Cetta Petrollo Pagliarani

La levità, la leggerezza non ottusa ma con un fondo di consapevolezza lasciato lì a decantare d’istinto per sapienza di specie

I libri sono lasciti. Tessere di mosaico. Dorsi di alligatori allineati su cui saltellare verso la sponda ulteriore del fiume, lungo e per nulla tranquillo, delle nostre personali vite.


All’epoca che le fanciulle 16 (racconti serali)

E finalmente il cielo aveva iniziato a prendere un ritmo, un

ritmo tranquillo dove le lune andavano e venivano e le stelle

si muovevano e il respiro si alzava e si sollevava, il respiro di

tutto il cielo verso la spiaggia e dal cielo continuavano a sro=

tolarsi racconti come scie luminose che si allungavano e ad

ogni scia si mostrava un percorso di vita sicché dai cassetti

esse tiravano fuori le storie, storie piene di immagini e stavano

lì a vita spalancata a raccontare storie ad ascoltare quelle altre

di storie che piovevano dal cielo in ispidi, scontrosi, percorrenti,

amorevoli, talvolta irosi, racconti serali.

Che la pioggia di racconti era poi una pioggia d’amore.

Che certo non è che si mostri subito una vita.

Non si impara subito una storia.

Con pazienza.

Né è facile raccontarla.

Con pazienza.

Ma certo tenendosi per mano sotto un cielo che respira può

essere più semplice.

Oppure meravigliosamente complicato.

Può essere tutto.

E il vento determinato dell’avvio le lascia sulla porta di casa

con lo zaino sulle spalle.

Perché le fanciulle osano ascoltare le storie.

Chiusura delle sedici fanciulle sotto al cielo.

Inizio del viaggio.

Che scivola verso.


Ce lo dice Maria Concetta “Cetta” Petrollo Pagliarani, e non solo qui, con questo breve prosimetro proveniente dal bel libro di prose poetiche All’epoca che le fanciulle, edito da ZONA Contemporanea (Genova) nel 2017. Comincio da qui per condurvi al libro più recente di Cetta Petrollo, Giochiamo a contarci le dita (ZONA Contemporanea, Genova 2021), perché non solo All’epoca che le fanciulle ne costituisce un antecedente cronologico, ma principalmente perché attraverso questi due libri, e poi passando attraverso un altro testo, intermedio tra i due, MARGUTTA 70, cui brevemente intendo accennare, riusciamo a vedere la forma plurivoca della scrittura di Cetta Petrollo, la sua esuberanza, davvero di ragazza, non solo in termini di scrittura e di stile, ma anche quanto a temi e spirito. E proprio questa libertà sorvegliata, questa sua salda presa sulla vita e il suo valore, questa femminile consapevolezza che non esclude allegra sbrigliatezza e felicità (una parola pronunciata a voce piena) permettono alla Ragazza Cetta di seminare lasciti, radunare eredi, essere poeta in prima persona.


Andiamo per gradi. Una cosa per volta.

All’epoca che le fanciulle 1 (1 dicembre)

All’epoca che le fanciulle avevano sessant’anni un gran mago

chiese che cosa loro volessero ancora dalla vita.

E il mago era piuttosto importante, uno di quei maghi che separano

le acque, fanno girare le lune in cielo anzi ne aggiungono un po’ di qua

e di là quando gli umani si annoiano sulle panchine delle calure estive

dei giardinetti dove stazionano gli anziani sicché quelli guardando molte

lune serali non una sola ma appunto molte lune serali sparse ai quattro

angoli del cielo diventano meno anziani e più vividamente felici.

E una fanciulla disse che avrebbe voluto avere dei nipoti per portarli nei

giardini e accudirli e riscaldarli vicino al suo cuore, nipoti che riempissero

le sue vuote giornate.

Disse il mago: “Non sei sincera, non dici la verità, e nessun desiderio si

può esaudire se non è sincero”. La fanciulla gli voltò le spalle e se ne andò

lesta tirandosi sgarbatamente la gonna, di colpo divenuta vecchia da fanciulla

che era.


