A me i matrimoni piacevano molto. Per racimolare qualche soldo in più, quando mi si presentava l’opportunità, andavo a cantare l’Ave Maria di Schubert assieme ai miei amici Samuel e Giovanni.
Samuel suona ancora il violino, ha un’arcata fantastica. Non aveva molta simpatia per le cantanti liriche, ma nei miei confronti nutriva una specie di ammirazione mista a rispetto, dal giorno in cui ero riuscita, per puro diletto, ad imparare la scala di Sol sul suo strumento, incredibilmente al primo colpo, questo lo impressionò moltissimo tanto che passò dal considerarmi un semplice soprano a stimarmi sua fidata collega musicista; Giovanni invece suonava l’organo, ma era più bravo a dirigere l’orchestra, con lui eravamo compagni di conservatorio, mi suggerì buona parte dell’esame scritto di Armonia Complementare.
C’incontravamo mezz’ora prima della cerimonia, se questa si svolgeva in città, ma il più delle volte capitava in posti assurdi… chissà perché quando si decide di sposarsi non si sceglie mai la parrocchia più vicina a casa. Di solito guidava Giovanni, io e Samuel lo prendevamo in giro perché era sempre di fretta ma andava lentissimo con la sua Panda 4×4. Più che un trio di musicisti, sembravamo tre archeologi alla ricerca di veri e propri reperti… spesso le chiese si trovavano in cima alle montagne, o nelle vaste vallate dell’appennino tosco-emiliano, per arrivarci ci mettevamo ore di curve, e una volta lì le distinguevamo dal paesaggio (il più delle volte magnifico) solo per la croce in cima alle mura altissime verdi di erica e marroni di muffa.
Aspettavamo gli sposi ognuno a modo proprio: io riscaldavo la voce facendo i vocalizzi dietro agli altari, resuscitati solo per quel giorno dal vomitevole odore di zagare, gigli e calle, Samuel accordava il violino non appena Giovanni aveva finito di sistemare il suo piano elettrico collegato a qualche presa di fortuna col pericolo, ogni volta, che saltasse l’impianto inutilizzato da secoli.
Mi piaceva sentire l’odore di quella resurrezione… è un misto di profumo di petali bianchi, polvere antica e sudore di marmi in pomeriggi caldi.
Quando entrava la sposa col sottofondo della Marcia Nuziale degli Asini (Mendelssohn, per intenderci) Giovanni e Samuel avevano un modo tutto loro di suonare con passione se lei era carina, o almeno passabile. Invece se era meno bella, la marcia prendeva un non so che di melanconico e risuonava con più vigore nell’aria delle montagne… un ultimo accorato abbraccio musicale, pressoché inutile, di solidarietà allo sposo. Come la musica che tracciasse assieme al condannato a morte gli ultimi passi di libertà.
A me, i matrimoni piacevano molto.
Alla messa spesso nessuno sapeva rispondere, e allora il prete incalzava il ritmo della celebrazione. Io facevo in tempo a vedere tutti gli invitati durante la predica. Sgusciavo in silenzio da dietro l’altare e mi sedevo di lato, su un gradino qualsiasi, mentre i miei amici discutevano dell’ultimo concerto ai Servi o delle imprese eroiche di Zitellini, il fagottista. Aveva avuto coraggio, lui, a metter su famiglia appena ventenne, d’altronde, cosa doveva fare? La povera Irene era rimasta incinta e quel bambino lei proprio lo voleva tenere…
Non so perché, ma ogni volta che mi affacciavo dal retro dell’abside, mi aspettavo di trovarmi davanti la scena della Messa di Pasqua di Cavalleria Rusticana (avete presente l’opera lirica?) come viene spesso rappresentata, con le coriste splendidamente a tono coi muri delle chiese-ruderi, robuste, i torsi pesanti avvolti in camicie di cotone grezzo, gonne medioevali marrone scuro e pizzi neri in testa mentre intonano “Gli aranci olezzano…”. Mi aspettavo di vederle gemere, silenti, dietro a mani gonfie e abbronzate, avvolte in cordicelle di chicchi di melograno neri.
