Ma di questo assai sereno annoiarsi
quanto si garba l’animo mio, quale
distratto, in questi giorni così arsi,
è e conviene; pure se quest’ale
prendo e mi volo per i riarsi
sentimenti esangui, esposti alle
mature stille di flutti tersi
che l’onda nella sabbia arsa da le
lontane rive spande, pure, sento
contrarsi un fremito, e assopito
mi sveglio e veglio ancora il canto
di quest’acqua che distratto séguito
a distrarre da me come se un canto
qual è, mai forse udito, è quel che medito,
sa dirmi cose care a mio mal vezzo.
[Beppe Salvia, da I. INVERNO DELLO SCRIVERE NEMICO, in CUORE – InternoPoesia, Collana InternoNovecento 2021]
Bisogna credere agli angeli. Anche quando hanno natura apparente di maudits. Creature pure che passano nelle nostre vite, le investono come brezze potenti, le vivificano, poi trascorrono veloci per tornare al mistero da cui provenivano. Bisogna crederci. Per gratitudine. Per modestia. Per umiltà. Se osiamo non fare una simile professione di fede, cioè se, senza onirismi o cieca devozione, rinunciamo a riconoscere i delicati giganti che ci passano accanto, non pecchiamo solo di presunzione, rischiamo anche di perdere occasioni preziose – oltre all’opportunità di star zitti e lasciar parlare chi ha da dire, anche di non comprendere ciò che conta e coglierlo al volo. Una questione in realtà non di fede, ma più terra terra di affidamento: l’esercizio-zero che ogni buon regista chiede agli attori di giro.
Traducendo.
Beppe Salvia è stato un angelo messo dalla nostra buona sorte sulla strada della poesia in una fase del suo impervio cammino millenario in cui il crollo di ogni capacità d’affidamento e il dispotismo dell’ansia di controllo, e ancor più di normazione e normalizzazione, rischiava di azzerare la letteratura in quasi ogni sua forma salvo la saggistica e la manualistica. Che rischio abbiamo corso!
MA c’è stato chi, alzando bandiera bianca, trovato un ponte o un predellino da cui sventolarla, con pochi compagni d’avventura, però esponendosi più rischiosamente di loro, ha tentato il tutto per tutto e sacrificando sé stesso ha costituito il passaggio che mancava, il corridoio umanitario che ha permesso alla poesia di non disperdersi per sempre. Beppe Salvia è stato l’anello che serviva, l’angelo che ha permesso a tutti di non perdersi d’animo, di farcela in un mondo ostile, tutto di natura altra.
Partiamo proprio da quel MA – non il mio: il MA con cui Beppe Salvia avvia la sua macchina poetica.
Spesso Ugo Foscolo iniziava i suoi sonetti con espressioni come “Forse perché” o “Né più mai”, e noi ogni volta abbiamo osservato che quegli incipit ci tuffano direttamente in medias res, è come se noi spiassimo la mente del poeta, e il suo sentire, nel bel mezzo di un ragionamento iniziato chissà dove e chissà quando – cioè l’inizio non è l’inizio. Anche il MA di Beppe Salvia è un incipit solo perché è la prima parola, la prima in assoluto messa nero su bianco come avvio della macchina poetica, ma viene spontaneo pensare, anzi “sentiamo”, che siamo nel bel mezzo di un ragionamento, di un discorso che tra l’altro, manco a farlo apposta, “tradisce” per così dire proprio la natura angelica di Salvia-poeta e del Beppe Salvia molto caro agli dèi, visto che ha scelto di lasciare questo mondo molto presto, forse avendo sentito d’aver esaurito il proprio compito: un compito angelico, salvare la poesia, guardando sempre a quei Cieli Celesti cui, di tornare, gli urgeva. Altro foscolismo del Salvia uomo e poeta. Nei primi versi sopra riportati e come vedremo in altri passaggi tra poco riportati, molto si vede Foscolo passeggiare, come cara reminiscenza di un fare poesia, nel linguaggio, negli stilemi, nella postura da poeta, e nella percezione del mondo e del proprio tempo, cui Beppe Salvia sembra richiamarsi molto. Salvia però è molto più disilluso del suo ipotetico modello e referente. Non solo perché sono passati tra i due quasi duecent’anni, ma perché il mondo arcadico–sensibile di duecento anni fa, nelle sue estreme lingue di sviluppo, è un mondo definitivamente utilitaristico, tecnocratico, e Salvia stava proprio sul limine dell’estrema trasformazione, in prossimità del compiersi della disumanizzazione, insomma in bilico sull’orlo del burrone, ciò che forse davvero lo ha stroncato.
