EDOARDO ALBINATI – La tua bocca è la mia religione – POESIA DEL CORPO, IL CORPO NELLA POESIA.

Edoardo Albinati è in libreria con “La tua bocca è la mia religione”, poesia esplicita di Eros e desiderio, libro intenso e scompositivo, quasi cubista.

È di pochi giorni fa (26 maggio) l’uscita di un piccolo libro (128 pagine) pubblicato da Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja con Baldini+Castoldi, Vite in sospeso. Migranti e rifugiati alle frontiere d’Europa, frutto della loro recente missione in Ucraina al seguito dell’UNHCR: già nel 2017 Albinati e d’Aloja, per l’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati, avevano pubblicato Otto giorni in Niger. Un diario a due voci, in cui in 73 pagine avevano raccolto la testimonianza della sorte amara e dignitosissima di un paese di passaggio, per così dire, nel cuore dell’Africa, destinato da tempo ad essere defraudato, e generosissimo con il proprio niente a sostenere altri poveri senza orizzonte come e più di loro nigerini. Edoardo Albinati già nel 2002 con Il ritorno. Diario di una missione in Afghanistan, per Mondadori, sempre al seguito dell’UNHCR, era stato il testimone designato a raccontare in forma di reportage un altro dei numerosi scenari di guerra del pianeta.

Si tratta della parte più esplicitamente civile della vasta e varia produzione di Edoardo Albinati, scrittore totale, legato nei suoi esordi, da subito, a due aspetti della letteratura italiana: da un lato, enfant prodige del nuovo romanzo italiano intravisto in lui da Enzo Siciliano, e cullato dalla rivista Nuovi Argomenti e dalla casa editrice Mondadori; dall’altro, giovanissimo poeta romano legato alle riviste Braci e Prato Pagano (se ne diceva già in alcuni articoli precedenti in questa rubrica) che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta risollevarono le grame sorti della poesia italiana messa in pericolo dall’ondata nichilista-pragmatica che la investì. Diciamoci la verità, la nostra letteratura è defedata da un pezzo, ma Albinati, come molti altri, non ha mai ceduto alle previsioni di dispersione preconizzate dai molti benpensanti maldicenti-malscriventi – il suo esordio fu proprio in poesia: prima su Braci (si diceva), poi con Elegie e proverbi (Mondadori, 1989).

Sono poi seguiti La comunione dei beni (Giunti 1995), Mare o monti (L’obliquo 1997 / con Paolo Del Colle, poeta incontrato tempo fa in questo spazio e parte del gruppo legato alle due riviste romane), Sintassi italiana (Guanda, 2002). Ora La tua bocca è la mia religione (Guanda, 2022) che celebra la compagna di vita dell’autore come musa e personale sorgente di desiderio.


76.

Chiedo umilmente di poter assistere quando

fai il bagno nella vasca, come a uno spettacolo

imperdibile: tu che ti cali nell’acqua

poco alla volta perché scotta, quindi

ti allunghi, acclimatata. Inutile

descriverlo quel corpo a tutti noto

(cioè a tutti quelli che hanno letto sin qui

più qualche stronzetto fortunato che hai abbracciato

assecondando la tua lunatica lussuria)

se non per ricordare i seni affioranti

come boe che segnano il confine

oltre il quale il mio desiderio non osa spingersi.


38.

A me succede mille volte quello che Adamo

soffrì una sola, e pianse il resto della vita:

vengo ogni giorno cacciato dall’Eden

per non aver commesso peccato

e gonfio di amarezza mi avvio giù per la strada

che conduce alla vita quotidiana

tra le sterili beghe e la mia pochezza umana.

Cacciato via dal paradiso, esperimento

il derisorio dolore della perdita.

Giuro che farò di tutto per tornarvi.

Solo peccando vi sarò riammesso.


