Oggi, è il nostro anniversario e ho voluto fare una sorpresa ad Angela, così magari per una volta ci dimentichiamo di tutto il resto.
Da quando mi hanno licenziato, siamo tutti e due più insofferenti.
Il dottore mi ha prescritto delle goccine contro l’ansia e l’insonnia e sento che mi fanno bene. Sono più propositivo. Ottimista, direi, anche se di lavoro ancora non se ne vede nemmeno l’ombra. Neppure in nero.
Cerco di seguire le sue indicazioni: “Mi raccomando, non faccia di testa sua, 20 gocce per tre volte al giorno”, perché mi ha spiegato che possono avere effetti collaterali anche gravi. Però, ho capito che, se sono molto nervoso, anche se ne prendo qualcuna extra, non succede nulla di tragico.
Ho preparato la cena per Angela e poi sistemerò anche la cucina, lasciando che lei si rilassi sul divano. Questo per farle capire che, nonostante la mia situazione precaria, voglio e posso prendermi ancora cura di lei.
Sulla tavola ho messo anche una rosa rossa che ho comprato risparmiando sulle sigarette. Ora devo solo aspettare che Angela rientri, stando attento a non sgualcirmi la camicia.
“Buon anniversario, tesoro”.
Sfodero il mio sorriso, andandole incontro, ma lei mi guarda come si guarda una scultura di cui non si capisce il senso.
“Eh? Ah, già. Trent’anni di matrimonio. Praticamente quello di marito è l’unico impiego che ancora non hai perso”.
Poi mi fa gli auguri, ma l’intonazione mi sembra più ironica che altro.
Non mi perdo d’animo e aggiungo: “Stasera sei mia ospite, non voglio che tu faccia nulla”.
Sbarra gli occhi e io mi sento un po’ idiota.
Ecco, questo è uno dei momenti in cui qualche goccina extra mi ci vuole proprio. Solo quattro o cinque, così c’è meno pericolo che io faccia cazzate.
La faccio accomodare, tenendole la sedia. Lei si aggrappa alla seduta con le mani e si dà una spinta per avvicinarsi al tavolo.
Io mi soffermo a guardare la sua nuca. Ha i capelli raccolti in una crocchia.
“Beh, la pianti di starmi alle spalle come un corvo?”, mi dice infastidita.
Volevo darle un bacio dietro l’orecchio, ma rinuncio e vado in cucina.
“Tortellini in brodo”, dico trionfante, cercando di non rovesciare la zuppiera, mentre sto inciampando nel bordo del tappeto.
“Li hai presi da Pasta Fresca, spero?”.
“Veramente no. Sono quelli di Nonna Pina, ma la cassiera del Gusto market mi ha garantito che sono buonissimi”.
Angela storce il muso, dopo aver ingoiato la prima cucchiaiata.
“Solo tu ci credi. Chissà quali scarti mettono nel ripieno. Comunque, sono troppo cotti. Non hai controllato il tempo, per quelli industriali bastano pochi minuti”.
Poi aggiunge: “Il brodo lo hai filtrato nel colino col fazzoletto?”.
“L’ho schiumato bene mentre si cuoceva e poi ho tolto il grasso quando si è raffreddato”.
Angela storce ancora il muso. Poi allontana il piatto.
“Si sente, è troppo denso, sicuramente non lo digerisco”.
“Sono mortificato”, le dico, cercando di creare una distanza tra le sue parole e me.
Mi dispiace davvero, però non so se per lei o per me stesso, visto che mi sono impegnato nel farlo.
Porto la zuppiera in cucina e prendo il vassoio dove ho messo la carne lessa con le verdure.
Sul tavolo c’è l’oliera. Io però allungo la mano verso il tubo di ketchup.
“Mica vorrai condirlo con questa schifezza? È sera, lo mangiamo con un filo d’olio e una spruzzatina di aceto. Così è più leggero, mica siamo più ragazzini”.
Ci pensa un po’ e poi aggiunge: “Certo, se almeno avessimo avuto figli, a quest’ora ti saresti potuto occupare dei nipotini. Invece, niente, nemmeno questo sei stato capace di fare”.
Stavolta ha colpito duro. La sterilità, mica l’ho vinta a carte. L’abbiamo sempre considerata come un dolore da sopportare insieme e ora, invece, è l’aggravante della mia inettitudine.
Mannaggia a me e al ketchup, penso, mentre chino il capo e metto in bocca un pezzo di carne. Inghiottisco con difficoltà. L’aceto bianco non mi piace.
Ho un reflusso acido, la serata non sta andando come me la immaginavo. Non ha fatto caso nemmeno alla rosa. Torno in cucina con i piatti sporchi. Il flaconcino delle goccine è lì, accanto al lavello e sembra che mi fa l’occhiolino.
OK, ne prendo un altro po’, ma poche eh.
Questa è la cena per Angela, devo restare calmo a tutti i costi.
Torno in sala.
“Tagliata di frutta, amore. Un trionfo di colori per te”. Le sorrido.
“Non hai messo il limone sulle mele e sulle banane. Guarda come sono scure, sembrano marce”.
Prende un paio di fragole, almeno su quelle non ha da ridire.
Mentre sparecchio, si alza anche lei e si avvicina al lavello. La scanso dolcemente, cioè quasi dolcemente, con una botta d’anca.
