Cesare Pavese rimase sulla porta della casa, il sole abbagliante di agosto lo aveva quasi accecato. Strizzò gli occhi e chinò il capo come per guardare bene prima di entrare, ma vide solo un antro buio e il suo naso fiutò un leggero sentore di muffa.
Coraggio! sbuffò, caracollando sotto il peso della valigia e di due borse cariche di libri. Il viaggio fino in Calabria era stato lungo e faticoso, e lui non sapeva se aveva più fame, sonno o voglia di buttarsi un po’ d’acqua fredda sul viso sudato.
Una volta entrato, dal buio emerse un lettuccio appoggiato alla parete di fondo e un piccolo tavolo con sopra una lampada a carburo. Il pavimento era coperto di chiazze d’umidità che ormai avevano preso il sopravvento sul disegno originale delle mattonelle.
Brancaleone era il nome del paesino, un posto lontano da tutto dove spedire le persone sgradite al regime fascista: questa sarebbe stata la sua dimora per almeno tre anni, così recitava la sentenza che lo aveva condannato al confino.
Pavese posò le due borse sul tavolo, avrebbe sistemato poi le sue poche cose: aveva visto un bar, per fortuna, chissà se lassù arrivavano i giornali.
Con la coda dell’occhio colse un movimento impercettibile sul pavimento: si tolse gli occhiali e guardò fisso una macchia scura, stranamente lucida. La macchia si mosse, e poi un’altra, e un’altra ancora.
Scarafaggi! esclamò disgustato. Gli avevano sempre fatto impressione, non riusciva neanche a schiacciarli.
Bene, questa era la prima questione da affrontare, il riposo poteva aspettare.
Mentre scostava la tenda a perline del bar Roma si sentì trafitto da dieci paia d’occhi.
Pavese si guardò intorno e, abbozzando una specie di sorriso esclamò: Conoscete per caso qualcuno che ammazza scarafaggi? Posso pagare!
Solo una manciata di secondi di silenzio assoluto, poi un ragazzino tutto scuro, occhi pelle e capelli, venne avanti col piglio di un capo: Veniamo noi, e accennò col mento a un grappolo di ragazzini, tutti scuri pure loro, rintanati in fondo al bar.
Devo pagare subito? disse lo scrittore, mentre un senso di sollievo lo attraversava.
Non c’è bisogno, rispose il ragazzino, sempre con la stessa espressione stampata sul viso.
La mia casa è qui di fronte, vi aspetto, a stasera, allora…
A stasera! risposero in coro i piccoli disinfestatori.
Pavese uscì dal locale ma si fermò sulla porta: era troppo presto per rientrare nella casa buia, s’era alzato un vento leggero e salmastro. Due passi e un po’ d’aria fresca gli avrebbero fatto bene, se ne sarebbe andato a guardare il mare.
Bibliografia:
Cesare Pavese, Il quaderno del confino, Edizioni dell’Orso;
Cesare Pavese, Paesi tuoi, Einaudi.