Parto da qui per cominciare a girare intorno a questo libro di Edoardo Albinati, scrittore apparentemente diviso tra prosa e poesia, in realtà immerso in un lavoro con la letteratura, anzi dentro la letteratura, che lo identifica con la letteratura in tutte le sue possibili forme, anche come scrittura per il cinema e per la tele= visione, e anche quando fa il professore a Rebibbia con i suoi studenti-detenuti.

Per spiegarmi meglio vi racconto un fatterello.

Eravamo, pochi di noi, nella sede della Scuola di Scrittura, era il ’96, credo fosse ottobre, e a un certo punto con un discreto fragore il fax ha cominciato a sputare delle paginette ordinate di scrittura, una selezione di prose, una decina più o meno, un campione ragionato, destinato alla nostra rivista (la sede era anche la nostra redazione) di un’opera più ampia che sarebbe stata pubblicata dall’editore Fazi il maggio successivo: si trattava di Orti di Guerra, prose poetiche di compiutezza e fulminante efficacia di Edoardo Albinati. Via via che i fogli ammaravano nella stanza, nessuno di noi fece il gesto assurdo di raccoglierli e riporli in una pila ordinata per rimandarne l’esame a un momento successivo: ci lanciammo sui fogli e cominciammo a leggere a voce alta, e degustammo un’ottima prosa ferma, di gradazione alta e bouquet profumatissimo. Finimmo ebbri di goduria, signorilmente ‘mbriachi.

Direte: Gesù!, e che sarà stato mai?!? Se non avete la prima edizione (Fazi) di Orti di Guerra, potete trovare il libro edito da BUR nel 2017 sull’onda del premio Strega conquistato da Albinati quell’anno con La scuola cattolica, romanzo imponente, non modernista, in cui la persistenza della scrittura di Albinati ha proliferato come summa di una idea di letteratura da cui l’autore non si è discostato mai, muovendosi con la stessa tonalità di voce, con la stessa timbrica classica e spiazzante, con la stessa meditatività in cui consiste la sua digestione del mondo, non per renderne una propria narrazione, ma per testimoniare che per uno scrittore la vita è letteratura per natura. Orti di guerra era ed è l’esempio perfetto di ciò che definiamo prosa poetica – invece con La tua bocca è la mia religione siamo pienamente dentro la poesia:


39.

È come se venissi accecato, quando mi privi

della luce che emana dal tuo corpo. Lo fai

in modo distratto ma qualche volta consapevole:

dici che è timidezza, ma si tratta di crudeltà.

Eh, le prime volte non eri affatto timida…

ti eri spogliata in quindici secondi, forse dieci

levando spazio a ogni trattativa per mostrarmi

ciò che mi sarei perduto se non ti avessi incontrato

se non ti avessi telefonato, se non avessi

buttato là quanto mi avrebbe fatto piacere rivederti…

in poche mosse la catena dei se mi condusse

a quello spettacolo imprevisto. Se … se non era

che volevo farti mia, mi sarei messo a piangere

tanto eri magra… e bella… e appassionata.

Meno male che la fredda libidine ebbe la meglio.


Può la libidine esser fredda? Eppure questa dualità conflittuale, questa versione ossimorica delle cose è la forma più spontanea nel tessuto compositivo di Albinati, in una chiave che è sua ma che come pattern della visione letteraria del mondo è proverbialmente, direi, dei grandi poeti nel tempo: si tratta della meccanica generativo-trasformazionale (invochiamo Noam Chomsky) che produce l’esistenza linguistica e letteraria di noi e del mondo. La letteratura ci dona un’esistenza che altrimenti non avremmo, non conquisteremmo.


51.

