Nella foresta, l’uomo – la poesia di Franz Krauspenhaar

Molte facce dell’esistente e della nostra condizione affiorano e volteggiano in una danza

Tutto facile per loro


Tutto facile per loro, il bolo

di parole, senza esperienza,

hanno solo sentito, orecchiato

le cose, non è vero che il male

è per tutti, loro non sanno nulla,

vivono nella posta pneumatica

di un pensiero senza clima, l’aria

è rarefatta, come su una montagna

senza rocce, e un monte

di funerei minerali, e le gassose vite

mai registrate da alcuna telefonata

d’emergenza.

Perdo il controllo a sentirti dire

le cose che so, immagino, che

ti sento dire alla galera della

tua sorda vita, chiusa in una sala

operatoria, dove non sono

i medici a squartare le anime,

ma chiacchiere inutili e i pensieri,

disfatti come la carta a rotolo

nei gabinetti: e dunque un buco

nero si frastaglia, unico nulla

che si può portare in una luce

ignava, che strappa ogni nebbia

dall’aria che ci copre, pietosa,

o forse unico resto nella terra.


Questi versi provengono da Nella foresta di Franz Krauspenhaar, raccolta pubblicata da Edizioni Ensemble alla fine del 2021, dunque ben al di qua dei fatti tragici da cui siamo lambiti: eppure suonano attuali – fermo restando che tutta l’arte, diceva Oscar Wilde, è del tutto inutile (cioè non funzionale a null’altro che a sé stessa e al suo oggetto privilegiato, la bellezza), dunque è, per sua stessa definizione, inattuale.

Un attimo prima di lodare senza riserve la poesia di Franz Krauspenhaar, vorrei lodare proprio l’editore, la casa editrice romana Ensemble, che si sta confermando una fucina di talenti nuovi e non, e sta mostrando illuminate capacità di accoglienza verso testi belli e significativi.

Tornando a Franz Krauspenhaar, trascrivo qui un altro paio di componimenti da Nella foresta:


Uomini in posizioni analoghe, alle mie


Uomini in posizioni analoghe, alle mie,

la carogna che sono, non perderò la strada

di casa, tra i monti afghani, e la purezza

dei ciottoli, mentre il cielo supera sé stesso,

diventa carbon fossile, e giacimento preistorico

di luce, in questo mondo aggirato al contrario.

Nel difficile il facile, nel facile il difficile, le ombre

della sera fatte d’impronte di pantera confusa

nel buio. La carogna col mio nome e cognome

salta un verso dentro l’avvallamento, ogni

risposta è data da un capoverso infestato

dai miei simili, che spolpano la disperazione

fino all’ultima fibra di carne e anche oltre,

nel segare con l’enorme appetito dei morti

anche le ossa, gli scheletri, e l’orizzonte

all’alba. Dentro spazi così grandi che vi cadiamo

dentro alla fine del terribile pasto.


Con la gioventù ho un patto segreto


Con la gioventù ho un patto segreto,

quello di non parlarsi, di ricordarsi poco,

di non decidere più come dirsi le cose.

L’autobus corre tra le ragazze che mangiano

l’aria, parlando dei loro falsi flirt: io sento

di essere passato, di essere andato

altrove, unito alle ruote di un camion

che non vidi nemmeno. Ne fui travolto

senza morire, ma con una ferita ampia

nel cuore, un bozzolo di luce che si

spegneva. Sotto di noi la funicolare,

un destino appeso per caso alle nuvole,

il futuro che si svuota come una neve,

che è stata perenne fino a che ha potuto.


C’è una grana ben riconoscibile nella scrittura di Franz Krauspenhaar, poeta romanziere saggista e musicista, milanese a dispetto del cognome ereditato dal padre tedesco, dopotutto artista poliedrico e anche internazionale. Una grana che può contare su una serie di dispositivi sempre attivi, sempre operanti: 1. ermeticamente e anche classicamente accostare con pindarismo agile e fulmineo termini e mondi concreti, in genere distinti e distanti, invece qui, per miracolo di sintesi poetica, collegati in corto-circuiti spiazzanti; 2. un sistema o metodo che dà avvio a due possibili percorsi, non escludenti l’un l’altro, necessariamente, viceversa plasticamente compresenti: la trasposizione costante nei versi della realtà, il palesarsi della vita reale per parole-spia portatrici di senso e significato; l’affastellarsi di immagini, a volte azioni, e anche enunciati, come osservatorio inflessibile del rapporto con l’umano e col mondo; 3. lo stratagemma più implacabile, smagato e spiazzante di tutti: l’invenzione ottenuta per distorsione (la posta pneumatica, io ci passo la vita disattiva, ghiandola omicidiaria), coniazioni che giocano sulle parole non per annullarle ma per riorientarle verso direzioni semantiche inedite, e in questo illuminano retroattivamente il volto birichino del loro forgiatore che è còlto nella grana, di nuovo, aspra e spietata, al fondo, della propria incisività espressiva; 4. il ripescamento, ai miei occhi sempre lodevole, perché impervio, del futuro anteriore (Se il disastro sarà compiuto / E mai, noi, saremo stati / forse non sarò più uscito) che è in assoluto il tempo verbale più sfumato e interessante perché ha il dono d’essere prospettico, aggettante, dentro un tempo trascorso, che non ritorna, e poi suggerisce una variazione impossibile, una soglia interpretativa; 5. l’uso del punto e virgola, segno di punteggiatura, cioè ordinatore sintattico, tipico, in prosa, delle liste, dei cataloghi, e mediano tra la virgola e il punto fermo, ma di uso rarissimo, quasi inesistente, nella poesia.