Cominciare con un MA vuol dire avere in testa tutto un ragionamento.
Cominciare con un AHI non è solo fare l’occhiolino ai Romantici, vuol dire capire il loro tramonto.
Ahi che stanchezza mi giunge adesso,
addosso, e mi sottrae il cuore mio,
tutto quel che non fosse inganno, ressa
d’esorcismi, malagrazia del dio,
tutto che il sole m’ha nutrito; Essa
ingenera vana paziente veglia,
sa di morte sensi mente bellezza,
e pare farmi desto e invece, ch’io
sappia, mi dice, quanto non può Vero
farsi salute, corpo tanto forte,
cuore di zucchero, mente di pietra.
Così nulla accade, mi dice, e il Vero
verità franca e cortese induce a morte;
e nulla tradirà l’arguta pietra
primeva, che non muove o si desta.
[Ibidem]
Beppe Salvia è uomo del proprio tempo e lo vediamo qui: desume da tutta una sineddoche di segni e sintomi il proprio stesso stato di salute che a sua volta è metonimia della salute del mondo e di noi come genere. Espone, Beppe Salvia, tutta una semeiotica, passibile d’essere clinica, come sentire contemporaneo pretende e richiede. Ricorre il CUORE assalito dalla stanchezza come tutto l’essere dell’Uomo, un Sisifo consapevole, dunque meno felice rispetto a Camus. E qui la consapevolezza la leggiamo tutta. C’è la stanchezza del cuore, c’è il Vero che si dimostra ambiguo (verità franca e cortese), c’è la mente di pietra, c’è la vita come vana veglia in cui concorrono e competono tra loro morte sensi mente e bellezza (dunque fattori esponenziali di nature diverse) ed è tutto riconducibile a ciò che la stanchezza dell’inizio dice al poeta, una qualche stasi minerale che è realtà esistenziale, la vita allo stato corrente.
A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
[X. CUORE, in CUORE – InternoPoesia 2021]
Questa è in assoluto la più nota poesia di Beppe Salvia: è nella decima sezione, CUORE, della raccolta omonima che InternoPoesia ha pubblicato alla fine dello scorso anno, 2021, con la curatela, preziosissima, di Sabrina Stroppa, con contributi importanti a corredo di Arnaldo Colasanti, Claudio Damiani, Gabriella Sica, e Rocco Salvia (fratello del poeta).
La raccolta è suddivisa nelle sezioni: I. INVERNO DELLO SCRIVERE NEMICO, II. LETTERE MUSIVE, III. INVERNO, IV. CANZONE D’ESTATE, V. VERSI, VI. ULTIMI VERSI, VII. CIELI CELESTI, VIII. PRIMAVERA, IX. VOLARE, X. CUORE, XI. NINFALE, XII. SILLABE, XIII. [Varie], APPENDICE: ORE, ESTATE.
ESTATE in realtà uscì subito dopo la tragica scomparsa del poeta proprio nel 1985 come libro a sé sotto lo pseudonimo Elisa Sansovino che Beppe Salvia stesso si era scelto per firmare alcuni scritti.