Quando ti tocco vedo cose che con gli occhi

non vedo. Le visualizzo… come dire… dall’interno

con la scansione miracolosa di cui sono capaci

i ciechi dalla nascita. Ed è come se le parti del tuo corpo

fossero loro a premere e a massaggiare le mie mani

sempre desiderose ma doloranti, rattrappite dal faticoso

contatto con superfici che occorre stringere

digitare, impugnare, forzare tutto il giorno

in vista di qualche utilità o per ottemperare un obbligo:

la manopola del gas come la leva del freno

i tasti sbadati del pc, le buste con la spesa che segano

le dita, un cacciavite, le chiavi che aprono male

gli armadi di ferro a Rebibbia, quasi da doverli

scassinare..

e poi il contatto col mio corpo di cui mi preoccupano

tanto le novità (come la sopravvenuta magrezza…)

quanto mi annoia la routine: il culo da pulire

la faccia da sbarbare, la livida palude dei genitali

che ribolle di desiderio. Finché, addosso a te

finalmente i polpastrelli trovano una materia degna

di manipolazione, e da cui essere felicemente

impressionati.

Magari esagero se dico che non vorrei far altro

tutto il giorno eccetto svolgere tale attività improduttiva:

toccarti, toccarti, toccarti… Ma forse è proprio qui

la scoperta, se la approfondisco in ciò che scrivo

se riesco a manifestarmi alla sua altezza

forse mi darà la gloria di cui sono degno.


La letteratura che ci fa esistere ci rivela anche la natura della nostra esistenza, la sua innata divaricazione in pulsioni e inclinazioni conviventi e opposte, la sua radice provocante e provocatoria, la sua vita sensuale nel corpo come nel pensiero. Capite perché in Pasolini non c’è contraddizione (che è figlia della lucidità)?

La letteratura ci dà modo di riprenderci uno spazio in cui rettificare certi nostri desideri deviati (!) che rischiano di deragliarci verso il versante infame di noi, come prova Cronistoria di un pensiero infame (2018, Baldini+Castoldi) in cui Edoardo Albinati ragiona col senno di poi su una battuta infelice e spazientita (“… ho avuto un blackout? … mi ha dato di volta il cervello?”) che gli è sfuggita per reazione all’assurdità della nota vicenda di migranti lasciati a galleggiare in mare ad libitum per la cieca disposizione della chiusura dei porti da parte delle autorità di allora, “Sapete”, si sorprende a dichiarare in un dibattito pubblico, “sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius”.


56.

Se il serpente rimane senza Eva nel giardino

abbandonato, come la terrazza di un appartamento

quando muore la padrona e tempo una settimana

cominciano a seccarsi le piante in vaso

che nessuno annaffia più, i ficus, l’ibisco

il plumbago, il rincospermo, le bouganville

sfibrate, fino allo stremo del kumquat

che è l’ultimo a cedere, i cui fruttini oramai neri

come olive si raggrinziscono prima di staccarsi

mentre le pigre piante grasse, agavi e aloe

si preparano a resistere ancora un mesetto

al riparo delle spine, prima di morire…

si sentirà, il serpente, improvvisamente

e scioccamente solo, circondato dal silenzio

avendo contribuito con l’inganno a far cacciare

la sua amata compagna dal paradiso. Alberi e fiori

persino l’erba su cui struscia la pancia squamosa

avvizziscono di colpo, diventa cenere

il giardino calcinato dalla sterilità.

Così mi sento io ogni volta che vai via.

Immagino che la colpa è solo mia.

Vedo da lontano le fiamme della spada

minacciare le tue spalle nude, chine

striate dal nero dei capelli.


Questo brano mi fa ripensare a Paradiso (http://www.filippotimi.com/teatro.htm – visto al Teatro India a inizio settembre 2004), riduzione e adattamento del Paradiso Perduto di John Milton (1667) da parte del regista Giorgio Barberio Corsetti con Edoardo Albinati, in cui Satana era un Filippo Timi travolgente che per questa performance vinse il Premio Ubu Teatro, e il tratto dominante del personaggio e per tutta la pièce era proprio la sensualità indifferente come forza naturale irresistibile, la fredda libidine con le conseguenze diaboliche e faustiane del caso.

