È passata in sordina la visita di Joe Biden all’Università di Belfast meno di un mese fa per la celebrazione dei 25 anni dell’Accordo del Venerdì Santo, un accordo di pace storico siglato il 10 aprile 1998 tra Irlanda, Regno Unito e Irlanda del Nord.
L’accordo ha un’importanza particolare per gli Stati Uniti, che furono coinvolti nella mediazione del conflitto nord-irlandese e che tuttora hanno interessi socioeconomici in Irlanda, e per Joe Biden, un discendente dell’eterna diaspora irlandese. Approvato dalle due comunità irlandesi tramite referendum, prevede il passaggio del controllo su temi quali salute e istruzione dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord (sdoganando presso noi europei il termine “devolution”), assicura un confine aperto tra Eire e Ulster (ponendo un ostacolo alla Brexit la cui richiesta di dogana rischiava di trovare una risposta, letteralmente, in alto mare), e pone fine a una serie di conflitti armati in Ulster noti come “The Troubles” – i disordini – durato quasi trent’anni e che ha causato la morte di oltre 3.500 persone.
Questi disordini sono stati la prova delle tensioni acuitesi con la fine della guerra civile del 1923 che hanno portato all’organizzazione di gruppi armati sia presso Unionisti Protestanti che Repubblicani Cattolici.
Ecco, se volete qualcosa che interiorizzi l’assurda ferocia di quelle tensioni, vi consiglio di recuperare The Banshees of Inisherin – Gli Spiriti dell’Isola.
Presentato l’anno scorso a Venezia, dove è stato accolto con 15 minuti di applausi e ora disponibile su Disney+, è un film scritto e diretto da Martin McDonagh, regista per metà irlandese e per metà britannico, che va così a chiudere il trittico delle tragicommedie assurdiste delle Aran Islands iniziata con le opere teatrali Cripple of Inishmaan e The Lieutenant of Inishmore.
McDonagh infatti, già noto a noi per film che uniscono l’esistenziale al tarantinesco con 7 Psicopatici e Tre manifesti a Ebbing, Missouri, torna alle sue origini di erede di Beckett portando in scena il conflitto interpersonale tra il pastore Pádraic e il musicista Colm interpretati da Colin Farrell e Brendan Gleeson, già dinamico duo del film In Bruges.
Ogni giorno, alle due del pomeriggio, Pádraic costeggia i muretti a secco per raggiungere Colm e passare con lui il pomeriggio davanti al bancone di Jonjo, tra pinte di stout, parlando del nulla. È sempre stato così da che i due hanno memoria della loro amicizia. Finché un giorno Colm non vuole più vedere Pádraic perché improvvisamente “non gli va più a genio”.
Lo scontro è uno scontro tra due personalità, due modi differenti di essere isolani (per scelta il primo e per vocazione il secondo), due stati d’animo, ma anche due Stati e basta, che improvvisamente, al termine della guerra civile del 1923, non si vanno più a genio. Una troncatura così netta e così devastante per Pádraic che sua sorella va a chiedere spiegazioni.
“Lo trovo noioso”.
“Ma vivi su un’isola a largo della costa irlandese, che ti aspettavi?”
La troncatura trascende presto la metafora quando Colm, cesoie in pugno, minaccia di tagliarsi ogni dito della mano destra, quella con cui vorrebbe passare il resto del tempo a comporre musica in solitudine, se non verrà lasciato in pace. Ed è qui che si capisce lo spirito di un’isola che porta all’automutilazione.
Avendo il film un’impostazione da opera teatrale beckettiana ed essendo girato tra le Isole Aran e la contea di Mayo, potrebbe riferirsi a un’isola qualunque. Eppure essa è, letteralmente, Inisherin, cioè in gaelico “L’isola di Irlanda”.
I muretti a secco, l’indeterminatezza di un cielo al confine tra speranza e disperazione, le colline, l’unico emporio che funge anche da ufficio postale, l’obbligatorio scemo del villaggio, rapporti interpersonali quasi inesistenti e tutti disfunzionali, la chiesa che rappresenta l’unico momento di unione e redenzione tra singole esistenze. Un posto dove ritirarsi nella propria intimità è visto come insanità mentale. Dove intelligenza pratica e intelligenza emotiva sono difficili da conciliare.
Ci sono tutti i tratti distintivi di una provincia in generale, e di una provincia irlandese che in pieno 1923 assiste a una guerra civile da cui non possiamo più estraniarci.
Gli echi sempre meno ovattati spingono i personaggi a scrutare l’orizzonte, l’unica cassetta postale che vira lentamente dal rosso al verde, le previsioni dell’eponima Banshee, una mortifera ottuagenaria irlandese fino all’osso che turba i passanti con le sue ineluttabili previsioni nefaste.
Come in un’opera di Beckett, l’unica soluzione alla consapevolezza di questo tormento è la speranza di una distrazione. La musica, l’ubriachezza molesta, o una mai del tutto realizzata promessa di altrove. Come la terraferma da cui vengono lettere spulciate dalla commessa locale in cerca di novità, da cui vengono gli studenti di musica che divertono Colm, da cui viene la richiesta di assistenza a una fucilazione, poco importa di chi, che galvanizza i presenti.
“Quelli dello stato libero giustizieranno un paio di tizi dell’Ira. O forse il contrario. Non era più semplice quando eravamo tutti dalla stessa parte e uccidevamo solo gli inglesi?”
Pur sapendo che l’altrove è la terraferma, nessuno la raggiunge. Pur sapendo che si è divisi, soli e trincerati, nessuno prende posizione. Lo stesso Pádraic, a cui la Banshee aveva profetizzato due morti ormai avvenute, è consapevole che non finirà qui. Che è come profetizzare la morte delle due Irlande, come esprimere i danni di un conflitto che nessuno vuole ma soprattutto nessuno vuole evitare.