minima et Moralia, Pangea, Nuovi Argomenti e fondato il blog letterario Suite italiana. Ha scritto e pubblicato in rete la distopia sul metaverso Terrafelice, tradotta in bosniaco da Erman Jakupi.

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