Anche questo fa parte del bagaglio attivo di Albinati scrittore: la rilettura e attualizzazione dei Maestri, cioè dei veri classici, tra cui immancabilmente Shakespeare e Kafka, lo stesso Dante che gli fornisce l’autorevole antecedente dell’uso esplicito di un linguaggio franco del corpo e del desiderio. Rilettura da intendersi pure come indagine sulla parola in funzione di strumento fedele a sé stesso e non come manipolazione o come mera risorsa pubblicitaria: in una ipotetica intervista per ora non avvenuta, immagino che l’ultima battuta, ideale, di Albinati sarebbe, Uso la lingua comune, non sono avvezzo a usare la lingua della pubblicità. Basta, per capirlo, leggere il suo Velo pietoso. Una stagione di retorica (Rizzoli, 2021), dove leggiamo, tra l’altro, “Di alcune parole ho l’impressione che vengano usate come si usa il fischio per richiamare i cani”, e altrove l’avviso che il poeta Guillaume Apollinaire teneva appeso sulla porta del proprio studio: “ON EST PRIÉ (SI PREGA) / de ne pas emmerder le monde (di non rompere i coglioni a tutti) / SVP (per favore)”. Si tratta di un diario involontario e accuratissimo in tempo di pandemia dominato da una poetica del frammento giocata  tra aforismi e notazioni, in cui pure la dimensione privata e il podio privilegiato dell’osservatore domina decisamente a svantaggio dell’engagé che pure si mescola al mondo ma se ne tiene anche a distanza: “Mi reputo molto fortunato a non essere, quando scrivo, paladino di niente”, dichiara Albinati, e, soprattutto, lega la scrittura alla vita e alla felicità, e commenta, “L’amore non è mai del tutto assente da ogni singola giornata”.


53.

Quando penso a te, è a me in realtà che penso

al mio desiderio, in cui vorrei gettarmi

come un ragazzo impolverato in un torrente.

Invece, reso impotente, non mi resta

che fare della filosofia su di te.

54.

La scienza non la capisco, le lotte politiche mi sfuggono

I libri li sfoglio appena, i giornali da tempo non li leggo:

a forza di canterellare tra me come una nenia

le voci puerili e risentite del desiderio, sono rimasto solo.

Il mondo intero è saggio e io uno sciocco.

Mi raccomando che nessuno segua

il mio cattivo esempio: dedicarsi all’amore

alla bocca, ai pensieri, alla voce di questa donna

dissipa e brucia ogni interesse, ogni residua

ragione per voler conoscere questo mondo e abitarlo.


Il desiderio è stato oggetto di molte indagini a mezzo letteratura svolte con meticoloso scrupolo da Albinati – in Cuori fanatici (2019), folla di desideranti quasi dantesca; in Desideri deviati (2020), altro inferno appena e in parte più adulto, di ambientazione editoriale e milanese, che mi ha curiosamente ricordato un copione del ’59 di Pier Paolo Pasolini, simile solo nel titolo in realtà, La nebbiosa; o in Un adulterio, romanzo marino e isolano, estivo in modo sfrenato, con tutte le tinte forti del caso, in cui il duello corporale e sensuale tra i due amanti vede la metà femminile dominante – tutte disseminazioni, mi sono fatta l’idea, del romanzo La scuola cattolica, vincitore del premio Strega nel 2017, epitome monumentale (1296 pagine dopo il taglio di circa 400 suggerito con garbo dagli editor Rizzoli di allora) del desiderio come basso costante delle nostre esistenze da praticamente sempre o quasi subito, tenuto a bada in genere e vissuto in privato, ma anche sorta di carica esplosiva sempre passibile di infiammarsi e devastare naufragando in perversione e delitto.

Il desiderio permette di cogliere la bellezza e viverla, per quanto potente o smodato tende a dare armonia prevalente alle nostre vite, a farci adorare quasi religiosamente armonia e bellezza nell’altro/a e a tornare con sguardo adorante e amoroso a questo spettacolo che abbiamo eletto a nostra stella polare nel mondo procelloso. Il corpo in movimento, sintesi e segno del desiderio, è integra espressione, non puro strumento oggettuale da desiderare come accessorio, da usare arbitrariamente per poi disfarsene o posare. Sta qui la radice dell’amore sensuale come espressione piena e poesia del corpo che esclude ogni arbitrio e non può mai tradursi in vile violazione (La scuola cattolica in sostanza sonda questo ripido crinale).


