The boy is mine

Gioele non riesce ad andare contro il prossimo, a vedere il marcio delle persone marce. Finché, un giorno, tutto cambia.

Mi sono innamorata di Gioele al primo sguardo. Anzi, al secondo. No, al terzo.

Al primo, eravamo troppo piccoli, lui era troppo piccolo: io una quindicina d’anni, lui una decina.

Al secondo, era stato emozionante rivedersi dopo circa vent’anni, ma non c’era stato tempo e modo neanche di parlare: eravamo entrambi impegnati, ognuno a modo suo.

Al terzo, era fatta. Ci eravamo incontrati per caso, per tutta una serie di fortunate coincidenze, e ne avevamo saputo approfittare, ci eravamo saputi riconoscere fin da subito. Si era mosso tutto in maniera molto veloce: un paio di caffè, due cene e già dormivamo insieme, condividevamo spazi e sentimenti.

Sarà il feeling, sarà che a una certa età, nel nostro caso superati entrambi i 40, i tempi si accorciano, fatto sta che, dopo sei mesi da quel fatidico caffè, già vivevamo insieme a casa mia. Era tutto quello che cercavo da un’infinità di tempo, da troppo tempo. In linea su tutto: stessi principi, stessa educazione, stesso sentire, stesso coinvolgimento immediato. Non mi sembrava vero, né lui né la nostra storia: sembrava quasi una favola, un film, anzi, uno di quei banali, scontati film romantici americani che avevo guardato per tutta la vita e lui sembrava finto per quanto era perfetto.

Vivevamo in questa condizione quasi surreale da un po’ più di un anno, per cui mi ero iniziata ad abituare, a lasciare andare, a sentire che ormai fosse fatta, che fosse per sempre, che anche io adesso facevo parte del gruppo degli “accasati”.

Non faccio in tempo a pensarlo, neanche mi rilasso un attimo, che lei irrompe nella mia vita con Gioele. Lei, quella grandissima stronza del piano di sotto.

La stronza, per gli amici Laura, un po’ prima che Gioele venisse a vivere da me, già mi aveva fracassato per i cinque anni precedenti con dei lavori infiniti, neanche vivessimo in delle regge, per cui non si capiva davvero che cosa stesse ancora rinnovando.

La situazione era degenerata a seguito del suo matrimonio, motivo per cui aveva ristrutturato tutta casa per almeno tre lunghissimi mesi. Chissà, probabilmente aveva lasciato a malapena i muri portanti: nessun condomino ha mai avuto il piacere di vedere casa sua.

Comunque direi che lei e il marito, Francesco, si erano trovati, perché non la smettevano di martellare, sbattere, trapanare e strillare a tutte le ore del giorno e della notte, soprattutto quelle non concesse.

Dopo i lavori ufficiali di ristrutturazione, infatti, avevano continuato in autonomia per circa cinque anni, ma sempre rigorosamente ogni santa domenica e ogni giorno festivo che Dio mandava su questa Terra. E se non era festivo, sta’ tranquilla che comunque era al di fuori dell’orario condominiale: la mattina all’alba, la sera tardi, subito dopo pranzo.

Li odiavo. Erano arrivati per ultimi e se ne sbattevano completamente del palazzo e degli altri condomini. Sembrava lo facessero apposta: se era l’orario giusto e il giorno giusto, non sentivi volare una mosca; non appena ti rilassavi nelle fasce protette, loro iniziavano con martelli, trapani, frullini.

Una notte, si erano messi a martellare per l’ennesima volta e alcuni condomini un po’ ingenui, un po’ apprensivi e un po’ incazzosi, si erano radunati per le scale con bastoni, scope e altre armi improvvisate per paura che si trattasse di qualche ladro intento a rubare in uno dei nostri appartamenti.

Io ero avvelenata nel mio letto, svegliata per l’ennesima volta dalla loro maleducazione e dal loro menefreghismo. Io che ero stata educata a mettere sempre questo maledetto prossimo davanti alle mie esigenze e a sopportare sempre tutto. Mi ero limitata a insultarli nella chat condominiale (per iscritto e a distanza è più semplice, ma in realtà pensavo che loro non fossero presenti nella chat) e a chiarire agli altri vicini che non si trattava manco per niente di un ladro ma sempre e solo di loro due.