Molte facce dell’esistente e della nostra condizione affiorano e volteggiano in una danza, forsennata come un bolero incalzante, e dolciastra come la sierosità delle ferite chirurgiche, inscenata nei versi di Nella foresta da Franz Krauspenhaar. La vita di città. La casa e il ménage quotidiano. La madre e le madri. Le ragazze e le donne, e i loro colori. Le grandi malattie. Ma anche la cultura dei benpensanti maldicenti. La poesia e la sua nebbia, il suo franare. Il cuore i polmoni il respiro. L’involuzione dello sviluppo. La cecità del progresso. La solitudine della libertà. Lo dimostra piuttosto fedelmente proprio la poesia che segue, che definirei un componimento-compendio, e anche il seguente.


L’ultimo dubbio è passato ieri


L’ultimo dubbio è passato ieri,

con la 90, vicino a dove vive

il poeta, colui che è poesia,

nelle luci e nelle ombre, che

Milano lo cambia, catarifrangente.

E lui con le sue domande

cambia Milano, perché il mio

sguardo sulla grande città

deforma il prima e costruisce

subito un dopo nuovo, già

presente.

Ma comunque passai l’ultimo

dubbio mentre questo passò

in una mezza nebbia dell’oggi,

come per attaccarci un santino

umido, attaccare un santino

alla nebbia dentro la quale

si infilava scelto l’ultimo forse.

E io, a sessant’anni, non so se

a pezzi per ogni minima andatura

o solo stufo, come a trent’anni,

della città solita, perlomeno

del suo odore d’aura.

L’ultimo dubbio era quello

che la morte mi pareva, è questione

di momenti, mi sentivo fosse

attigua, già celebrante ronzando

dal mio bleso dentro un dolore

mordicchiante, come se la carne

di un muscolo stesse sfacendosi

come tritata soffice, una spuma

di carne gentile, qualcosa di

spalmabile su dolci panini bianchi.

Come dire che era un male

da definirsi finale, per il quale

la spuma al mio interno era

la conseguenza, e come in

un soffritto si sarebbe dissolta,

seguendo così la mia vita,

seguendola fedelmente.

In un bar, verso casa, presi

un tè, un panino in mano,

la piccola nebbia diradava

ma non ero certo che tornasse

il sole, o perlomeno la vista.


Questa città è un coltello cifrato

[…]

Guardo le maschere e il gelo che

propagano, come una fuga di gas.

Questa città non ha altro che gelo, merci

e disperata irrealtà. Tu, con me,

infisso nella ragnatela della mappa,

tra le linee del metrò, sei una mosca

in procinto di finirla, cupa, destituita.

Tornare a casa per l’ora di cena, e solo

pensare, ecco, che si è sfuggiti appena

all’epidemia del gelo, e quei grugni

malati di proprio ego, morti nella

mia mano di capitano, di vecchio

gigantesco ufficiale dei sogni.


Il poeta indulge non poco in autoritratti impietosi in cui tuttavia a sorpresa assesta il colpo di reni che rilancia un minimo discorso sulla propria stoffa, sul proprio amor proprio di poeta e di persona:


Mi sono drogato col calcio, tre partite di fila

[…]

È abbandonico il disprezzo, qualcosa

che l’odio non raggiunge, l’odio porta

avanti i rapporti sociali fino alla tomba.

Estreme conseguenze d’ogni regata.

[…]

Sai, ci ho provato a metaforizzarmi,

volevo chiudermi in un’ambulanza

e farmi portare subito al cimitero,

dove le anime si dice riposano, mentre

a mio avviso battono la fiacca, pettinano

le bambole. I passeri franavano nel vuoto.

Ho tentato con l’impegno sociale,

la socialdemocrazia, l’impero del male,

la Procter&Gamble, il fumo delle Camel

e successivo infarto; tu cara non sapevi,

un pezzo di cuore è andato, ha una cicatrice

come dopo un duello.

Io ci passo la vita disattiva

educandomi, messaggero di cultura

in casa mia, le mie scuole furono privati

lager, il mio istinto era quello di fucilarli

tutti, come nelle migliori scuole americane.

Oggi, fossi un piccolo stupido di basso voltaggio

e arrancante, tra computer e hikikomori,

sarei testimone del male.