63.

Ascoltarti leggere Proust ad alta voce

è come carezzare le tue gambe, periodi

interminabili la cui sintassi si snoda

dalle ossa sporgenti del bacino lungo la coscia

fino al ginocchio e ancora, con una frase

smisurata e aerea, simile a un ponte sospeso

ad arcata unica, fin giù al malleolo

impudentemente sottile. In che modo tutto ciò

si regga insieme senza sfasciarsi è un mistero

ma sono oramai esperto di artifici ingegnosi

ho imparato a riconoscerli, valuto ammirato

i materiali di cui sei fatta, come un tecnico

chiamato a svolgere una perizia su di te.

E intanto la lettura ramifica le sue capillari connessioni.


“La bocca della persona amata è un oggetto di culto come altre parti di lei, o di lui, o di esso,” scrive Albinati in Velo pietoso, “dato che il corpo benedetto dall’amore diventa meravigliosamente cosa, come solo certe cose (e non necessariamente le persone) possono essere meravigliose, ecco, sì, le cose, confesso di sognare la rivincita delle cose sulle arroganti persone, dell’inanimato sul vivente, pietre, marmi, edifici, paesaggi, oggetti di uso comune e oggetti d’arte, stoffe, strumenti di lavoro e musicali, microscopi e viole da gamba, candele, brocche, frutti, statuine, gioielli, e i nudi materiali (cera, ferro, ciocchi di legno, sughero, carbone, zolfo) e le montagne di spezie e di legumi, di uva passa e datteri che sbucano dai sacchi in un mercato marocchino o afghano”.

In La tua bocca è la mia religione (titolo che si muove tra metonimia e sineddoche, cioè tra dettaglio minuto simbolizzato e riassunto sostitutivo della persona amata, con dichiarazione esplicita della di lei adorazione) dice:


66.

L’estate del duemilatre fu la più torrida

da un secolo a questa parte, affermano gli esperti.

In particolare, due singoli individui

contribuirono da soli ad innalzare la temperatura

del pianeta coi loro incontri e i loro baci scottanti:

correndo nella notte su una decappottabile

lasciavano dietro le ruote scie di fuoco

e il resto del tempo lo passavano in un bagno

di sudore a rotolarsi. Poi si separarono

ciascuno tornando sul cammino della vita

assegnata, ma oramai l’estate era incendiata

e continuò a bruciare fino alle piogge di settembre.


Mi avvio a concludere e voglio farlo richiamando una pagina che mi è venuta prepotentemente in mente, sia per contrasto che per analogia immergendomi in La tua bocca è la mia religione di Edoardo Albinati:

“…le parole sono inutili. Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai. D’altra parte, a mano a mano che mi lasciavo portare dalla passione, avevo sempre meno tempo per i miei studi di filosofia e trascuravo anche la scuola. Andare a scuola o rimanervi mi riusciva molto penoso, e anche faticoso, perché dedicavo le notti alle veglie d’amore e il resto della giornata a studiare. Le mie lezioni erano sciatte e prive di entusiasmo: ormai non dicevo più nulla per virtù d’ingegno e tutto mi usciva di bocca soltanto grazie alla mia lunga pratica: mi limitavo a ripetere quello che avevo trovato in passato, e se mi capitava di creare qualcosa di nuovo, non si trattava certo di alte teorie filosofiche, ma di canzoni d’amore. Eppure molte di quelle canzoni, come certo sai, sono ancora oggi diffuse e cantate in molti paesi, soprattutto da coloro cui la vita sorride come allora sorrideva a noi.”