L’associazione inconscia per l’effetto delle zagare strizzate dentro a grossi vasi, posti a terra proprio davanti al mio muso, svaniva non appena ero investita dal fumo di sigaretta (qualche volta vapori dolciastri di sigaro) dell’immancabile amico degli sposi ateo, o dissertatore, o anticonformista o semplicemente in crisi d’astinenza da fumo piazzato appena dietro la porta laterale che permetteva un po’ di ventilazione e qualche fascio di luce assopita come il resto dell’assemblea durante l’omelia: a quel punto era come se gli occhi mi si aprissero magicamente, e potevo ammirare il più stonato dei dipinti viventi che a volte cambiava solo per qualche bizzarro particolare, ma sempre uguale a se stesso, incorniciato da un’altresì stonatissima cornice di pesante muratura, spoglia, secolare, calcinata.
La tela aveva colori pastello, organze lavate, sbiadite, dei vestiti svolazzanti in stile Regina Elisabetta d’Inghilterra, e dei cappellini a nido di rondine, sormontati da improbabili piume finte sgargianti; tacchi a spillo sotto a scarpe di vernice nera, resa grigia dalla polvere antica del pavimento, borsette con le paillettes dorate, tra le prime file dei banchi puntini appaiati di perle che facevano su e giù accanto a piccoli pinguini irrequieti i cui musi sporgevano da sotto ai legni tirati a lucido per l’occasione, curiosi, piccole manine con le fotocopie delle preghiere della messa presi come diversivo a un pianto annoiato, grosse catene ai colli, ai polsi, alle caviglie, (è una chiesa o un carcere per ricchi?), la minigonna d’argento mostrata dalla testimone più audace sdraiata come la Principessa sul pisello sullo sgabellino di velluto verde… e poi tante lacrime, goccioloni di commozione, riversate su chilometri di tulle che spaccava in due il quadro, come una scia di neve spumosa s’un fiume di sangue sporco.
A me i matrimoni piacevano molto, perché sono il trionfo della prevedibilità, e a me piace molto, la prevedibilità: mi dà un senso di sicurezza che mi appaga, mi rilassa, placa l’ansia. È poter delineare in strutture definite i confini dei miei comportamenti, è sapere esattamente cosa devo fare, quando, e come farlo: ciò che è prevedibile non inganna, te lo aspetti ed agisci di conseguenza, e questo permette che tu agisca e reagisca bene a qualsiasi tipo di situazione; gli errori, gli sbagli, succedono in minima percentuale, se ne esce sempre vincitori, se ne esce persone per bene, socialmente adeguate, comprensibili agli altri esseri umani. La prevedibilità dovrebbe avere come radice etimologica la parola “successo”.
Ai matrimoni sapevo per filo e per segno tutto ciò che doveva accadere momento per momento, o ciò che sarebbe potuto accadere, calcolando perfino i piccoli imprevisti, come ad esempio il ritardo della sposa stimato entro massimo quaranta minuti, l’agitazione della mamma dello sposo, resa evidente dalle innumerevoli carezze sul viso del figlio, per incoraggiarlo a confidare che la donna della sua vita presto varcherà la soglia del portone di fondo, e se non dovesse comparire non importa, perché la mamma sarà sempre al tuo fianco, piccolo mio, lei non ti abbandonerà mai.
Dalla disposizione nei banchi degli invitati alle nozze, comprendevo se c’era astio tra le due famiglie, se qualche ex amante di uno degli sposi vi assisteva con aria di sufficienza, tradendo qualche sospiro ogni volta che si nominava lui o lei, se qualche coppia di fidanzati era prossima al grande passo, lo capivo perfettamente dalla strana ed incontinente gioiosità nel loro scambio di sguardi, o se erano seconde nozze, per esempio, tutto era più sobrio, più arioso, contenuto e veloce.
Immancabile imprevisto era la risatina sommessa dei parenti quando il figlio, o nipote o cuginetto vestito da piccolo maître de sale, si rifiutava di fare il breve tragitto dal secondo banco all’altare per portare le vere, a volte urlava, altre piangeva soltanto, una volta sparì in fondo dietro alla fonte battesimale con la refurtiva, ci vollero minuti di panico per scovarlo, mentre l’angioletto dormiva con la testa appoggiata al cuscinetto di seta bianca ricamata.