L’andamento del primo verso ricalca a mio parere la serena resa al vivere espressa da Sandro Penna nel suo più famoso epigramma: Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita. MA immediatamente, dopotutto, il componimento smentisce quell’umore confortante o sentire disteso, eleggendo intanto come timone della navigazione poetica proprio quel MA che come sappiamo è il cuore forte che batte in genere nei sonetti quando, classicamente, al nono verso introduce la pars destruens rispetto al ragionamento costruito nell’ottava o coppia di quartine precedenti (MA, ecco, ricordiamo che in quel falso sonetto o sonetto caudato che è L’Infinito l’impertinente conte Giacomo cioè il giovin signor Leopardi il MA contraddicente lo mette subito già al quarto verso…).
Introduce qui Beppe Salvia due strumenti avversativi: MA e SENZA, dimostrando un CUOR di leone. Consistente nel partire da ciò che è condiviso, accettato, comune, ordinario, pacifico, per rovesciarlo subito, per insinuare con forza che tutto è esattamente al contrario! Allora non è vero affatto che Beppe Salvia ignori i padri della poesia partendo direttamente da sé: fa l’esatto contrario. Parte dai grandi poeti del passato per riprendere il discorso autentico della poesia che si è nel frattempo persa per strada, e, subito dopo aver ripreso qualche segno della grande tradizione oppure con lieve spargimento tra i versi di polvere di poesia del passato, evidentemente oramai cenere (Dialogo delle Ceneri, griderebbe George Steiner), argomenta un metodo di lettura del mondo e del sentire che è attuato nella sua letteratura con la forza di un programma: non ci si deve abbandonare affatto, come vorrebbe rilassarsi Sandro Penna, al placido scorrere del lungo fiume della vita, ma si deve coltivare il dubbio tormentoso e fiaccante che tutto vada letto al contrario. Quale dunque la figura che riassume lo sguardo sul mondo? La contraddizione, l’ossimoro in radice (Santo John Keats!). E quale allora la postura del poeta? L’inquietante diffidenza, il sospetto mai domo, mai sopibile, dell’inganno o errore. Allora, vedete?, la STANCHEZZA ADDOSSO che subito si affaccia è la condizione perenne, senza requie, del poeta che come Sisifo, non più solo uomo da soma ma profondamente consapevole e, ciò che più conta, senziente, vive una condizione che non è solo sua ma è di tutti, e quindi sente d’essere anche gravato dal macigno del mondo, novello Atlante, soccombe allo stress e in prima persona s’arrende.
Vedete? Sono tutti archetipi. È tutta tragedia greca antica.
Altrimenti detto, Sandro Penna, che compose il suo distico nel 1939, dava voce a un bisogno di pace in un frangente che sapeva solo di odio e di guerra: Beppe Salvia avverte però che lo stato di guerra, di conflitto, è un sottofondo continuo, la grana reale di un tempo di pace apparente in cui i conflitti si sono trasferiti direttamente nei rapporti e nella convivenza sociale. Di qui la sua percezione netta che la quiete di superficie s’increspa di continuo, come un lago la cui acqua non è mai dolce (per parafrasare l’immagine inquieta e felice racchiusa nel titolo del bel romanzo di Giulia Caminito).
Salgo il sommo d’un colle e quel clivo
l’ebbrezza m’ammicca ed un rivo l’amico
suo riso mi dice e la brezza mi
fida un sottile gelo d’altura, so
che non fido maestro è il veridico
ospite che mitiga le nitide
astruserie d’un voto di pitiche
arguzie che l’una differenza
somigliano all’unica sobria pazienza
del lume preciso e della mimica
stramba delle nuvole nuove; e senza
l’acuto strido d’un lido novello
che t’appresti all’udir docili l’ale
di procellarie; aquile soltanto,
ampie e veloci ali d’un velario.