Per fortuna, gli altri condomini non sono come me: si sono presentati “armati” e infuriati alla porta di Laura e Francesco, sbraitando e inveendo contro di loro e garantendo l’intervento della polizia se qualcosa di simile fosse successo un’altra volta.

Questo è il bello, per una come me, di vivere in un palazzo di persone estremamente ligie e rispettose delle regole e del prossimo. Erano Laura e Francesco gli outsider. Erano loro che si dovevano adeguare, che dovevano cambiare.

Il nervoso quella sera mi passò, ma l’invidia di fondo che mi legava a lei non era scomparsa del tutto: Laura era una donna orribile, menefreghista, irrispettosa, eppure aveva un appartamento, un marito e una figlia. Era infatti riuscita anche a moltiplicarsi, ma la figlia era sorprendentemente meno rumorosa dei genitori.

Ora però c’è Gioele, ora finalmente tocca anche a me, adesso la persona giusta l’ho trovata anche io. La soddisfazione per la relazione con Gioele sta all’invidia che provavo nei confronti di Laura, come la goduria per la minaccia di denuncia degli altri condomini sta al veleno che mi saliva ogni volta che Laura prendeva a martellate un punto del suo appartamento.

Quindi gongolo ogni volta che la incontro, la guardo a testa alta, le sorrido, mentre dentro di me penso: “Ciao brutta stronza.”

E poi una sera sento più urla del solito, porte che vengono sbattute, piatti per terra e il marito che urla: “Basta, Laura, stavolta me ne vado per sempre.”

Parlo con gli altri condivisori di odio nei loro confronti e mi confermano che lui l’ha piantata.

Sono una brutta persona, lo so, però ci ho goduto tantissimo. Anche se non avevo la più pallida idea delle motivazioni della loro rottura, ho pensato che se lo meritava, che era ora e che ogni tanto c’è giustizia in questo mondo.

E infatti.. Punita prima di subito. La giustizia con me è sempre rapidissima, sempre sul pezzo, sempre molto efficiente.

Succede infatti che quella grandissima stronza inizia a provarci con il mio uomo! Le serve sempre qualcosa quando io non ci sono, fa il piagnisteo perché è rimasta da sola e certe cose non sa farle, non ci riesce. Chissà io come ho fatto tutti quegli anni a vivere da sola sopra alla sua testa in un appartamento identico al suo.

Gioele, il mio Gioele, ovviamente le dice sempre di sì, la aiuta ogni volta perché è intrinseco nella sua anima e nel suo lavoro, che poi è una vocazione: fa il pastore in una chiesa valdese, quindi figuriamoci se dice mai di no, anzi, mi ci mancava solo lei all’appello delle persone che rompono e hanno bisogno di qualcosa!

La stronza calcolatrice sa che sono partita per lavoro e una sera, mentre sono a Firenze al telefono con Gioele prima di mettermi a dormire, suona alla nostra porta. Sostiene che le si sia rotto qualcosa del termosifone e che le si stia allagando il bagno perché non riesce a chiudere il rubinetto. Più tardi, verrò a sapere che questa richiesta è stata oltretutto fatta in babydoll, con la scusa che la bambina dormiva, che si stava mettendo a letto anche lei e che, presa dallo spavento dello tsunami che evidentemente aveva in bagno, non aveva avuto testa, tempo e modo di mettersi prima la tutaccia per casa che ogni uomo e ogni donna hanno sempre pronta sulla poltrona in camera da letto.

Il mio istinto mi fa dire a Gioele di risponderle di no, di non scendere, che sarà sicuramente un’esagerazione e l’ennesimo pretesto, ma si sa, quando si tratta del prossimo, io godo del dono dell’invisibilità già a casa, figuriamoci a 300 km di distanza! Infatti Gioele sceglie di attaccare con me e aiutare lei. Quando mi richiama dopo un’oretta, percepisco dal tono della sua voce e dal suo racconto che non era proprio come avevo ipotizzato io ma quasi, che il problema c’era ma non era così grave e vengo a sapere del babydoll, per cui Gioele è un po’ in difficoltà, lo sento in imbarazzo, ma ancora fatica a darmi pienamente ragione. In queste occasioni, succede davvero raramente: è più forte di lui, non riesce ad andare contro il prossimo, a vedere il marcio delle persone marce.

