MORANTE DELLA FAVOLA

Solo due sono stati i libri della scrittrice romana scritti in versi: Alibi e Il mondo salvato dai ragazzini

[…]

Poi, fu di nuovo il silenzio

nella memoria,

e io nella vuota stanza

signora.

(Già s’incrinava, nel punto

che l’orecchio mi sfiora.)

[Poesia per Saruzza, 1943]

 

Solo due sono stati i libri di Elsa Morante formalmente ascrivibili al genere-poesia, cioè scritti in versi. Già qui mi muovo da sola una prima obiezione. Considerata la familiarità di Morante con l’iper-genere epica che informa tutta la sua produzione e forse sotto più di un aspetto ha informato la sua stessa vita, a prescindere (ecco l’obiezione mossa da me a me) dalla forma della scrittura, in Morante dobbiamo riconoscere, come in Pier Paolo Pasolini trasversalmente in tutta la produzione, una profonda matrice poetica, un mondo poetico che non ha a che fare con “la poetica” (cioè con i temi e gli oggetti del suo scrivere) ma ha a che fare con la visione fanciullesca e impertinente delle sue personificazioni, cioè col dilagare di quella stagione favolosa che è l’adolescenza in cui tutta la partita dell’esistenza si gioca tra il non più e il non ancora, in quella transitorietà conflittuale che è caratterizzata da una sensibilità finissima, urticata ed eroica, il tratto umano più autentico cantato dalla nostra.

 

I due libri sono Alibi e Il mondo salvato dai ragazzini: l’uno licenziato da Morante nel marzo 1958, l’altro varato in Einaudi dieci anni dopo, nel favoloso 1968, di cui il libro individua la giocheria.

Tuttavia, mentre il secondo è un’opera concepita e reificata in piena consapevolezza compositiva e come sguardo d’autore su un mondo intento a crescere, dopo averne piantato tutti i semi, il proprio stesso sfacelo, il primo, Alibi, è una sorta di entre les actes che riveste un’importanza strepitosa nei confronti del resto della produzione di Morante.

 

Nove anni da che t’ho salutata

o mia dimenticata, giovane siciliana.

 

Fra noi due si distese

un’impervia rovina

di lontananza e di tempo,

e il trombettiere delle morti

sui valichi suona il silenzio.

 

Ma l’eco d’una tua risata,

ultimo celeste addio

per nove anni si aggirò

su quel desolato paese

rimbalzando in corsa, l’effimera

fanciulletta. E l’approdo

quale fu? Sola

nella mia stanza ero

oggi, e stupore mi morse.

L’eco d’un tratto udii

della tua spenta risata.

Ti riconobbi, e il piacere

d’un batticuore mi corse.

 

A te grazie, fragile eco!

Canaria bella volavi

a questo nido.

Dolce manina frugavi

fra queste foglie.

Gemma arancione t’accendevi

sul calcinato muro.

[…]

[Poesia per Saruzza, prima parte – 1943]

 

Quando tu passi, e mi chiami,

assente son io.

Per lunghe ore ti aspetto,

e tu, distratto, voli altrove.

Ma tanto, il mezzano serafico

del nostro amore,

il sultano dello zenit

che muove sul quadrante le sfere

con le dita infingarde e sante,

ha già segnato l’istante

del nostro convegno.

Molli si volgono i miei giorni

a quella imperiosa stagione.

Candida e glaciale essa risplende

alta salendo, come fuoco.

Ah, nostra incantevole stanza!

Che importa a me, infido spirito,

dei tuoi diversi pensieri?

Il presagio inchina già la fronte

all’annuncio. Sorte e amore

ti congiungono a me.

