Di Cloud Atlas – L’Atlante delle nuvole, romanzo di David Mitchell pubblicato nel 2004, non ci interessa snocciolare la trama, né ripercorrere le fasi che hanno condotto alla sua trasposizione cinematografica nell’omonimo film diretto dalle sorelle Wachowski con il sostegno di un cast d’eccezione, ma il fatto che rappresenti un laboratorio letterario dove generi e stili diversi coesistono in sorprendente armonia imponendosi come elemento di rottura per tutte le convenzioni che costringono un’opera letteraria a svilupparsi nell’angusto limite di un singolo genere e di un singolo stile.
Da un punto di vista architetturale il romanzo si presenta come una struttura a sei storie concentriche che va attraversata in linea retta: per sapere come finirà la storia del cerchio più esterno bisogna leggere la prima metà di quelle dei cerchi fino al quinto, quindi la storia centrale per intero, e poi, a risalire, le seconde metà delle storie dal quinto cerchio fino al secondo.
Ma non solo: al di là delle questioni di geometria, ogni storia appartiene a un genere distinto della letteratura: la prima al romanzo storico, la seconda al romanzo epistolare, la terza al romanzo thriller-noir, la quarta al romanzo comico, la quinta al romanzo distopico e l’ultima al romanzo di fantascienza post-apocalittica.
Basterebbe di per sé a etichettare l’opera come un pezzo unico, ma è a livello stilistico che Mitchell raggiunge l’apice dell’abilità narrativa, prevedendo per ciascuna storia un impianto autonomo e coerente: ogni storia è vivificata da una voce narrante che si esprime nel rispetto dei vincoli imposti sia dal contesto spazio-temporale che dal genere di appartenenza, senza che ciò perturbi la sensazione di coralità che emerge dal romanzo visto nel suo complesso, grazie alla rete di riferimenti incrociati che l’autore ha disseminato tra una storia e l’altra.
Il brano che proponiamo come esempio è tratto dall’inizio della quarta storia, La tremenda ordalia di Timothy Cavendish, con un protagonista che si esprime in prima persona dimostrando verso le faccende umane lo stesso connubio di acutezza e ironia che possiamo riscontrare nelle opere di maestri classici e contemporanei come Oscar Wilde e Woody Allen.
Non è un caso che Cavendish, il protagonista, sia un editore sull’orlo del fallimento, perseguitato dai suoi stessi autori, a tal punto che per salvare la pelle è costretto a rinchiudersi in una casa-lager per anziani. Una situazione grottesca dietro la quale scorgiamo una metafora: quella dell’autore coraggioso che pur di assecondare il proprio estro creativo non esita a violare il principio di unicità del genere e dello stile, col rischio di restare inascoltato, ma con la seducente prospettiva di costringere le frange più conservatrici dell’editoria alla pensione anticipata, oppure, per essere crudeli, a sopportare l’ordalia di un ospizio. Proprio come Timothy Cavendish.
Buona Lettura!