“Vai a sederti sul divano, tesoro. Sistemo qui e ti raggiungo”.
Lei resta accanto a me. Mi osserva accigliata, mentre metto i piatti in lavastoviglie. Alla fine, non ce la fa, e comincia a ridistribuirli.
“La rastrelliera ha gli spazi fatti apposta per i piatti piani grandi e piccoli e per i piatti fondi. Se li metti a casaccio, va a finire che non entra più nulla”.
Respiro, il bruciore del reflusso torna a farsi sentire, ma la lascio fare.
“Se fossi stato in cucina più spesso, ora non dovrei stare qui a spiegartelo”.
In questo ha ragione, non l’ho aiutata molto, però il rimarcare il mio senso di inutilità, comincia a farsi più pesante del brodo.
“Ma che fai?”
L’urlo mi prende alla sprovvista, faccio un salto indietro e resto con le mani alzate. Le posate gocciolano, ma sul tappetino, per fortuna.
“Non si mettono le forchette con le forchette, i cucchiai con i cucchiai e i coltelli con i coltelli”.
“Perché? Così è più comodo quando poi li rimetto nel cassetto”.
“Così si accavallano e non si lavano”.
Con la santa pazienza, distribuisco le posate nel cestello.
Non ho ancora finito che lei mi fa: “Devi passare l’interno della pentola solo con lo spazzolino. Non usare il detersivo, capito?”
Faccio un cenno di sì, anche se in realtà l’avrei infilata dentro così com’era. Mentre passo lo spazzolino sulle pareti di acciaio della pentola, comincio a credere sul serio che sarebbe stato meglio se avessi pensato ai fatti miei, ignorando Angela e il nostro anniversario.
A quest’ora, sarei al bar a fare una partita a scopa.
“Tesoro, vai a stenderti sul divano, metto dentro i bicchieri e il sapone, avvio il lavaggio e ti raggiungo”.
Ci provo a essere conciliante, ancora.
“Attento, stai coprendo il foro del getto dell’acqua”, mi fa lei che proprio non ne vuole sapere di andarsene.
Una fitta mi trapassa lo stomaco e la testa. Stringo lo stelo del calice che ho in mano. Un po’ troppo, perché il gambo mi rimane in mano mentre la coppa finisce a terra.
Chiudo gli occhi, le orecchie, la bocca, per non vedere la sua espressione di disgusto, non sentire le sue parole di disprezzo e soprattutto non dire quel Togliti dalle palle, stronza che sto pensando.
A strafare si sbaglia sempre, diceva la buonanima di mio nonno.
Lei insiste, ora, sul detersivo, dice che ne ho messo troppo.
“Angela, vai a stenderti sul divano. Ti porto la tisana, così finalmente ti rilassi”.
Dopo aver parlato, mi rendo conto di aver cambiato tono di voce.
Deve averlo intuito anche lei, che dice: “Va bene, a pulire la cucina ci penserò domani. Portami quella al finocchio, così digerisco il brodo”.
Prendo il flacone delle goccine e ne lascio cadere qualcuna sulla mia lingua. Pochi secondi e starò meglio. Lo so, lo so, il dottore ha detto di seguire le sue indicazioni. Ma, porca miseria, mi servono per non sbottare. Magari prima di andare a letto ne prendo meno.
Scaldo l’acqua, preparo la tisana.
L’occhio mi cade di nuovo sulle mie goccine.
E se provassi?
“Allora? È pronta la tisana? O devo venire io?”.
Sì, sono convinto che stasera ne abbia proprio bisogno anche lei.
“Allora?”
Cazzo, mi sono distratto. Quante erano? Sei, sette? Comunque troppo poche per qualsiasi effetto, lo direbbe anche il dottore.
“Allora?”
Stai zitta, stupida oca.
Lo penso, ma non lo dico, mentre chiudo gli occhi e agito velocemente la mano per accelerare la fuoriuscita delle gocce.
Il flacone è vuoto, quante saranno? Forse dovrei rifare la tisana, ma come glielo spiego? Il suo “Allora?” tuona di nuovo imperioso. Fanculo, che sarà mai qualche goccina di troppo.
Prendo la rosa dal tavolo e la appoggio sul vassoio, magari ora la vede.
“Ecco cara, vedrai che finalmente ti rilassi”.
Angela beve lentamente. Resta in silenzio per un po’, rigirando il gambo della rosa tra le dita, poi storce il muso e mi dice: “Nemmeno la tisana sai fare, aveva un sapore…”
Non aggiunge altro. Reclina improvvisamente la testa, chiude gli occhi e la rosa le cade dalle mani.
“Angela?”
È immobile, non risponde.
“Oddio, che ho fatto, che ho fatto?”.
Mi avvicino, la scuoto, ma niente.
“Angela?”
Abbandonata sul divano sembra una bambola di pezza.
Devo chiamare il dottore, che figura di merda. Lui mi aveva avvisato di non superare la posologia per gli effetti gravi delle goccine. Prendo il telefono, ma mentre compongo il numero, sento un brontolio.
“Angela?”
La guardo bene, il suo seno ora si solleva lento, le labbra vibrano come se stesse facendo delle pernacchie. Sta russando.
Che colpo, mi sono preso.
Ma ora io che faccio?
Non ci penso due volte. Prendo il giubbotto e vado al bar, magari sono ancora in tempo per una partita a scopa.