Nel giro di qualche mese, Laura ottiene quello che vuole: no, non di essere aiutata, ma che io e Gioele cominciamo a litigare sempre più spesso per colpa sua.

Come sempre, l’anima pura e benpensante di Gioele, motivo per cui lo amo e lo odio, non riesce a vedere il piano diabolico di quella stronza, i suoi secondi fini, ma pensa che ci dovremmo sempre tutti aiutare a vicenda, che ognuno passa dei momenti bui, e solite solfe pro prossimo.

Già me la vedo, quella bugiarda, a godersi tutte le nostre discussioni su di lei. Ora è lei che gongola. Non ci posso credere.

Io e Gioele ci allontaniamo sempre di più: o discutiamo o non ci diciamo più una parola. Il malessere ovviamente si è allargato alla gestione più generale degli altri e delle loro richieste di aiuto e del suo non mettere mai paletti con nessuno, neanche quando si tratta della sua vita privata, neanche quando si tratta di noi.

Più cerco di non darla vinta a quella stronza, più tento di salvare la mia relazione, e più mi sento affondare nelle sabbie mobili della separazione.

Provo ad avere un alleato imbattibile, soprattutto considerato con chi sto parlando: Dio.

“Gioele, ricordati sempre che l’unico vero comandamento, il più importante di tutti, è Ama il prossimo tuo, come te stesso, quindi non di meno ma neanche di più e, in primo luogo, devi amare te stesso. Tu continui a mettere gli altri prima di te, prima di me, prima di noi. Lo sai perfettamente che anche io sono stata educata così, però a un certo punto bisogna saper dire basta. Anche Gesù si allontanava dai discepoli e dalla folla a volte.”

Ovviamente, ho peggiorato la situazione. Come potevo pensare di battere un teologo sulla teologia?

“Rebecca, non tirare in ballo Dio in una situazione che genera un problema a te, per quello che vuoi, per quelle che sono le tue esigenze. Lo hai sempre saputo: questo non è un mestiere, ma una vocazione, è il mio modo di vivere, il modo in cui voglio relazionarmi agli altri. Tu sei la mia priorità, ma a modo mio, modo che evidentemente non ti sta bene, non ti basta.”

“No, non mi basta più, non quando non riesci a capire chi hai di fronte, quando ti comporti indistintamente con chiunque, a prescindere se lo meritino o meno. Io la vivo come una forma di ingiustizia e lo sai.”

“Per me è così che si dovrebbe vivere. E lo sai.”

Ci separiamo.

Lui torna a vivere nell’appartamento pastorale vicino alla chiesa.

Io torno a vivere da sola.

Sei mesi per andare a convivere. Sei mesi per lasciarci.

Adesso ho sempre delle ciabatte con il tacco oppure gli zoccoli di legno. Guardo la televisione solo in camera da letto e con il volume al massimo. Salto a corda in cameretta. Le mani mi sono diventate di burro: faccio sempre cadere tutto e sempre cose che non si rompono ma fanno solo tanto tanto rumore.

Una sera, all’improvviso, mentre salto a corda, mi suonano alla porta: è lei.

“Ok, tregua, hai vinto. Stai uccidendo me, mia figlia e la nostra pace già precaria. Lo so, sono una grandissima stronza, lo pensate tutti e adesso ammetto che avete ragione. Mio marito aveva provato ad avvertirmi, a concedermi tempo, a darmi mille opportunità, ma io ero così sicura di me stessa, della mia vita. Ho peccato di presunzione: ho sempre avuto tutto e non avevo mai messo in conto di poter finire così, che le cose potessero andare così male, che questo potesse essere il mio destino. Ho sottovalutato le nostre crisi matrimoniali, il suo malessere, i suoi avvertimenti, le sue richieste di aiuto.

Nel novero delle opzioni, quella di essere lasciata era totalmente assente. Con una bambina poi… Non lo so, credevo inconsciamente che sarebbe bastato, che non lo avrebbe fatto andare via. E ti dirò di più: anche Gioele aveva provato ad aprirmi gli occhi più volte, ma sai cosa mi è stato detto più volte? Che è la presunzione che mi fotte.”