[Amuleto, 1945]

 

Le poesie o meglio i poemetti, talvolta articolati altre lunghi, sempre strutturati da mente ordinatrice quale la Morante ha mostrato di possedere nel suo terreno elettivo: la forma-romanzo, e raccolti in Alibi, costituiscono una sorta di giornale di bordo segreto tenuto dalla scrittrice, che voleva essere definita scrittore (neutro, cioè asessuato, non condizionato dall’appartenenza di genere, paritario e inclusivo), negli anni 1940-1957: una disseminazione in versi che è intrecciata alla scrittura dei due romanzi, i suoi primi, Menzogna e sortilegio (1948) e L’isola di Arturo (1957), e soprattutto a una miriade di racconti scritti tra il 1933 e il 1951, e così raccolti:

Il gioco segreto (20 racconti, Garzanti 1941, composti tra il 1937 e il 1941)

Le bellissime avventure di Caterì dalla Trecciolina (13, Einaudi 1942, 1933-1939)

Lo scialle andaluso (12, Einaudi 1963, 1935-1951 – in parte da Il gioco segreto)

Racconti dimenticati (14 + altri, Einaudi 2002, 1937-1947)

Aneddoti infantili (15, Einaudi 2013, 1939-1940: rivista Oggi, rubrica Giardino d’infanzia)

 

Quella che tu credevi un piccolo punto della terra,

fu tutto.

 

E non sarà mai rubato quest’unico tesoro

ai tuoi gelosi occhi dormienti.

Il tuo primo amore non sarà mai violato.

 

Virginea s’è rinchiusa nella notte

come una zingarella nel suo scialle nero.

Stella sospesa nel cielo boreale

eterna: non la tocca nessuna insidia.

 

Giovinetti amici più belli d’Alessandro e d’Eurialo,

per sempre belli, difendono il sonno del mio ragazzo.

L’insegna paurosa non varcherà mai la soglia

di quella isoletta celeste.

E tu non saprai la legge

ch’io, come tanti, imparo,

– e a me ha spezzato il cuore:

 

fuori dal limbo non v’è eliso.

[L’isola di Arturo, 1956:

il romanzo poi esce nel ’57]

 

Ah, parvenza di sogno faticoso,

ultima pena all’accidia!

dal fondo astruso risalirà la barca,

senza fine: altre voci, altre stanze.

 

E se almeno potesse questa angosciosa mente

come acqua toccare la radice, salire come il verde

alla punta più alta. Insipida linfa

e fatuo stelo! sempre rinato a invaghirti

(con sospiro puerile e inerme)

dei cavalieri feroci che giocano alla caccia

delle angeliche belve.

[Amleto, 1957]

 

È la stessa Elsa Morante nelle poche righe della PREMESSA (Roma, marzo 1958) a dirci che questi radi versi non sono che un’eco, o un coro, dei suoi romanzi, […] nient’altro che un divertimento, o gioco, cui ama talvolta abbandonarsi senza troppo impegno (!), per semplice piacere della musica. Se quindi a un certo punto Morante ha deciso di desecretare questi piccoli tesori, lo ha fatto per dare a chi li leggerà (neutro, asessuato, non condizionato da appartenenza di genere, paritario, inclusivo) quel riposo, e divertimento (insiste, Morante, sulla faccenda del diversivo, del divertere dalle cure) che lei stessa ne ha tratto nel comporli. Del resto, la raccolta è intitolata Alibi, in latino altrove, in altro luogo: sì, questo è un altro luogo letterario di Morante che abita un mondo poetico immenso, è il suo giardino segreto, però anche l’ennesimo τόπος (tòpos) che compone il grande mosaico in cui ricorrono motivi a lei cari – su tutti, l’adolescenza, tra innocenza prossima a perdersi e conflitto col mondo adulto verso cui ci si avvia imparando la peccaminosa furbizia. Un mondo immenso che è anche un grande gioco, pronto a farsi talmente robusto lungo il percorso compositivo di Morante da approdare nel corrispondente consapevole a questa giocosa (eppure profonda) unica altra opera in versi: Il mondo salvato dai ragazzini (1968): un’opera talmente potente che Pier Paolo Pasolini (in Alibi, peraltro, scopriremo tra poco, riecheggiato), notando anche l’anno fatidico della sua uscita (il ’68!), griderà all’opera politica in una recensione pubblicata subito su “Tempo”, e poi dialogherà anche con la raccolta in Trasumanar e organizzar (Garzanti, 1971), con ben due poemetti che ripetono il titolo morantiano e hanno il tono di una conversazione, anzi di una discussione. Nella recensione su “Tempo”, significativamente, Pasolini scrive di Il mondo salvato dai ragazzini:

 

“[…] il troppo piacere che dà il leggere questo libro, sempre inconsapevolmente, lo

fa apparire come una cosa poco seria, una delizia e basta. Invece il libro della Morante

è addirittura un manifesto politico. Il manifesto politico, potrei dire paradossalmente,

di quella nuova sinistra che in Italia pare non poter esistere, crescere, riaffondando

subito nel vecchio qualunquismo, e nel complementare moralismo. Un manifesto

politico scritto con la grazia della favola, con umorismo, con gioia […]”

 

– Pasolini coglie esattamente l’elemento giocoso e fiabesco sia nel tono (epico) che nella poetica di Morante, pervasivo di tutta la sua opera, non però da intendersi come prova di superficialità e levità fanciullesca, ma come invenzione di un mo(n)do altro nel quale la realtà dominante sia l’innocenza dei fanciulli, e la scoperta e la risalita tortuosa verso l’età adulta infestata di tradimenti e catastrofi, senza tacere della crudeltà inconsapevole e della sterminata (mal riposta) fiducia nel mondo, oltre che della ineluttabilità del fato, e della sotterranea ambiguità sempre pronta a farsi manifesta nella avventura umana.

 

Il titolo Alibi riecheggia nella citazione indicata dal corsivo in Amleto di Other Voices, Other Rooms – noto titolo di Truman Capote del 1948, mentre il verso fuori dal limbo non v’è eliso, che chiude il poemetto L’isola di Arturo, è una autocitazione, o meglio l’anticipazione di una frase-chiave del romanzo che racchiude la condizione di Arturo, ragazzino non solo isolato dal mondo sull’isola di Procida, e separato dalla Storia che corre avanti ciecamente, ma chiuso in un suo mondo di favola che, come accade al giovane Stephen Dedalus in A Portrait of the Artist as a Young Man, si rompe per un istintivo e naturale turbamento alla vista, nel caso di Stephen Dedalus, di alcune ragazze che gli passano davanti su una spiaggia rivolta all’Atlantico, e, nel caso di Arturo, per la fortuita visione delle grazie di Nunziata, nuova compagna di suo padre, matrigna di Arturo, di lui poco più anziana.

 

Si tratta peraltro di una frase che, come altre corrispondenti nel poemetto Avventura (Le cose amare sono le più care e Indietro, o pellegrina. Non riceve.) anch’esse segnalate dal corsivo, svolge anche funzione di clausola.

 

È appena il caso di sottolineare che in Alibi tutto il tessuto della scrittura poetica, con apparente ingenuità, si fa forte dell’anastrofe, il capovolgimento dell’ordine delle parole della nostra naturale enunciazione, quindi l’anticipazione di termini che nel comune ordine del discorso seguono. E vale la pena sottolineare anche che il grande gioco in versi imbastito da Morante in questo Alibi è un saggio di nutrita e sapiente scrittura in cui risultano impigliati molti echi, e fonti e corrispondenze. Tutto il tessuto della scrittura cita o riecheggia la lingua poetica di Giacomo Leopardi, rimbalzando tra fanciulletta e spaùro e tu solinga stai e mi fingo, o fa una diretta allusione all’Addio monti! del Manzoni: Addio, dunque, parenti, amici, addio! (in Avventura). Nel poemetto Alibi (1955) emerge una voce che vuole echeggiare i versi di Pier Paolo Pasolini, per ripartirne e svilupparsi:

 

Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!

Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,

comuni e spoglie sono per lui le mille vite.

Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori

e gli si apre la casa di due misteri:

il mistero doloroso e il mistero gaudioso […]

 

È definitivamente significativo il piccolo canto che Elsa Morante intona Alla favola (1947):

 

Di te, Finzione, mi cingo,

fatua veste.

Ti lavoro con l’auree piume

che vesti prima d’esser fuoco

la mia grande stagione defunte

per mutarmi in fenice lucente!

 

L’ago è rovente, la tela è fumo.

Consunta fra i suoi cerchi d’oro

giace la vanesia mano

pur se al gioco di m’ama non m’ama

la risposta celeste

mi fingo.   

 

Tutta la tessitura compositiva incorpora il mito e l’epos, e figure cristallizzate nella giovinezza: i giovinetti amici: Aida e Eurialo e Niso; oppure le ninfe e i centauri come Briseide cioè Ippodamia e Chirone e Sileno; e poi la favolosa Nerina (Su Nerina, 1955):

 

Ricordo d’una infanzia. Senza genitori né avi,

nessuno a smentire la leggenda (privata, ndr.)

 

– che doveva diventare la figura centrale di un romanzo da abbinare in dittico (Amori Impossibili) a L’isola di Arturo; infine altrettanti favolosi gatti: Minna la Siamese e il Gatto Alvaro (titolari dei rispettivi poemetti), per finire col Gatto e l’Uccellino (scherzo dedicato a Sandro Penna).

 

Un popolo di personae, di personaggi potenti che si muovono tra questi versi e quasi tutte le pagine di Morante, ai quali dunque giustamente è dedicato un poemetto che qui per chiudere riporto:

 

Voi, Morti, magnifici ospiti, m’accogliete

nelle vostre magioni regali,

i vostri miniati volumi

sfogliate graziosamente per me.

 

Lo so: io, donna sciocca e barbara,

non altro che suddita e ancella a voi sono.

Ma pure il nastro d’oro delle vostre

imprese, e arroganti amori,

orna la mia fronte servile,

o Sultani infingardi.

 

Altro io non sono che pronuba ape

fra voi, fiori straordinari e occulti.

Ma sulle effimere mie elitre

pur vaga una traccia rimane

del vostro polline celeste.

E il vostro miele

è tutto mio!

[Ai personaggi, 1947]

 

– un poemetto che è anche una piccola lezione di scrittura.

Giusto in coda mi coglie lo scrupolo di segnalare che, secondo una tecnica peraltro molto istintiva in parte solamente mostrata qui (cioè nelle poesie di Alibi, oggetto di questo articolo) da me definita mallo di noce o riccio di castagna, Morante, nei romanzi maggiori, segnatamente La storia, L’isola di Arturo, adotta un metodo indiretto di disvelamento del vero cuore delle vicende narrate: il frutto è nascosto perché deve essere custodito, tutelato, protetto. E tu che leggi ci devi arrivare, e togliere gli strati tessuti da Morante in modo che il frutto resti preservato poiché tenero e fragile: come Iduzza e il suo Useppe, o come Nunziata, spiata furtivamente da Arturo che innocentemente perde la sua innocenza, e il suo limbo si frantuma. Significativo in questo senso Lo scialle andaluso, cioè segnalino che nasconde o concealing tip, velo e segno malandrino, come la coda della spigola che fugge e la coda bionda che ha imbambolato Sasà in Ferito A Morte (1961) di Raffaele La Capria e lo segnano come Occasioni Perdute o Grandi Occasioni Mancate. Elsa Morante crea un gioco di quinte in cui l’individuo è immerso nella Storia e trattenuto dalla propria storia, e il dialogo tra le due dimensioni è il vero traffico del suo mondo poetico.

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