Statisticamente, ho calcolato che la buona riuscita della cerimonia in chiesa, è direttamente proporzionale al rapporto di conoscenza del sacerdote con i futuri sposi: meno essi si conoscono, peggiore è il risultato emotivo che ne rimane, al contrario, se c’è amicizia consolidata tra di loro, le parole delle preghiere sono tutte più partecipate, si ricorda il loro primo incontro, e il sacerdote sfodera il meglio del suo senso dell’umorismo facendo battute su come erano da piccoli, al catechismo, e quanto brave sono state le loro famiglie a crescerli così perbene, e si fa garante della nuova famiglia che sta per nascere, di sicuro andrà tutto liscio, e i bambini che nasceranno avranno l’amore vero come esempio di vita.
Credo in un solo Dio… A questo segnale, rientravo stordita dall’impasto impazzito di colore, l’amico ateo degli sposi rientrava anche lui furtivo dalla porta laterale tra occhiate di sdegno degli altri amici degli sposi non-fumatori. Ancora quel puzzo dietro all’altare… ora sentivo quello stantio e umido delle mura, del pavimento, i fiori resistevano nonostante fossero lì fermi da ore… avrebbero retto i loro calici prima del segnale di riposo, in altre parole, dopo il fatidico “Sì” e lo scambio degli anelli. Li avrei fatti addormentare col mio dolcissimo intervento canoro mentre i testimoni apponevano le firme sull’atto matrimoniale.
L’introduzione dell’Ave Maria di Schubert dura quindici secondi circa, giusto il tempo di conferire agli animi più commossi una transumanza psicologica dallo stato di suggestione collettiva a quello di sopore collettivo. Nessuno ascolta il soprano mentre canta, non importa ad alcuno se è Schubert o Gounod, se invece dell’Ave Maria si canta Vitti na crozza o Love me tender, tutto è così pateticamente statico durante le firme, come un sospiro trattenuto, un raccogliere le idee, un rendersi conto improvvisamente che fuori il sole sta calando, che il viaggio verso il ristorante durerà circa un’ora e tre quarti se va bene, che il vestito da sposa è proprio un peccato indossarlo solo una volta bello com’è, non si vede l’ora di uscire dal portone di fondo, ma quanto dura questo canto?!
Questi pensieri, in questo preciso ordine cronologico, mi disturbavano non poco, e in quel momento facevo fatica a concentrarmi: avevo paura di dimenticare le parole in latino della preghiera.
Mentre canto in una lingua diversa dall’italiano, è mia consuetudine focalizzarmi su una sorta di mappa mentale dello spartito, su cui vedo lo scorrere delle note nel rigo musicale, e sotto di esso le sillabe associate a ogni nota. In questo modo, di spalle ai miei amici che avevano appena cominciato a eseguire il brano, fissavo un punto prestabilito davanti a me, che quel giorno coincideva con un bellissimo crocefisso di legno, di fattura finissima, probabilmente risalente a fine 1600, appeso accanto all’ingresso laterale destro. Aveva gli occhi socchiusi e il capo teneramente inclinato dalla parte che andava nella stessa direzione dei due inginocchiatoi davanti all’altare. Nel guardarlo, quella dolcezza mi rasserenava, e allo stesso tempo mi permetteva di illudere il mio pubblico che il canto fosse rivolto solo a loro, agli sposi, e non circoscritto dentro al reticolato ligneo di quel volto sofferente.
Attaccai l’inizio dell’Ave Maria con una messa di voce che ci scommetto provocò in Samuel un sorriso di approvazione. Era la mia specialità prendere le note piano e poi crescerle d’intensità, lentamente, come un suono lontano che si fa sempre più reale e presente, fino a sentirlo vibrare nell’aria. Avevamo fatto le gare di messa di voce una sera dopo un concerto, in un’osteria vicino Bologna dove c’eravamo conosciuti e sfidati all’ultimo fiato, io con la voce, Samuel col violino. Pareggiammo la partita, ma devo ammettere che riusciva a domare l’arco meglio di quanto io padroneggiassi le corde vocali: una sola nota dentro a un’unica arcata lunghissima, legatissima, senza tremare, suonata dal niente al fortissimo senza mai spezzare il suono.