“Guarda, Laura”, la interrompo stizzita, “non mi nominare Gioele. Sinceramente non mi fai nessuna pena. Sei stata il motivo principale della nostra rottura e lo sai, anzi, hai lavorato per questo, hai iniziato a provarci con lui un secondo dopo essere stata lasciata da Francesco. Non ti sbagliare: io non sono Gioele, non venire a casa mia a fare la povera vittima perché non lo sei e non ti tratterò come tale. Solo una cosa giusta hai detto finora: che sei una grandissima stronza e, aggiungerei, una grandissima maleducata egoista, e finalmente riesco a dirtelo in faccia senza alcuna remora.”

Sono ferma, decisa, finalmente le ho vomitato addosso tutto quello che penso da mesi, anzi, da anni. Però mi tremano le mani e un po’ mi prudono pure: da una parte la vorrei picchiare, dall’altra mi viene da piangere, per la rabbia, per il dolore, per la tristezza che mi pervade nuovamente da mesi, per il pensiero di Gioele che non c’è più, per il senso di impotenza, per il senso di colpa che non mi abbandona mai da oltre 40 anni.

La mia esitazione le permette di proseguire.

“Ok, mi dispiace, hai ragione anche su questo. Mi sono comportata malissimo sia nei tuoi confronti che nei suoi perché sapevo che Gioele non se ne rendeva conto, che era semplicemente sempre lì a mia disposizione ed era quello che volevo, quello che mi mancava.

Sai di tutte le peggiori discussioni con Francesco cosa mi è rimasto più impresso, cosa mi è rimasto dentro, cosa mi ha detto più volte? La citazione di uno dei suoi film preferiti, Slevin:

<La prima volta che ti chiamano asino, gli dai un pugno sul naso; la seconda volta che ti chiamano asino, gli dici stronzo; ma la terza volta che ti chiamano asino, be’ forse è ora che ti vai a comperare una soma.>

Quindi ho iniziato a ragliare e a definirmi io stessa una grandissima stronza. Ma mi è costato tempo e fatica, e anche parecchi soldi per la psicoanalisi.”

“Brava, hai fatto bene, mi sembra il minimo che tu potessi fare, brutta stronza sfasciafamiglie che non sei altro. Continui a non farmi alcuna pena, anzi, direi proprio che è quello che ti meriti e che ogni tanto c’è giustizia in questo mondo, anche per le persone come te. Hai fatto la metà del dovere tuo.”

La interrompo dopo essere pienamente rientrata in me stessa.

Lei mi sente, accenna un lieve cenno del capo come a voler annuire, ma in realtà quasi mi ignora e va avanti.

“Ormai sono in ballo in questa mia confessione di peccato, quindi ti dico anche questo: una delle ultime volte in cui ho visto Gioele, ho provato a saltargli addosso.”

La rivelazione fa provare me a saltare addosso a lei! Credo che abbia notato le fiamme nei miei fondi oculari perché mi ha preso le mani e ha continuato con tono calmo e pacato, rassicurante:

“Lo so, è che adesso sono anche disperata oltre che stronza, ma Gioele mi ha rifiutata, anzi, mi ha allontanata con tanto di quel disprezzo e di quella delusione, che volevo scomparire. Mi sono sentita come una di quelle MILF divorziate e depresse che non attirerebbero un uomo neanche con una calamita!”

Ricordiamoci sempre che sono una brutta persona, quindi mi stavo per mettere a piangere ma dalla gioia! E un po’ anche perché l’esito del racconto aveva sciolto l’immensa quantità di ansia accumulata un secondo dopo averle sentito pronunciare quella confessione.

“Quando è andato via di corsa da casa mia”, continua mentre ha percepito tutta la mia soddisfazione e distensione, “senza neanche perdere tempo ad ascoltare le mie ragioni, come invece ha sempre fatto quando gli ho chiesto aiuto, mi sono sentita davvero davvero sola. Quella casa mi sembra una prigione, tra ricordi e solitudine. E ho subito pensato a te, a quanto ti ho derisa in questi anni, a quanto abbia sempre pensato che fossi una sfigata, che evidentemente avessi tu qualcosa di sbagliato, che facessi scappare gli uomini, e invece adesso sono io quella lasciata dal marito con una figlia piccola e quella che ti ha portato via la cosa più bella che avevi. Ti prego di perdonarmi.”