[…]

Vorrei nuotare anche se non so

[…]

loro furono

sempre appresso o all’arrivo di un viaggio,

incollati al viaggio, che è orrore, spostamento

di anime tra un inferno e l’altro.

Ecco perché mi muovo assai poco,

all’emergenza […]

[…] mi chiamano a parlare verso sud-ma non troppo,

di poesia, di cultura e romanzo.  Così vado.

[…]

[…] le important person vanno in televisione,

tirando biglie come bambini scemi dei Cinquanta,

sperando che vi trovino una fossa dove

penetrare; ci sono anche poeti così fatti,

che scrivono a casaccio, e ti calciano la poltrona.

[…]

Nell’abisso commerciale ci sono stato quindici anni, […]

[…]

Ero uno schiavo, ma libero e rabbioso

nei percorsi. Sentivo nell’auto roteare

un’idea di libertà, che si raggiunge

sempre e soltanto soli. La libertà

non è mai collettiva, non riguarda altro

che l’individuale. Allora la nuotata

che non ho mai fatto, sarebbe questo

viaggiare di nuovo, una buona volta,

nell’auto del tuo corpo, fino a un arrivo

immaginato tra le onde, per poi

tornare felice a baciare la tua terra.

Nostalgia del mare a terra, e della terra

quando nuoti il mare, e la vita

si risolve qui, in un buco nero.

Dove ti stringo la mano.


Una corposa galoppata sui versi di Nella foresta, in cui Franz Krauspenhaar mostra ciò che sappiamo già avendo letto quasi ogni sua cosa, e qui riemerge con plastica, elegante chiarezza: la scrittura di Franz Krauspenhaar, tutta la sua letteratura, non solo perseguono ma esercitano, con ostinazione caparbia e divertita, quasi allegra nel naufragio esistenziale che pure illustrano con forte sentimento del contrario se non quando per sola, raffinata ironia – dicevo, conseguono il vertice possibile di ogni autentica poesia: lo smascheramento di ogni ipocrisia, di ogni menzogna, di ogni umana piccolezza, in una iperbolica conquista, più che del vero assoluto o del puro perfetto (che non sono all’umana portata), dell’attendibile, credibile denudamento, anche plateale, una specie di resa al proprio abisso che assume valore quanto più richiama su di sé la funzione di indicare l’umano abisso condiviso.


Nel vivere un assolo


Nel vivere un assolo, sconfitti

i vermi e le lingue taglienti

e il verbo amare, quel verbo

sbagliato che ci tiene svegli,

senza scelta che quella di lottare

per una felicità senza scampo,

da ottenere, come un pieno

di benzina; allora ci sveglieremo

con quell’urlo di niente spiegato

nel covo della gola, il respirare

cantando l’afona gelosia dell’infelice,

colui che nella testa ha solo resa

a un proprio destino senza scopo.

Sarà però un male illuso, sbagliato

di prospettiva, d’un gusto essiccato

in quella gola retriva, roca di pianto

trattenuto. Sarà così che avresti

potuto vivere altro, grandi eventi;

e invece ti sei accontentato

di sbagliare; come sbagliasse solo

chi è sempre pronto a pagare

anche un conto che non ha mai speso.


Se il disastro sarà compiuto


Se il disastro sarà compiuto, ho la tv

in cantina, barattoli di conserva, miele

per la forza, una mattina che spira

come un vento sadico. Le braccia.

Le gambe. Le mani. La torcia.

Non temo, non mi ribello, non fiato

nel finimondo, ho amici cattivi

infilati tra libri che si muovono

da soli, fantasmi come bucherellati

dalle pallottole.

Attenderò con calma la lunga fila

snocciolando versi di canzoni, dalla

finestra scoprirò nuvole basse, pioverà,

poi non pioverà più. Forse sarò in tempo

a uscire, forse non sarò più uscito.


Dunque, eccolo, l’uomo nel bunker: il topo rintanato che rischia di ritrovarsi sulla testa e sopra le spalle il peso disordinato e insollevabile delle macerie dell’intera vita, questa perduta. Ecco fioccare l’inatteso gancio a ciò che sta riaccadendo e che potremmo dire sia stato qui profetizzato in anticipo. Ma è solo uno scherzo della prospettiva, però è anche il dono della letteratura: la chiarezza di visione che solo l’abbandono ai versi e alla scrittura rende transitoriamente, e per lampi, possibile, dopo di che si torna a brancolare nel solito, familiare buio.


Tu mi farai dannare! Tu sarai il poeta


Tu mi farai dannare! Tu sarai il poeta

del danno, dell’esercizio di morte

lenta, e dire che eri un fascino puro,

un gesto al cielo, corroboravi meglio

le vittime del mondo, eri l’angelo

che appianava la sorte, la pace nella gola.

Poi sei saltato sul fuoco, e non hai

più speranza che ti netti il volto.

O forse stai solo in ascolto, aspettando

l’ultimo rombo furioso, per dichiararti

finalmente vinto, e ripetere

tutta la strada, fino a perdere

l’aria anch’essa, come tutto

incompetente…

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