Intervista a Giovanni Follesa: “Ho cercato di essere discreto per consentire alle coppie di aprirsi”

Un autore capace di raccontare quelle coppie unite civilmente che rivendicano la loro voglia di essere famiglie

Questa intervista nasce da una discussione a tavola, come talvolta succede. Giovanni Follesa stava affermando che non bastano le unioni civili per il mondo LGBTQIA+ e lo faceva con una calma serena. Dall’altra parte del tavolo c’era chi diceva che in fondo, una volta ottenute le unioni civili, non bisognava chiedere di più, si doveva accettare il compromesso. E Follesa, invece, controbatteva che era finito il tempo dei compromessi sui diritti. Così, incuriosito, ho letto un suo libro, We are family, storie di unioni civili, (Janus editore 2021) capace di raccontare – con una via di mezzo tra una serie d’interviste e un reportage militante – la realtà di quelle coppie – unite civilmente – che rivendicano la loro voglia di essere famiglie. Allora mi è venuta voglia d’intervistarlo. Follesa ha al suo attivo diversi romanzi e sceneggiature, ed è docente all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Ma in questo caso la nostra attenzione si è rivolta solo a questo suo ultimo necessario spaccato di una vita italiana in fondo davvero non immaginabile solo qualche anno fa.


Le prime parole nel libro sono quelle di una canzone, We are Family (che dà anche il titolo al libro: “Abbiamo grandi speranze per il futuro e il nostro obbiettivo si scorge”. Qual è l’obbiettivo?

La citazione canora delle Sister Sledge è intanto un ricordo dell’infanzia: le prime festicciole, i balli e la scoperta timida del mondo. We are family è inno, comandamento, appartenenza. E soprattutto auspicio che si fa obbiettivo: noi siamo famiglia, noi ci sentiamo famiglia. Senza differenze né compromessi per il mondo LGBTQIA+ che è protagonista del libro.

Come e perché nasce questo libro?
Tutto ha origine da un’esigenza: l’impegno personale nella comunità omosessuale. E il desiderio di fare qualcosa di concreto, tangibile, per tenere alta la guardia sul tema delle unioni civili. Che non sono matrimonio. Anzi, le unioni sono ben lontane dal matrimonio egualitario.

Il punto è che nel 2016, dopo l’approvazione della legge N. 76, cosiddetta legge Cirinnà, sembra che sui diritti civili (o forse sarebbe meglio dire diritti umani) in Italia sia calato un silenzio pericoloso, anche da parte delle istituzioni e della politica. Come accaduto per il disegno di legge Zan, contro l’omolesbobitransfobia, immolato per giochi di palazzo. Il tutto mentre nel Paese non si fermano gli attacchi omofobi e le discriminazioni.

Un recentissimo studio condotto dall’Istat testimonia come oltre il 70% delle coppie unite civilmente abbia timore a tenersi per mano mentre passeggiano per strada.

Il libro nasce, dunque, anche con questa ambizione: presentare esempi positivi per parlare a quella parte di società ancora riottosa o ottusa che deve essere, ahimè, persuasa. Pare un paradosso, ma non lo è.

Come hai scelto le coppie da intervistare? Sono militanti per i diritti, amici, comuni cittadini?

Tutti presenti all’appello: amici e militanti e perfetti sconosciuti. All’inizio è stato un po’ complicato: non esiste un lavoro editoriale simile, quindi ho dovuto spiegare la mia idea iniziale e il risultato finale desiderato. Inoltre, ho chiesto ai protagonisti di “aprirsi” e raccontare anche degli aspetti intimi e personali delle rispettive vite. E anche chi aveva accettato “per militanza” al termine ne ha sposato lo spirito più genuino. Ora sono diventati cari amici.

Che atteggiamento hai tenuto durante le interviste? Nel testo sembri scomparire dietro le storie degli altri.
Volutamente. Ho cercato di essere discreto per consentire alle coppie di aprirsi. We are family è un po’ saggio, un po’ opera narrativa. Quasi un documentario raccontato. La tecnica – incontri sulle piattaforme web come zoom o skype – è essa stessa documentaristica. La scelta di essere innanzitutto osservatore mi ha consentito dunque di cogliere e presentare dodici storie uniche e diverse l’una dall’altra. Il timore iniziale, specie dell’editore, è che si potesse andare incontro a una certa ripetitività. Così non è stato. D’altronde, esistono vite uguali?

Nel realizzare questi incontri, ci sono stati momenti che ricordi con più emozione?
Tanti. Tantissimi. Gli incontri sono stati fatti in pieno lockdown e si sono portati dietro un carico di commozione inaspettato. Dovendo scegliere il momento più emozionante mi viene in mente la storia di Giorgia e Francesca che poco prima di andare in stampa mi chiamano per chiedere una modifica al testo. Richiesta che inizialmente mi preoccupa. Almeno sino a quando scopro che mi stavano annunciando l’arrivo di Emma, la loro bambina.

A un certo punto Mario dice:«È incredibile come l’idea di famiglia possa essere rivoluzionaria». Ma la famiglia non è un concetto fuori moda, in qualche modo restrittivo?

Cosa è rivoluzionario? È osservare il quotidiano con occhi nuovi. Chi si trova a lottare per costruire il nucleo della società da sempre, seppure con un’evoluzione lenta ma inesorabile, che è la famiglia non credo lo percepisca come un concetto fuori moda o restrittivo. We are family tra l’altro presenta non la famiglia ma le famiglie. In questo senso è un libro a sua volta rivoluzionario.

Com’è stata la tua vita famigliare, quando eri un ragazzo?
Ho vissuto i fantastici anni Ottanta. I libri di storia li descrivono come caratterizzati dall’edonismo reaganiano, quasi un alleggerimento rispetto all’impegno e alle battaglie del decennio precedente. Nel 1981, però, il primo caso di Aids, poi la Guerra Fredda, i primi videogames con il Commodore 64, insomma un’adolescenza stimolante attraversata dall’educazione in una tipica famiglia borghese dove di alcune tematiche non si parlava.

C’è ancora bisogno di quello che si definisce “Matrimonio egualitario” oppure queste coppie unite nelle loro famiglie sono l’emblema che il più è stato fatto?
Sono testimonianza viva di come in Italia si facciano troppo spesso le cose a metà. Quindi l’obbiettivo deve essere il matrimonio egualitario per evitare di avere, ancora, cittadini discriminati. Il nostro è un Paese laico. Guai a scordarselo!

Hai fatto e fai diverse presentazioni, portare questi argomenti in giro per l’Italia è più facile oggi di come poteva essere anni fa?
C’è un’accoglienza diversa, in particolar modo nelle scuole dove propongo una lezione di educazione civica sui diritti civili. Anche se, sui grandi numeri, capita comunque chi contesta la tematica affrontata. Retaggio di un’educazione non compiuta o di una profonda ignoranza. Che peccato! Fa male sentire certe parole, specie da chi anagraficamente è giovane.

Realizzare We are family ti ha insegnato qualcosa?

Sì. Non bisogna mai smettere di lottare per i propri diritti. E ben vengano i Pride. Ma soprattutto questi 24 protagonisti sono testimoni del fatto che i desideri si avverano. Bisogna solo imparare a chiedere nel modo giusto.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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