[I. INVERNO DELLO SCRIVERE NEMICO, in CUORE – InternoPoesia 2021]
partivano, cartine al tornasole
le amiche di città
pioveva con il sole
come accade
___________
corte di grida
tepore di terra
cortile di cieli
e nel bianco
fuoco di primavera
s’aprono l’urla di piccini
le teche di bachi nella terra
e in cielo il bianco
_____________
nere dietro la lavagna
a un batter d’ali bianche
le rondini han lasciata tutta una scia
di gesso che
sembra, bugia, malinconia
______________
viva le lunghe ore della scuola
il banco celeste come il cielo
serviva a non guardare la lavagna
viva le povere ore di malinconia
viva quel tuo mugugno
viva la veste bianca e le bugie
viva la via deserta tutta
fiocchi bioccoli
_______________
il gatto s’inchina e la coda è la luna
_______________
il gatto s’ammira nel catino,
gli occhi come la gondola
e la luna
[VII. CIELI CELESTI, in CUORE – InternoPoesia 2021]
C’è chi, al contrario di me, non dispera
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e le pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.
_______________
I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono men o
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere per scrivere
e forse faccio un viaggio, o forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.
________________
Ma oltre queste verità e dentro queste
vuote parole ho perso la misura.
Ora io so soltanto che son seduto
a questo tavolo e che per tante buone
ragioni ho tempo e odio da spendere.
E mi basta così senza nemmeno
maledire. Non è perdere al gioco,
e poi fa bene vivere. Un’arte
marziale voglio imparare, di che sempre
si possa indugiare di far male.
Un teatro astratto di colpi e pensieri
per i giorni neri. E poi le gioie e insieme
con gli amici far niente.
[X. CUORE, in CUORE – InternoPoesia 2021]
Varrà la pena, prima di chiudere con l’ultima serie di versi, di riassumere, fare il punto, e fissare qualche ulteriore dettaglio su questo poeta che, come notava Andrea Di Consoli recentemente, ha scritto il poema della sua generazione. Mi aggancio proprio a questa giusta considerazione per far notare che il “poema” di cui illuminatamente si dice è in realtà (e lo precisa anche Sabrina Stroppa nella ben documentata introduzione) una ricomposizione di frantumi: una notazione che avvalora l’idea post modernistica del fare letteratura che non vale solo per la prosa d’invenzione ma anche per la poesia, e ciò ci rafforza pure nell’idea che Beppe Salvia rappresenti in modo compiuto, proprio con la sua incompiutezza e frantumazione, formale e nel sentire/poetare, una voce autentica del proprio tempo pur nel suo fugace esservi passato.
Ricordiamo che Beppe Salvia è stato parte di quel movimento di ritrovamento della poesia incarnato da due riviste che furono anche due “famiglie” di poeti: Prato Pagano fondata da Gabriella Sica e Braci fondata tra gli altri proprio da Beppe Salvia insieme a Claudio Damiani, Gino Scartaghiande, Paolo Del Colle e molti altri. Entrambe le riviste hanno rifondato la poesia, smobilitata dal Gruppo ’63 che iconoclasticamente tutto volle far saltare in aria, senza sapere (Salvia non lo seppe perché chiuse la propria esistenza otto anni prima) di capitare tra due fuochi: il Gruppo ’63 di cui si è detto e il Gruppo ’93 che seguì – come se il corpo della letteratura fosse una crosta tellurica sottoposta a sommovimenti occulti di cui pure si può fiutar sentore ma che poi si colgono solo quando le scosse avvengono (una sensazione di sospetto e attesa che dopotutto Beppe Salvia provava costantemente e ha, come si diceva, espresso bene per averne fiutato l’inquietudine immanente in modo più o meno lucido).