Ok, non sono una santa come Gioele, ma neanche così cattiva, e purtroppo, almeno in parte, so come si deve sentire. Lei avverte anche il perdono nei miei occhi (no, chiariamo, non è brava lei, sono io che ho degli occhi molto espressivi e che non riesco a fingere né a trattenere mai neanche mezza emozione, nel bene e nel male) e, prima ancora che possa rispondere qualcosa, continua:

“Gioele è qui fuori che ti aspetta. Gli ho spiegato tutta la situazione, tutte le mie colpe e vorrebbe chiederti scusa anche lui, quantomeno chiarire.”

Mi inizio ad agitare, sono euforica e terrorizzata allo stesso tempo, mi sento soffocare, realizzo che sto andando in apnea, mi tremano le mani ben più di prima, inizio a dare il martirio ai miei capelli, mi controllo allo specchio (era meglio se non lo facevo). Contro ogni aspettativa che potessi mai avere su questa Terra, è lei che mi calma, lei, la cui presenza avevo quasi dimenticato presa dal pensiero di dover incontrare Gioele:

“Rebecca, io ho rovinato tutto, sia nel mio matrimonio, che adesso con mia figlia, con te e Gioele. Ma voi due ce la potete fare, siete fatti per stare insieme. Respira e riprenditelo perché è sempre stato solo e soltanto tuo.”

Mi abbraccia e se ne va. Ma chi è?? Un mostro, un transformer, un’altra persona, non la Laura che avevo imparato a conoscere e a odiare negli ultimi 7 anni. Per lasciare me senza parole, poi, ce ne vuole.

Anche se, in effetti, di parole non ne ho nemmeno per Gioele. Sono abbastanza spiazzata, è stato tutto così imprevisto, non mi sento preparata per quella discussione, dopo tutto quel tempo, dopo tutti quei silenzi. Però evidentemente sono serviti, sia il tempo che i silenzi, perché finalmente, forse quasi per la prima volta, è lui che incalza, lui che inizia, lui che affronta i problemi:

“Hey.”

“Hey.”

“Come stai?”

“Un po’ confusa, un po’ stordita, ma forse bene, grazie. Tu?”

“Male. Sai che somatizzo l’ansia, quindi sono giorni che praticamente vivo chiuso in bagno.”

Scoppiamo entrambi in una sonora, unisona risata delle nostre. Una delle cose che più mi erano mancate perché, oltre alla evidente felicità, esprimevano tutta la nostra sintonia. E infatti ci guardiamo, seri, un po’ malinconici, un po’ in difficoltà, e lui comincia:

“Mi dispiace. Sembra una frase banale, forse troppo semplice, ma più che mai sincera. Mi dispiace perché avevi ragione e in questo non volevo che tu avessi ragione. Mi dispiace perché a volte vivo una fede cieca in Dio ma ancora di più nelle persone, nel prossimo. Mi dispiace perché in fondo lo sapevo, ma ho capito che ho ancora delle enormi difficoltà nel dire di no, nel mettere paletti, nel mettermi prima degli altri, nel non essere sempre disponibile e a disposizione. Mi dispiace perché mi manchi, perché non voglio vivere in una casa in cui non ci sia anche tu, non voglio vivere esperienze in cui non ci sia anche tu o non potertele raccontare non appena mi succedono. Mi dispiace perché…”

Non lo faccio finire, stava quasi diventando una tortura, un po’ piacevole ma pur sempre una tortura: sono un bagno di lacrime, voglio solo abbracciarlo e baciarlo come sempre, come non ho più potuto fare, forse anche un po’ di più.

“Basta, basta ti prego. Mi avevi già convinta all’Hey, mi avevi già convinta all’Hey.”

Lui conosce e apprezza la citazione. Ci sarà tempo per parlare, chiarire, recuperare. Adesso è tempo di abbracciarci di nuovo, baciarci di nuovo, fare l’amore di nuovo. Il sesso dopo gli allontanamenti, le chiusure, le litigate, è sempre uno dei migliori. Noi ritroviamo immediatamente la nostra sintonia, un po’ in tutto.