L’intesa musicale di noi tre era perfetta, Giovanni arpeggiava sui tasti cadenzando un ritmo fluido, costante, aspettando i miei respiri, sottolineando ogni frase musicale con i bassi non troppo invadenti, mentre Samuel si univa alla mia melodia con un contro-canto leggero, armonioso, suonando una sua personale trascrizione del pezzo.
Ma come tutte le volte, l’attenzione della platea durava sì e no fino a metà della prima strofa, e questa indifferenza, questo poco rispetto verso un’esecuzione così accurata e così ben equilibrata di Schubert, mi infastidiva oltremodo. Noi stavamo lavorando, esercendo al meglio il nostro sapere musicale, stavamo regalando passione, piacere, ma anche sudore di giorni e notti trascorsi a studiare con dedizione per ottenere eccellenti risultati, che venivano puntualmente, sistematicamente ignorati da un pubblico distratto, sordo e superficiale.
Il brusìo che oramai non era più sommesso, divenne a poco a poco un chiacchiericcio di sottofondo dal ritmo confuso, i cui accenti principali erano le lamentele del bambino degli anelli che sentivo piagnucolare “Voglio zio, voglio andare da zio!”.
Dopo gli sposi, dovevano ancora firmare l’atto di nozze altri quattro testimoni. La mamma della sposa, nel frattempo, continuava a sistemare lo strascico di tulle del vestito, allineandolo esattamente al centro del tappeto rosso, con fare più che concitato. Forse anche lei soffriva di quella che io chiamo “ansia geometrica”, pensai, il problema è che tale comportamento è anche ansiogeno, per cui i parenti attorno alla signora avevano cominciato a muoversi nei banchi, a salutare da lontano gli sposi, a fare foto al sacerdote che nel frattempo aveva preso in braccio il bimbetto – dunque era il prete, lo zio – persino l’amico dissertatore aveva deciso di andare a fumare un’altra sigaretta.
Mancavano solo altre due firme adesso, forse avremmo potuto far apprezzare la seconda strofa e il finale del canto ma a un tratto, vivido come il riflesso della luna piena sul mare d’agosto, uno scintillio improvviso mi costrinse a distogliere definitivamente gli occhi dal Cristo morente, e abbassare lo sguardo verso la testimone dello sposo, quella con la minigonna en pendant con le scarpe in puro argento 800: le era caduta la penna, che raccolse da terra vicino al vaso di zagare e gigli, accanto ai miei piedi.
Mi piegai per aiutarla, e mi rialzai in tempo per attaccare la ripresa sulle parole “Sancta Maria, mater dei, ora pro nobis peccatoribus …”. Grazie al cielo, nonostante quel marasma di fronte a me, stavo ricordando perfettamente il testo. Ciò mi inorgoglì, sentivo che non dovevo più temere quel tipo di pubblico così maleducato, ormai ero diventata brava a prevedere questo genere di situazioni, in fondo succedeva sempre allo stesso modo, e io ero pronta a reagire con calma, senza lasciarmi distrarre dai rumori e neppure dai guizzi di luce improvvisi.
A un certo punto però mi accorsi che non riuscivo a controllare bene la voce, sentivo la gola stringersi, avevo il fiato corto… avvertii un calore strano sul viso, e mi resi conto che stavo lacrimando! “Sono molto sensibile”, pensai, “tanto sensibile da piangere per questo degrado culturale, le persone non sono più in grado di ascoltare la vera musica, povero Schubert, piango per te… nunc et in hora mortis nostrae“.
Non feci in tempo a pronunciare la parola “mortis” che sentii l’impellente necessità di starnutire. E io quando starnutisco ho un riflesso incondizionato al piede destro: assieme allo starnuto, la mia gamba destra scalcia meglio di un mulo, proprio nello stesso momento, come se avessi il naso al posto del ginocchio… calciai così forte sul vaso di fiori che questo volò fino all’inginocchiatoio della sposa, si ruppe, e fortunatamente i cocci non ferirono nessuno dei presenti.
