Lavorare in una scuola di scrittura, checché se ne dica, non significa in nessun modo applicare delle formule semplici all’arte della narrazione. Anzi, gli scrittori vanno accompagnati nella scoperta della loro voce più autentica, che si rivela spesso frequentando percorsi poco battuti. Leggendo di tutto si forma il gusto e si sceglie la propria strada. Pelle di tamburo (Caffèorchidea 2021), scritto dal critico e filologo Gualberto Alvino, rappresenta un esempio di scrittura inconsueta tra i narratori di oggi. L’autore – che si è occupato di scrittori che vengono talvolta definiti “gli irregolari” della letteratura italiana, da Vincenzo Consolo a Gesualdo Bufalino, da Sandro Sinigaglia a Stefano D’Arrigo, da Nanni Balestrini ad Antonio Pizzuto – costruisce nelle sue narrazioni un tessuto linguistico che si richiama in modo esplicito alle sperimentazioni del Novecento. Il che non gli porta grande successo di pubblico o visibilità, ma lo rende per certi versi il portabandiera di una letteratura e di una critica che considera la prosa contemporanea molto povera dal punto di vista stilistico e auspica l’avvento di un’epoca in cui la forma sarà più importante del contenuto, diciamo così. Vale la pena quindi ascoltarlo per chiedergli come vede il romanzo oggi.
La scrittura del tuo romanzo Pelle di tamburo pare voler dire che c’è un’altra via rispetto a quella più battuta che in tanti frequentiamo. Lo hai pubblicato per questo?
Pelle di tamburo è l’ultimo di una trilogia — dopo Là comincia il Messico (Firenze, Polistampa, 2008) e Geco (Roma, Fermenti, 2017) — nella quale cerco di dimostrare che lo stile, l’organizzazione formale, è l’unica vera sostanza della letteratura. Che ne sarebbe di Gadda senza l’inaudito plurilinguismo che lo caratterizza? I romanzieri di oggi sono fermi all’Ottocento: per loro conta solo il plot, il bruto contenuto, squadernato con le prime parole che vengono alla penna.
C’è una voce narrante, femminile. Come mai questa scelta?
Anche la protagonista di Geco è una donna, e le voci interiori che torturano il protagonista di Là comincia il Messico non sono solo maschili. Non saprei rispondere con precisione a questa domanda; so soltanto che l’universo femminile mi ha sempre affascinato. Si tratta di una forma mentis che ha poco o nulla a che spartire con quella maschile.
Il linguaggio che usi dipende dallo stato psichico del personaggio?
Esatto. E, questo il nome che la protagonista si dà, soffre di gravi turbe psichiche interrotte da frequenti sprazzi di estrema lucidità, e naturalmente il suo linguaggio è lo specchio di questa condizione.
Ci sono diverse frasi che forse un professore a scuola non permetterebbe, tipo: «Io, stare troppo sulle cose annoia». Questa mi pare quasi manzoniana, comunque. Che ne dici?
Gli anacoluti manzoniani («Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro», «noi altre monache, ci piace di sentir le storie»…) sono peccatucci veniali rispetto all’atroce violentazione della lingua di cui si rende continuamente colpevole E. Come ho detto, il suo non può che essere un idioma malato, disfemico, discrasico, corporale.
C’è una parte sulla punteggiatura che sembra diretta al lettore, che magari sarà sconcertato dalle tue scelte sintattiche e grammaticali: «io lo so benissimo perché non metto la puntatura o la metto a casaccio: perché l’occhio non è come la voce, l’occhio non respira, a lui non gli servono punti virgole puntini non ha bisogno di riposo».
Si tratta, naturalmente, di una «scelta» del personaggio, non certo dell’autore.
Altrove dai quasi indicazioni di scrittura creativa, diciamo così: «E ci vuole logica nella scrittura, non tutti ce l’hanno, ci nasci. Logica, sempre, pure nella scrittura inventata, figurarsi in quella naturale». Fai sul serio oppure è solo un gioco?
In questo caso concordo pienamente con E.
In questo ricco tessuto linguistico, al limite della spericolatezza, che spazio c’è per i tuoi pensieri più intimi?
Tutto lo spazio possibile. La mia narrativa ospita l’intero dicibile: non esistono gabbie né confini.
In quale conto tieni il lettore, quando scrivi?
Come diceva Pizzuto, «il lettore deve educarsi a comprendere quello che legge»; l’autore non ha «preoccupazioni pedagogiche». E poi, non esageriamo: basta leggere, ad esempio, le prime righe di Finnegans wake di Joyce (risalente a un secolo fa) per capire che la mia prosa è tutt’altro che spericolata. Abbiamo forse dimenticato le inaudite sperimentazioni novecentesche?
Ti leggo spesso su Facebook in una sorta di rubrica infinita sulla correttezza linguistica. A che punto è l’italiano oggi?
Credo che l’italiano goda mediamente di buona salute, contrariamente a quanto affermano puristi e neopuristi. Lo dimostra la straordinaria “domanda” di grammatica che cresce ogni giorno di più da almeno un trentennio: al mio quasi quotidiano Sportello grammaticale si rivolgono lettori d’ogni condizione sociale e culturale.
Se dovessi scegliere qualche autore contemporaneo, chi suggeriresti ai nostri lettori?
Ho citato Gadda e Pizzuto per il Novecento (ma non dimentico il Sanguineti prosatore). Nel tutt’altro che florido panorama contemporaneo salverei Michele Mari, non a caso debitore di Gadda, e pochi altri.