Così esordisce in All’epoca che le fanciulle Cetta Petrollo Pagliarani, mettendo subito al lavoro e in gioco, per così dire, tutto il suo arsenale fiabesco ed esistenziale, creaturale e femminile. Che di questo si tratti è confermato anche dall’uso iterativo della formula che dà titolo al libro, All’epoca che le fanciulle appunto, ed è una “figura di emozione”, rafforzata proprio dalla ripetizione a ogni prosa successiva, con l’effetto ipnotico di inquadrarci mentre siamo cullati dai racconti in un ambiente emotivo ricreato di continuo mentre la voce narrante mantiene una persistenza illusionistica bambina e streghesca dall’effetto continuativo. La sensazione che ci assale leggendo queste prose a voce alta è di immergerci in un’atmosfera che è stata di Lo cunto de li cunti nelle immagini e per la regia di Matteo Garrone ed era già degli originari racconti del Basile: una miscela di cronaca e fiaba, di esperienza e vita, di tinte forti e familiari a un ritmo regolare e incalzante.

Ritroviamo simile risorsa retorica della formula insistita nel recente Giochiamo a contarci le dita:


Abbiamo avuto l’infanzia:

cioè tu l’avevi io la rifacevo

è questo che accade sempre

quando si ha un bambino?

Accade, accade.

Abbiamo avuto l’infanzia.

C’erano le teiere ed i nespoli fuori

una tribù di gatti tutti col loro nome.

Nessuna cosa un posto e tutte ce l’avevano.

Una pistola ad acqua innaffiava il giardino

ed il mare era sempre vicino.

Abbiamo avuto l’infanzia.

La nostra vicina una con la palandrana.

La maestra il collo lunghissimo

i pesci rossi si appiattivano

per non farsi acchiappare

gli scarafaggi scappavano

le galline per la strizza tramortivano.

Abbiamo avuto l’infanzia.

Bisognava salire e scendere piano

dalle scale che la stufa ronfava

il legno scricchiolava

e come in tutte le fiabe

il bagno era un pauroso

tremendo buco nero.

____________________________

Certe volte mi fa strano

che ti sei raddoppiata.

E lui ha così tanti segni del raddoppio

che poi è una triplice moltiplicazione

(anzi a pensarci bene c’è una misticanza

dal collo del piede alle dita della mano)

Con te piange pieno e convinto

e questo pianto pieno e convinto

con chi si è dimezzato

dura (lo sai?) tutta la vita.


Dunque apprendiamo due fatti, interconnessi:

il moltiplicarsi quasi il rimbalzare di formule prosodiche replica nella scrittura il replicarsi della vita, e il fatto che in queste parole: replica, moltiplicazione, triplice: sia nascosta, o meglio sia presente in radice, la parola: plica, cioè piega, non fa che confermare per impronta linguistica una realtà che è biologica e intuitiva, della vita e dell’immaginazione, cioè il continuo scomporsi e proseguirsi di organismi in organismi ulteriori, che è il fenomeno gigantesco dello sviluppo incessante da un pugno di cellule. Si tratta di un’acquisizione che sussiste nel suo manifestarsi e tradisce o svela una sapienza ancestrale anzi materna eppure resta intatta e dicibile solo come innocente formula da favola.


Ho nostalgia della mia bambina.

Di quella che non si faceva scoprire

mentre diceva le balle di quella

che comperava gingilli

del suo caos mostruoso

dei suoi innamoramenti

delle nottate passate a studiare

delle sue dirazzate verso il mistero

del suo luminoso chattare

del suo intenso indagare

della sua lentezza del suo sciupio

del suo non tenere i conti su niente

della sua tenerezza mattutina

del suo mangiare con gusto

del suo sentirmi vicina.

Ho nostalgia della mia bambina

del nostro essere in tre

del nostro essere in due

e ora questa donna nuova

come conoscerla?

Il tempo è così breve

così lunga la nostalgia.


L’iterazione emotiva, anche quando si semplifica in anafora (solo la prima parola ripetuta in apertura di verso), non sta lì solo a persuadere, carezzandolo, l’orecchio dunque l’immaginario, ma a colorare anche un cosmo generazionale che colloca la struggente cronaca familiare in un meccanismo ampio, universale, a suo modo tenero e violento.


Ma poi c’era il mondo ad aspettarmi.

Tu te ne andavi io ti lasciavo

con il tuo odore

e c’era il mondo ad aspettarmi.

Il vialetto rimaneva deserto

sotto il sole di marzo

io me ne andavo e tu rimanevi.

Si acquattava il dolore in fondo all’utero.

Il mondo tornava a stordirmi

per fuggire di nuovo sul treno del ritorno

verso l’abbraccio serale di noi

e il lungo sonno.

Si chiama crescita?

Di uno farne due?

È lunga la separazione

non cessa per tutta la vita.

______________________________

Ecco si torna e mi ricordo

dove ti ho lasciata

in un vialetto che prendevi il sole

sotto i pruni selvatici le arance.

