Mi chiamo Alma Songino. Il mio ufficio si trova al secondo piano dello spinosauro, un gigantesco edificio dove ogni giorno trascorro almeno un terzo del mio tempo. Sono io che ho affibbiato questo appellativo al casermone in cui lavoro da oltre vent’anni. Nello spinosauro si respira un’aria pesante, come tra i fili di una ragnatela, dove il perfetto ordine geometrico serve a creare trappole.
Dal secondo piano mi sposto spesso in altre aree del palazzo. Il più delle volte vado al sesto, vicino alla stanza dell’Amministratore Delegato, con una scusa qualunque. Cammino avanti e indietro con dei fogli in mano, fingendo di cercare qualcosa o qualcuno. Mi piace osservare cosa succede negli uffici dei dirigenti. Ho il vizio di spiare, lo facevo fin da bambina. Mi nascondevo per ascoltare le conversazioni degli adulti, proprio quando mi dicevano vai a giocare, che questi discorsi non sono roba per te. Mi rifugiavo quasi sempre dietro le tende.
Un giorno, quando avevo otto anni, mi nascosi sotto il letto di zio Giacomo, che viveva ancora dai suoi genitori, cioè i miei nonni. Avevo portato una pallina di gomma, di quelle che quando le schiacci strombazzano. Volevo aspettare che entrasse e fargli uno scherzo, spuntando fuori dal mio nascondiglio all’improvviso e strizzando la pallina.
Quando lo zio entrò nella stanza, sporsi appena la testa fuori dal bordo del copriletto che scendeva fino a terra, vidi che aveva una faccia strana e mi ritrassi. Per almeno un minuto sentii solo un fruscio. Probabilmente si stava togliendo gli abiti di dosso. Cominciai a sudare, pentita di essermi nascosta, titubante nel proseguire quel gioco, timorosa perché avevo violato il suo spazio. Zio Giacomo era un tipo allegro, mi portava sempre al lunapark con la sua fidanzata di turno, ma non mi sentivo sicura su come avrebbe potuto reagire di fronte a una bambina che lo sorprende nudo dentro la sua camera.
Sentii un tonfo sul letto, che fece sprofondare il centro della rete verso di me. Poi un sospiro e, subito dopo, un altro. Rimasi in silenzio, mentre lui continuava a respirare sempre più forte. Non capivo se stesse male, se avesse bisogno di aiuto, se dovevo chiamare la nonna.
Rimasi accucciata sotto quel letto, aspettando un modo e un momento per sgattaiolare dalla stanza, così come ero entrata. Sicuramente prima o poi lo zio sarebbe entrato nel bagnetto che stava dentro la camera, considerato che probabilmente non si sentiva bene. Aspettare era sicuramente la cosa migliore.
Dopo qualche minuto, emanò un suono roco che non avevo mai sentito e che mi spaventò fino a farmi tremare. Quasi subito lo sentii alzarsi e mentre si dirigeva verso il bagno sbirciai di nuovo, sporgendo la testa appena fuori dal bordo del copriletto. Vidi la sua schiena nuda e i glutei muscolosi. Lo guardavo intimorita. Si strofinava le dita mentre faceva quei pochi passi. Doveva avere qualcosa di appiccicoso su una mano, a giudicare da come la muoveva. Poi chiuse la porta del bagno e sentii scorrere dell’acqua. Presi coraggio, uscii dal nascondiglio, attenta a non schiacciare la pallina. Sul letto c’era una rivista aperta, con le pagine stropicciate. Mi è rimasto impresso il corpo nudo di una donna piegata in avanti, con le natiche molto più grandi di quelle di zio Giacomo e tanti capelli biondi.
Uscii di soppiatto, chiudendo la porta con delicatezza. Misi in tasca la pallina e tolsi il sudore dai palmi delle mani, sfregandole sulla maglietta. Fuori dalla cucina, in corridoio, incontrai la nonna. Mi chiese perché ero sudata, la rassicurai, è solo caldo. Mi interrogò sullo zio Giacomo. No, dissi, non l’ho visto, forse dorme.
Senza rendermene conto, a otto anni avevo imparato a mentire. Ricordo che da allora, quando lo zio Giacomo voleva prendermi per mano o accarezzarmi trovavo sempre una scusa per evitarlo.