La strada da percorrere rimane comunque lunga e faticosa, adesso ne siamo entrambi più consapevoli, ma nel frattempo io e Gioele abbiamo deciso di vivere isolati e felici in una villetta in aperta campagna, è lui a recarsi a casa delle persone e solo e soltanto nei giorni e negli orari stabiliti. Per il compleanno, gli ho regalato un secondo cellulare con un secondo numero di telefono, riservato a pochi intimi, ed è l’unico che tiene sempre acceso.

 

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Mi sono innamorato di Rebecca al primo sguardo. Anzi, al secondo. No, al terzo.

Al primo, ero troppo piccolo: avevo una decina d’anni, lei una quindicina. Non mi percepiva proprio: ero solo un bambino carino e dolciotto, mentre lei mi sembrava una donna inarrivabile.

Al secondo, era stato emozionante rivederla dopo circa vent’anni: la differenza d’età non era più così inarrivabile e adesso era realmente diventata una donna e io un uomo, peccato però che fossimo entrambi impegnati, ognuno a modo suo.

Il terzo era quello giusto e definitivo. Eravamo ancora più grandi e maturi, entrambi liberi e finalmente pronti per una relazione seria e adulta. O almeno, così pensavo che fosse. Era stato tutto così casuale e veloce, così naturale, che me lo stavo semplicemente vivendo, senza rifletterci sopra poi tanto. Dopo sei mesi dalla prima uscita, mi ero ritrovato a traslocare dall’appartamento pastorale per andare a vivere da lei. La casa era più grande, in una zona più bella, affittarla sarebbe stato più problematico e quindi avevamo deciso che mi sarei trasferito io. Mi aveva parlato di qualche problema di lavori e rumori inopportuni da parte della vicina del piano di sotto, ma mai avrei potuto immaginare quello che poi è successo.

Laura e Francesco erano i nostri vicini, con cui però non avevamo alcun rapporto, anche se vedevo Rebecca sempre eccessivamente ostile nei loro confronti, in special modo di Laura, e non riuscivo a spiegarmi il perché. Sì, spesso facevano dei piccoli lavoretti al di fuori degli orari consentiti, ma a me non davano tutto questo fastidio. La vera tragedia è iniziata quando si sono lasciati e Laura ha cominciato a chiedermi sempre più favori, soprattutto nei momenti in cui Rebecca non era in casa.

Il caso più eclatante c’è stato una sera in cui, mentre ero al telefono con Rebecca che era fuori per lavoro, Laura mi bussa alla porta in babydoll, impanicata perché dice che le si sta allagando l’appartamento a causa di una perdita del termosifone del bagno. Evito di specificare il dettaglio del babydoll a Rebecca perché la conosco e perché già era infuriata perché Laura mi aveva suonato a quell’ora, come sempre mentre lei non c’era, come sempre bisognosa di aiuto, ma all’epoca non conoscevo bene la nostra vicina, quindi ci avevo creduto, non vedevo né percepivo niente di quello che mi diceva Rebecca, anzi, quella esagerata e fuori luogo mi sembrava lei.

Dopo la rottura con Rebecca e anni di psicoterapia, iniziati prima di metterci insieme, posso finalmente ammettere che Rebecca forse era un po’ prevenuta nei confronti di Laura, ma Laura aveva realmente dei problemi personali, relazionali e io avevo i miei nel riconoscerli, nel dire di no alle richieste, da chiunque venissero, ma sono i soliti problemi che ci si trascina dall’infanzia, dai propri genitori, dalla famiglia, dal modo in cui siamo stati cresciuti. È dura cambiare a quarant’anni, andare contro i propri principi, contro la propria educazione.

La questione del termosifone si risolve nel giro di poco, perché effettivamente non era questa gran tragedia come voleva far credere Laura, ed è proprio questo che invece ha portato a una tragedia con Rebecca quando l’ho richiamata per spiegarle cos’era successo e, per l’estrema onestà che mi contraddistingue, nel bene e nel male, a dirle anche del babydoll. Sapevo che in fondo in fondo aveva ragione lei, ma non su tutto e all’epoca mi pesava terribilmente, non ero pronto a mettere in discussione me e praticamente tutta la mia esistenza e la mia educazione.

Nel giro di qualche mese, le litigate con Rebecca degenerano: ormai non si tratta più di Laura e sua figlia, perché sì, Laura metteva in mezzo anche la figlia pur di ottenere quello che voleva, ma del mio modo di gestire le persone, il prossimo, le richieste che ricevo costantemente in quanto pastore, in quanto sorta di psicologo gratuito e persona onnipresente e super disponibile.