Si torna a casa (galleria superata

alcuni ci superarono altri li superammo

eravamo concentrate il pilota di bordo

quello che ci amava

ogni tanto ci faceva vedere il panorama)

Siamo state noi stesse?

Di noi hanno mangiato gli affamati?

Si sono dissetati?

E tutti i libri che ci hanno

accompagnato li abbiamo riparati?


Però il mistero della vita che si manifesta e ha bisogno dello stupore e dell’ingenuità per diventare il sigillo di una filosofia non astratta e tutta mentale ma immanente allo svolgersi stesso del quotidiano si plasma con più potenza persuasiva nella forma della filastrocca che dopotutto ci è annunciata in modo aperto fin da quel Giochiamo a contarci le dita del titolo:


Spazza la strega

alacremente

nera la luna

glielo consente.

Ballano insieme

per loro spasso

finta è la legge

del contrappasso!

Il sortilegio

non è da poco

se in risata

finisce il gioco!

Fra Jules Verne

e Nane Oca

bianca è la strega

che si disfà.

Lieve è la danza

che la rifà!


Proprio la levità, la leggerezza non ottusa ma con un fondo di consapevolezza lasciato lì a decantare d’istinto per sapienza di specie, concede uno stato di freschezza di spirito e un’attesa di altri tempi.


Avremo una bella estate

(lo dicono le previsioni del corpo

una temperatura interna

sotto al sole infantile).

Avremo perciò mercati bambini

con i mazzetti dell’aglio

avremo la passerella

ed il rollio della barca

avremo il sedano addentato

le susine di Procida

le more la marmellata di fichi

avremo la pelle sottile

avremo il silenzio

dopo tanto clamore.

La guerra fu combattuta

nelle invernate del cuore

il chiasso si allontana

con le ultime armature

e l’estate è fanciulla

stipa covoni di grano

luminose formiche lucciole e gechi.

Il loro profumo carezza la mente.

Avremo una bella estate.

Staremo con lei sulla porta

ad osservare il futuro.

Vi dicevo della forza che Cetta Petrollo trova e sprigiona nella poesia non esitando a chiamare la felicità col suo nome:


Lo dico in modo diretto.

Sono felice.

Scrivo da tre giorni

negli angoli del tempo.

E sono felice.

Un ritmo così gentile

e delicato

sotto al prato che pulsa.

Sono felice.

Gelosamente silenziosa

mi tiro i capelli

mangio nelle osterie

e sono felice.

Scrivo da tre giorni

in apertura di lettura

e sono felice.

Il ritmo dell’ascolto è calmo.

Niente assolutamente

niente da aggiungere.

Sono felice.

_________________________

Butta la pelle vecchia

la nuova è già sotto

si esprime come può

e cerca i suoi compagni.

Cade a pezzetti

nel corso della notte

la perdi mentre scappi

di corsa al Porto Antico.

_________________________

[…]

L’odore della tua pelle

così vicino ai miei ricordi

batterà il ritmo

ai miei penultimi versi.

_________________________

La bella pelle dell’amore

risplende

così abbiamo passato l’equinozio

e la bella pelle dell’amore

risplende

risplende tranquilla senza fretta

mentre solo su un fianco

dimostra il suo bilico

la bella pelle dell’amore.

Intanto mi hai tenuta

nella bella pelle dell’amore.

(Amor che dato sia

casto mi prende)

_________________________

[…]

Mi piacciono sempre di più

le campionature del vissuto

che sto per lasciare

nel fondo della dolcezza

del già provato

con qualche variazione

fra un decennio e l’altro.

E io sono sempre la stessa.

Quasi.

Potrei punteggiare

di rime la mia nottata

dirti di prendere un treno

se solo avessi la forza

di aprire il presente

di non lasciarlo serrato

sospeso nel niente

del corpo sopravvissuto.

Vorrei riportarlo quasi tutto questo libro di versi così splendidi e così freschi eppure per nulla privi di accenti profondi, pieni anzi di contatto con la vita, però non si può, per ragioni di spazio e di rispetto per la resistenza di voi lettori. Allora cercherò in chiusura di riassumere i punti di forza di questo libr0 che ha zero punti di debolezza.