Ci fu un silenzio brusco. C’era un panico statico, nessuno osava fiatare, avevo gli occhi di tutti puntati addosso.
Giovanni continuò a suonare improvvisando giri armonici su accordi moderni, sembrava Messiaen che faceva le variazioni su tema, Samuel lo seguiva inventando melodie, sfoggiando la sua tecnica di trilli e scale, io guardai ancora il crocefisso, e cominciai a pregare:
“Ti prego Signore, toglimi da questo imbarazzo, fammi trovare nella memoria degli imprevisti una cosa del genere, fammi uscire da questa situazione”.
Fu allora che mi venne in mente il mio maestro di canto, il grande tenore Paolo Pallavicini, e la sua teoria dell’acuto secondo cui “Se tutto è andato male, un bell’acuto è quello che ti salva la serata”.
Aspettai che Giovanni concludesse il giro armonico e ripresi la melodia finale sulle parole Ave Maria, allungando la “a” verso un vigorosissimo Si bemolle acuto che risuonò nella chiesa per almeno 15 secondi: fu un successo!. Pallavicini aveva ragione, l’acuto risolve tutto, anche le stecche, anche gli starnuti. Gli sposi si alzarono in piedi applaudendo, e dopo di loro tutti gli invitati mi fecero una standing ovation, forse la più bella della mia carriera da soprano.
Amen. Marcia finale. Gli sposi si avviano verso il futuro tracciato dal fiume rosso, non proprio coscienti di quello che è stato: firmare un’unione sacra, vergare con l’amore il proprio destino, ma non è colpa dell’odore ormai svanito dei fiori.
Ricordo ancora quello della calla fresca, appuntata sul taschino del mio ex futuro marito. Ecco, la cerimonia del mio matrimonio fu l’eccezione che trasgredì tutte le regole, tutte le mie certezze.
Lui scappò dall’altare mentre stava recitando la formula “Anna, io accolgo te come mia sposa”. Si girò verso l’assemblea gridando “Io non posso!”.
Non me ne feci mai una ragione per non aver calcolato anche questa probabilità, io che avevo previsto ogni singola parola, ogni singolo petalo del mio bouquet!
Come avevo potuto essere così sprovveduta proprio il giorno delle mie nozze? Dove avevo sbagliato? Come avrei potuto prevederlo?
Rileggendo i miei appunti dal taccuino blu, quello per le statistiche nuziali, non vi trovo niente del genere. Solo una volta, a un matrimonio a Carpi, scrissi nella mia lista di cose che spezzano le routine “può accadere che la sposa pianga fino da svenire, prevedere sempre un dottore tra gli invitati”.
Io non svenni, probabilmente grazie ai miei amici che cominciarono a suonare così forte “Seufzer, tränen, Kummer, not” di Bach (Sospiro, lacrime, dolore, angoscia). Il brano era stato stabilito per l’offertorio, ma pensarono di omaggiare il mio imperdonabile errore di calcolo degli imprevisti con quello: mai scelta fu così azzeccata, ancora li ringrazio per la loro devota compassione.
Quel pomeriggio a Piombino, io Samuel e Giovanni avevamo guadagnato 50 euro a testa, ogni volta ci chiedevamo perché non avessimo mai avuto il coraggio di chiedere di più. In fondo, per un matrimonio non si spendono cifre galattiche? Perché mortificare sempre il nostro lavoro?
E poi c’era da dare a Giovanni la quota per la benzina. Ma grazie a Dio, anche per quel mese la bolletta della luce era pagata.
“Andiamo a festeggiare col rosso della Ca Vecchia?”, chiesi ai miei compagni.
“Certo, tanto siamo di strada… da oggi ti chiameremo Maradona! Soccia che tiro, vuoi venire con noi alla partita di calcetto venerdì?”
“Shhh!! Sto scrivendo sul mio taccuino una cosa importantissima!”
Avevo scritto “Al mio matrimonio, assicurarsi che la cantante non sia allergica alle calle”.