Sono esploso con Rebecca quando, pur di darsi ragione, ha tirato in ballo addirittura Dio, i comandamenti. Mi sono sentito ancora più ferito, colpito anche nell’orgoglio: lei viene a parlare a me di Dio, a fare a me la lezione su quello che c’è scritto nella Bibbia, io che mi ci sono laureato e che faccio questo lavoro da quasi vent’anni! Questo è il mio rapporto con Dio e con le persone, se non ti sta bene, quella è la porta, anzi, ho dovuto imboccare io la porta perché la casa era la sua.

Sono ovviamente triste e amareggiato: per la prima volte nella mia vita, capisco cosa significhi l’espressione mi ha lasciato l’amaro in bocca, perché sentivo questo sapore terribile che non ne voleva sapere di andare via, neanche con quelle fortissime caramelle alla menta che ti congelano la gola se solo ipotizzi di bere un goccio d’acqua dopo averle mangiate. Però sono anche incazzato: le parole di Rebecca non mi sono proprio andate giù, non le condividevo affatto.

Con il tempo, con lo psicoterapeuta e con gli amici, ho dovuto però ammettere una cosa: quando qualcuno, le sue parole, ti fanno infuriare così tanto, spesso è perché dicono il giusto, perché ti hanno toccato su un nervo scoperto, perché hanno visto qualcosa che tu fatichi a vedere o che non vuoi vedere perché ancora non riesci ad affrontarlo.

A me sono serviti loro: il tempo, gli amici e lo psicoterapeuta, ma anche Laura stessa. Dopo che sono andato via da quel palazzo e che quindi avevo chiuso con Rebecca, infatti, le sue richieste sono diventate sempre più frequenti, sempre più ridicole e sempre più insistenti, ma fin qui ancora niente, ancora ci ero abituato, ancora non volevo vedere. Una sera, però, mentre ero nel suo appartamento per farle l’ennesimo lavoretto, sperando che Rebecca non fosse in casa o quantomeno di non incontrarla (quando andavo nel loro palazzo, parcheggiavo sempre distante e in posti un po’ infrattati), Laura mi si è buttata addosso, sempre un po’ svestita, e ha provato a baciarmi, ad allungare le mani, a spogliarmi. In quel momento è stato come quando sei svenuto o stai dormendo profondamente e tentano di svegliarti e farti riprendere tirandoti addosso un secchio d’acqua gelata. A quel punto non potevo più inventarmi niente, non potevo più giustificarla, vedere altro, dare importanza ad altro. La situazione era evidente e io mi dovevo rassegnare e ammetterla.

“Laura, ma che cazzo stai facendo?? Ma allora aveva davvero ragione Rebecca su tutta la linea. Sono mesi che ti difendo, che ti aiuto, che litigo con lei e con chi continuava a sostenere che le tue intenzioni fossero semplicemente queste e tu che fai? Ci provi? Non so se ce l’ho più con te o più con me stesso. Adesso levati, per piacere, me ne vado e scordati il mio numero, cancellalo proprio, altrimenti blocco direttamente io il tuo.”

“No ma Gioele aspetta, mi dispiace, hai ragione, è stato un momento, una debolezza, scusa, aspetta.”

Ero già fuori dalla porta, stavolta davvero non ero più disposto ad ascoltarla. Non sapevo se provare a salire le scale per confessare tutto a Rebecca, sfogarmi e liberarmi di questo peso, o se andarmene sperando che non avesse sentito nulla per non darle l’ennesimo dispiacere o l’ennesima amara soddisfazione.

Me ne vado. La vergogna è troppa, nella testa troppe voci, troppi pensieri, troppa confusione. Mi prendo del tempo, il mio tempo, per riflettere, per capire quello che è successo, per capirmi meglio. Con lo psicoterapeuta ormai parliamo solo di questo, solo della mia gestione del prossimo, delle mie difficoltà nel dire di no, del mio rinunciare addirittura alle mie gioie personali perché vengono dopo le esigenze altrui. I genitori, anche i più attenti e i più buoni, fanno dei danni enormi. Mentre prendo finalmente di petto la mia redenzione, dopo mesi di silenzi con Laura perché alla fine avevo davvero dovuto davvero bloccare il suo numero, mi arriva un lunghissimo messaggio da un numero sconosciuto: era lei, che mi spiegava tutta la situazione dal suo punto di vista, i problemi con il marito, ormai ex, con la casa, con me e Rebecca e, dopo diverse ore di chiarimenti, mi convince ad andare insieme da Rebecca ma parlandole separatamente.