Chi parla qui, anzi chi scrive? È Abelardo, teologo nella Francia del XII secolo, che si rivolge alla sua Eloisa: i due furono presi da innamoramento immediato e travolgente, destarono scandalo, e furono separati, ma queste vicende pubbliche così invasive nella loro relazione privata non cancellarono, sublimarono semmai, il loro amore, pieno sensuale carnale e mentale, totale in una parola: le loro lettere d’amore sono rimaste celebri, soprattutto sono uno scambio epistolare. L’analogia sta nella temperatura alta della passione, il contrasto sta nel fatto che nel caso dell’opera di Albinati non si tratta di scambio, abbiamo solo la voce di uno dei due. Allora potremmo qui invocare le liriche intonate da Catullo all’indirizzo di Clodia, divenuta in poesia Lesbia; potremmo scomodare Dante che esplora questo mondo e quell’altro per la sua Beatrice; o Petrarca che a Vaucluse si abbandona alle voci argentine delle chiare fresche dolci acque per evocare la sempre e mai abbastanza rimpianta Laura; potremmo persino invocare il sole che sorgendo s’intrufola tra le lenzuola degli amanti o la figura del compasso, due bracci agganciati da Unificante Amore nella poesia secolare di John Donne; oppure l’ambigua adorazione di Shakespeare per la sua donna (My mistress’ eyes are nothing like the Sun), e via così – esempi stavolta di celebrazioni univoche, soprattutto esempi tutti di amori cantati quando oramai sono perduti e poi gli amanti sono separati per sempre: sembra quasi che l’esaltazione dell’amore in tutti questi casi abbia bisogno dell’assenza dell’altro per esserci e dilagare nell’animo di chi lo celebra, prendendo il posto dell’amante assente, posto dell’angelo apparecchiato in versi.


75.

Una volta acceso, il desiderio

rende impossibile un giudizio spassionato

sulla tua bellezza. […]

L’intelligenza resta l’unica strada

che ancora mi collega al mondo

[…].

Questa celebrazione di desiderio e amore da parte Edoardo Albinati è anzitutto celebrazione dell’amata, e L’AMATA NON MANCA: C’È! Una svolta radicale nel canto d’amore che è erotico e fisico e inneggia al corpo come presenza insostituibile per far sì che l’amore esista, e il desiderio sia impetuoso, per nulla indebolito dall’età che intanto corre indisturbata: questo sconfessa, vivaddìo, la retorica pedagogica di molte inchieste da rotocalco che infestano ormai anche gl’inserti letterari dei quotidiani, acquistati con o senza giornale, le riviste e persino la nobile arte delle recensioni – peccato mortale sarebbe se ciò avvenisse a danno di libri non solo belli e buoni ma di rilievo come questo, importanti per la causa mai dimenticabile della letteratura che Edoardo Albinati porta molto avanti anche con questo libro come con tutti gli altri suoi e con tutti quelli che verranno.

Aggiungo che la passione celebrata qui, ripeto: in La tua bocca è la mia religione (Guanda, 2022), non è transitoria, non è la capricciosa accensione di un intenso istante: è compenetrazione stabile e dinamica, apertamente descritta raccontata cantata celebrata senza riserve e senza veli, con la franchezza genuina che la poesia chiede.

75.

Alla piattezza attuale della vita solo si oppone

la sporgenza del tuo seno, quell’argomento valido

e insolente, che tanto mi risveglia e mi confonde.

“Manifestandosi nei suoi oracoli, Apollo non dice niente e non nasconde niente, bensì mostra i segni. Lo stesso fa la letteratura. Quando pretende di dire o tenta di nascondere, fallisce” (da Velo pietoso).

80.

Quanti chilometri ha percorso la mia mano

sinistra, carezzandoti la schiena, le spalle

e le ossa del bacino, soffermandosi

a premere col pollice. Reagivi con mugolii.

Non vedevo il tuo viso. Era inutile vederlo.


La fotografia nella pagina è di Dino Ignani: https://www.dinoignani.net/

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