Ricordiamo anche che proprio il suo sodale della prima ora, Claudio Damiani, proprio in omaggio al grande amico perduto, ha riutilizzato la formula salviana, Cieli Celesti, per una recente raccolta edita da Fazi. Come abbiamo visto vagliandone i versi, Beppe Salvia [che fu poi, come si diceva, pubblicato alla spicciolata negli anni immediatamente successivi al suicidio, e poi con un primo volume-raccolta nel 2006, Un solitario amore, libro Fandango curato da Flavia Giacomozzi e Emanuele Trevi] usa i titoli: CUORE e CIELI CELESTI (quest’ultimo “ribattimento sonoro” posto dallo stesso autore a sottotitolo annotato nelle carte ritrovate e generosamente rese disponibili da Rocco Salvia, fratello del poeta, subito) che sono dunque una scelta dell’autore e stanno lì proprio a monito e indizio dell’intuizione di cui dicevo più sopra: la lettura al contrario, subito, della superficie apparente.
CUORE, in apparenza un titolo deamicisiano, in realtà vuole intendere: L’ESSENZIALE, cioè a dire il vero cuore della questione di fondo, la condizione del singolo, del poeta, che va oltre la sua persona anagrafica e storica per abbracciare l’intera condizione umana proprio dotandosi di minimi dettagli.
CIELI CELESTI, che può sembrare una formula alla maniera del Prati e dell’Aleardi, poeti romantici decadenti, sta lì a indicare che il poeta vorrebbe sollevare la bocca dal fiero pasto della propria forse vile, di certo tribolata, esistenza per annegare l’occhio nella pace di quel colore rasserenante, dunque non si creda a ciò che in apparenza parole simili promettono, ciò cui siamo inchiodati e ben altro, e rare sono le intermittenze di mai immobile quiete.
Poche, o nulle, le consolazioni: in fondo una sorta di mal comune può essere la “compagnia degli amici”, che risponde a una sensibilità corrente negli anni Settanta/Ottanta, ancora parte integrante del sentire di chi è stato adolescente/giovane in quegli anni. Non si traduce, questo, tanto in mezzo gaudio quanto in una forma di lotta, uniti e tetragoni insieme ma poi in competizione gli uni contro gli altri. Aggiungo che, sul piano del linguaggio, avviene, nella poesia di Beppe Salvia, un passaggio che è il documento di una trasformazione epocale: da espressioni poetiche a espressioni informali della lingua di uso quotidiano di cui subito qui di seguito troverete prova.
questa bimba dai capelli neri
che la madre gli pettina i capelli
è così bella è così bella
sono gli zingari a Ponte Milvio
ma questa madre ha questo cuore povero
istituzionale, e oltre al pettine
non ha niente, e la mattina
la bambina è bella
e la sera è tutta spettinata,
____________________
e suo fratello ha un filo
di malinconia
e vola un aquilone su nel cielo
e guarda giù nel fiume
i riflessi del sole
e la sua vita è il fiume e il ponte il mondo
lontano
e l’estate e il tramonto
____________________
giocano a stendere i panni
a costruire case
giocano a nascondino e a cucinare
giocano a fare l’amore
guardano dritti in fila
di notte il fiume nero
e la luna
______________________
le lucertole si prendono col laccio
e le bertucce col grammofono,
leggono un giornale
i bimbi degli zingari,
fa male stare al sole a quest’ora,
un giornale che sembra un aquilone
_____________________
sull’argine corrono corrono
in motocicletta
ma senza fretta aggiustano
qualcosa ai fari ai freni
al motore
guardano il fiume guardano
gli zingari fare l’amore
gridano assaltano la curva
sembrano gli indiani,
sgommano impennano,
quasi fanno scintille, e viene
il buio. Si baciano
sconfitti dal rumore i baci degli zingari
_____________________
lei guarda il fiume
e suo fratello dorme
con gli occhi cinesini
guardano i bambini
la polvere che gira come un fuoco
[Appendice: ESTATE, in CUORE – InternoPoesia 2021):
Beppe Salvia, nato a Potenza nel 1954, venuto a Roma nel 1972 con i suoi, suicida nel 1985.