Sono fuori che aspetto. Mi sembro uno di quei vecchi sketch in bianco e nero o di quei vecchi cartoni dove c’è il leone in gabbia che fa su e giù ininterrottamente o il papà che fuma l’impossibile in attesa di sapere com’è andato il parto, con la differenza che io sono in un mini pianerottolo e posso permettermi solo una sigaretta elettronica senza nicotina e, per di più, avrei estremo bisogno di un bagno perché somatizzo l’ansia.

Mi è sembrato un tempo infinito, ma non so quanto Laura sia stata in casa a parlare con Rebecca, forse venti minuti, mezz’ora, non lo so, so solo che una parte di me vorrebbe ancora scappare, evitarsi questa tortura, ma adesso è preponderante quella che invece freme per affrontare, risolvere, ricominciare.

Finalmente la porta si apre, Laura abbozza solo un sorriso e un cenno con il capo e va via. Rimane solo lei, bella come neanche la ricordavo, forse ancora più agitata di me, il che un po’ mi rassicura, un po’ mi fa salire ancora più ansia. Però basta, non ce la faccio più, che si cominci.

“Hey.”

Sì, questa è stata la mia grande battuta di apertura.

“Hey.”

Risponde lei giustamente.

“Come stai?”

Continuo io, sempre più impattante.

“Un po’ confusa, un po’ stordita, ma forse bene, grazie. Tu?”

E niente, ovviamente finisce con l’essere sempre lei ad affrontare le cose, ad aprire le discussioni.

“Male. Sai che somatizzo l’ansia, quindi sono giorni che praticamente vivo chiuso in bagno, anzi, ne avrei bisogno anche adesso.”

Non ce la posso fare, questo è stato il mio massimo, ma almeno siamo scoppiati a ridere, un po’ di ansia si è dissolta nell’aria e, soprattutto, ci stiamo ritrovando.

Questa è stata la spinta giusta per iniziare ad aprirmi davvero e a parlarle seriamente:

“Mi dispiace. Sembra una frase banale, forse troppo semplice, ma più che mai sincera. Mi dispiace perché avevi ragione e in questo non volevo che tu avessi ragione. Mi dispiace perché a volte vivo una fede cieca in Dio ma ancora di più nelle persone, nel prossimo. Mi dispiace perché in fondo lo sapevo, ma ho capito che ho ancora delle enormi difficoltà nel dire di no, nel mettere paletti, nel mettermi prima degli altri, nel non essere sempre disponibile e a disposizione. Mi dispiace perché mi manchi, perché non voglio vivere in una casa in cui non ci sia anche tu, non voglio vivere esperienze in cui non ci sia anche tu o non potertele raccontare non appena mi succedono. Mi dispiace perché…”

Mi interrompe. Avevo visto che era un bagno di lacrime, ma ormai ero lanciatissimo e avrei voluto continuare, mentre lei mi spiazza e mi fa, tra un singhiozzo e l’altro:

“Basta, basta ti prego. Mi avevi già convinta all’Hey, mi avevi già convinta all’Hey.”

Scoppiamo in un’altra risata, sempre all’unisono, sempre complici, ma stavolta più sommessa, più dolce, piena d’amore e infatti facciamo l’amore. Il sesso dopo gli allontanamenti, le chiusure, le litigate, è sempre uno dei migliori. Noi ritroviamo immediatamente la nostra sintonia, un po’ in tutto.

La strada da percorrere rimane comunque lunga e faticosa, adesso ne siamo entrambi più consapevoli, ma nel frattempo io e Rebecca abbiamo deciso di vivere isolati e felici in una villetta in aperta campagna, sono io a recarmi a casa delle persone e solo e soltanto nei giorni e negli orari stabiliti. Per il compleanno, mi ha regalato un secondo cellulare con un secondo numero di telefono, riservato a pochi intimi, ed è l’unico che tengo sempre acceso.

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