Intanto è evidente il dialogo che questa poesia di Giochiamo a contarci le dita intrattiene con le prose poetiche di Al tempo che le fanciulle: mettendo a confronto tra loro i testi che dell’uno e dell’altro testo ho riportato si nota proprio un comune tessuto della scrittura, persino delle formule che si ripetono uguali, come se i due libri fossero due versanti di un comune momento compositivo. Ne è spia, ad esempio, un costante smantellamento della punteggiatura (l’ordinatore logico-sintattico del discorso) più accentuato nelle prose poetiche che in queste poesie in cui dopotutto è la scansione in versi a dettare il ritmo anche visivo, grafico.  Inoltre, e mi pare questo il dato più interessante in assoluto di questa produzione prosimetrica, ciò che chi legge ricava è la chiara, netta sensazione che tutto ciò che questa scrittura esprime sia sempre rivolta a qualcuno, e contenga messaggi al mondo. È una scrittura che trova le parole per rivolgere la parola, a ciascuno e a tutti, in un lavoro di costante condivisione. Dunque se qui ci riferiamo al concetto di corrispondenza non lo facciamo solo in senso baudelairiano ma intendendo proprio uno scambio di messaggi d’amore a mezzo lettera, che occupa l’ultima toccante sezione del libro, Baci baci baci (1928 – 1937), in cui lui è il cavaliere che promette di portare in salvo la sua damsel in distress ma dalle date che leggiamo desumiamo non ci sia riuscito.

Si dà dunque un passaggio di mano di esperienza e vita. E questo ci ricongiunge al punto da cui siamo partiti. Ricordate? I libri sono lasciti. Soprattutto la scrittura di Cetta Petrollo si dà briga di trasmettere lucidamente qualcosa a qualcuno. Attraverso testi in cui ritroviamo gli oggetti di ogni giorno che ognuno di noi accumula e conserva. Non per vile trasmissione della “roba” ma perché in quegli oggetti passa la vita di chi li ha conservati e ora passandoli a chi segue o seguirà vuole passare anche il senso del proprio transito terrestre, come lo chiamerebbe Franco Battiato, ora che si fa più vicino l’imbrunire – una fase che trova voce in questa poesia come elemento climatico ed epocale –: forse proprio un passaggio di oggetti che diventi trasmissione di messaggi permetterà di trovare l’alba dentro all’imbrunire, sempre per riprendere un famoso verso di Battiato.

È un tesoro che già Cetta Petrollo ha depositato in quel testo, intermedio in termini cronologici fra questi due finora considerati, che è MARGUTTA 70 (ZONA Contemporanea, Genova 2019), raccolta di prose che la Ragazza Cetta ha indirizzato al nipote Paolo, così come suo marito, Elio Pagliarani, con Pro-memoria a Liarosa (1979-2009) [Marsilio, Venezia 2011] aveva trovato felicemente “una prosa nitida e piana” (parole di Walter Pedullà) per raccontare la storia collettiva da lasciare alla loro figlia.

In MARGUTTA 70, Cetta Petrollo, per brevi narrazioni, ricapitola una biografia, collettiva anch’essa, in cui ora, a conti e soprattutto racconti fatti, si accorge che tutto era straordinario, fuori dal comune mentre all’atto di viverla tutto era sembrato comune, ordinario, un pianeta di stature medie che ora si rivela esser stato un regno abitato da giganti. Dunque un intero mondo che non può esser lasciato andare perduto ma dev’essere preservato, al punto che MARGUTTA 70 diventa un luogo letterario e che permette di scavalcare il tempo cavalcando un tempo recuperato per virtù di scrittura. Tutto ciò è destinato a Paolo a cui dice, in Giochiamo a contarci le dita:


Quando qui tu porterai le ragazze

(cosa che a sedici anni può succedere)

e farai il ragazzo moderno

tirando quella pasta che la nonna

gloriandoti del Tommaseo e della Crusca

io me ne andrò in campagna

o in altro posto simile

occhieggerò dallo scaffale

di libri collocati riservati

mi verrà certo da ridere

vedendo come

con le tue lunghe mani

confuso dall’amore

impasti il pane.


Termino con una osservazione forse didascalica e persino inutile, però mi sento di non tralasciarla. Maria Concetta Petrollo, come fa notare anche Maurizio Cucchi nella prefazione a Giochiamo a contarci le dita, per la sua intera vita ha rischiato di non riuscire a smarcarsi dal marito, il poeta Elio Pagliarani, e ha scritto, forse anche per questa ragione, molto più in prosa che in versi. In realtà, ed è persino scontato dirlo, già proprio le sue prose ma anche questo ultimo libro di versi, come uno dei suoi precedenti (Recitativi d’amore e altre poesie, Manni Editori/Lecce 2013) di cui ho scritto nel 2014, ricordo, scrivendone a New York davanti al Central Park, e tutti i suoi altri, dimostrano una identità di scrittura ben definita e del tutto sua propria.

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