(Poeti Nottetempo – maggio 2021)
Afrodite
l’arabo che ti insegue
da giorni ha studiato tutto
di te i dintorni
l’ora in cui scendi
a prendere la frutta
nel mercato di Porta Palazzo
dove tocchi la stessa
e che quasi sempre
è merce che proviene
già matura, senza bisogno
di usare altre mani
per disfarla.
Oggi leggo che dal Kansas
hanno portato una mostra
per esporre i vestiti
sopra alla domanda ricorrente
che ingenera il pregiudizio
a danno dello scandalo “What
were you wearing?”
Se sei venuta qui
è per stare solo tra noi
a vedere che i corpi
che non si compenetrano,
si assomigliano, come il mio
corpo che a vent’anni
non è stato più puro del tuo
più impuro del prima
e del dopo quando a Ostia
siamo scese dall’auto,
con i vestiti da parte
per superare i cancelli
e rientrare a ritroso nel mare.
regina della notte
hai cantato per me l’aria
che non potevo prendere
dalla cassa toracica
troppo stretta
per i tuoi polmoni ampi.
Ti mostravo in cambio la lingua
di Verdi, l’Aida Abigaille
con le mani sui fianchi
quando a Finalborgo d’estate
ci ha prese il temporale
e siamo scese sotto i tavoli
mentre i maschi fuggivano
e ci guardavano ridere.
Potevamo essere anche noi
un’altra cosa Joana
se a vent’anni la pioggia
avesse smesso di scendere
prima di incominciare
a scappare per trovare riparo.
Ti vedo ora vestita da Rosina
in un’immagine di scena
che è in tournée tra i teatri
di Roma e di Barcellona,
con il tuo tenore e la parte
che non abbiamo scelto.
[da ALBUM, Elisa Donzelli – Poeti Nottetempo, maggio 2021]
Prim’ancora di darvi qualche informazione sull’autrice di questi versi, mi soffermo su notazioni di carattere subito “tecnico”, solo per sottolineare la riconoscibilità della voce poetica che qui abbiamo di fronte. Le notazioni sono tre – mi piace, lo avrete notato, fare degli elenchi, non per normare l’innormabile, ma per mettere ordine tra le plurime reazioni di lettura suscitate dalla poesia:
- come me avrete notato che l’incipit è in minuscola: lo definirei un elemento foscoliano – perché, come Foscolo nei Sonetti cominciava sempre con un avverbio, come se l’incipit fosse in realtà il ragionamento poetico colto già in medias res, così qui l’iniziale minuscola suggerisce che l’incipit sia in realtà la prosecuzione di un discorso cominciato da prima e per un po’ rimasto sotto traccia e poi da quell’incipit in minuscola emerso al sonoro condiviso;
- un altro elemento che salta all’occhio è la tendenza prevalente all’uso di versi brevi: quinari senari, settenari, qualche quadrisillabo – persino un binario, come nel De Chirico seguente:
frisbee
cavalieri puntati la sera
agli angoli dei palazzi
si chiamano per nome
poi lanciano
la piazza vuota
la piazza metafisica
Pisa
- e l’uso molto frequente di enjambements, i cosiddetti run-on lines, cioè versi che si spezzano e il cui senso logico-sintattico prosegue nel verso (breve) successivo, dunque rimbalza da verso a verso: una risorsa che denota una sorta di senso di inseguimento, tecnico e tematico, che, come andiamo scoprendo, innerva questa poesia;
- come sempre emerge un ulteriore punto che è la risultante di tutto quanto detto sopra, ed è, a dispetto dell’effetto-spezzatura, la doppia risorsa di concorso e corto circuito.
Il concorso di cui parlo è proprio questo rincorrersi di versi di misura diversa, per cui, nonostante prevalga la misura breve o brevissima, non poche volte il verso si lancia lungo, fino al decasillabo o endecasillabo, mentre in qualche caso si posa, anzi si riposa, nella quadratura della prosa, di cui fornisco subito un piccolo esempio, campione anche della microcellula di prosimetro che è forse l’unità generativa più attendibile di questo piccolo libro, articolato e denso:
la spatriata [*]
te lo ricordi Nora
il 25 aprile del 1994
quando a quindici anni
abbiamo preso il treno
e la pioggia scendeva
sul Duomo di Milano?
te lo ricordi che eri vestita
tutta di nero mentre la folla
sventolava bandiera rossa
quando regnava su noi due
la pace adolescente
di fronte a quel 61 per cento
al 61 per cento incosciente
del trionfo che sarebbe stato
il marzo oracolare?
Per quindici anni avremmo difeso liti costruito pali ricucito altre
separazioni, mentre sceglievi tra Parigi e Berlino il luogo della sosta.
Non so se hai fatto bene tu a partire ho fatto bene io a restare, se partire
restare a vent’anni sono la stessa cosa. Ora che non piove più su Milano
ma un’arsura più secca invade la città e Roma non è più quella degli amori
inconfessati sui nostri prati dove un bitume artificiale molesta le ville degli
appuntamenti, anch’io sono libera su questo treno e non occorre che
qualcuno nasca qualcuno muoia cambi qualcosa in questo paese.
Frecciarossa Roma – Pisa
Si tratta dopotutto di scandire la corsa tra piani temporali e spaziali diversi che si contendono nella coscienza di tutti noi, in fondo, sempre, la consapevolezza e l’essere presenti a sé stessi. E si tratta anche di fare continue incursioni nel germinale porsi di tutto ciò che ora decanta nell’oggi, anche alla luce dell’esperienza forte che lo pervade.
Proprio questa sorta di gara di lunghezza metrica che si anima per tutto il libro collabora al dettaglio compositivo e inventivo (in una parola, odiosa, “creativo”) che è il corto circuito, il quale si verifica in termini di scrittura per lampi, ma si compie anche, come anticipavo, in termini tematici, e aerei.
Quest’ultima definizione intendo spiegarla.
È come se, in questa poesia, i versi corressero e si rincorressero lungo i fili volanti che si lanciano e si tendono, facendo da leganti, tra tempi e spazi diversi. È come se la poesia in questo libro collegasse stazioni diverse dell’esistenza tesa tra ricordo e momento attuale, tra aree di libertà studio azione vita e un chiodo presente che adesso blocca. È come se la poesia qui consistesse in quei lanci, in quei voli, in quegli spostamenti disegni decisioni, cioè lungo le direttrici di connessione tra vari momenti nel viaggio dell’esistere della voce poetica. Questo dà senso al titolo della raccolta, ALBUM.
La voce è di Elisa Donzelli: è venuto il momento di parlare di lei, poeta alla sua prima opera di poesia ma legata alla poesia da molto tempo, come studiosa e come curatrice di collana.
Anche la sua voce intona una melodia pendolare che fa oscillare il senso tra le parole stabilendo tra loro un percorso di andirivieni transitivo, addirittura più chiaro proprio nelle poche prose liriche qui presenti in cui salta all’occhio l’abolizione o quasi della punteggiatura – un breve esempio:
Villa Torlonia
apro la scatola delle fotografie dove finiscono le fasi della vita e le trovo
sfuse nei decenni – ottanta novanta zero dieci sono numeri non anni, senza
un criterio preciso mi riappaiono le parti strappate del tutto quando attaccavo
sui muri le persone e le cose degli album che non ho conservato se le immagini
cambiavano con le stagioni cambiavano i gesti negli stessi spazi tra i quali c’è una
sola immagine di te con me nella villa, quando non ti volevo nata. […] e dice quello
che sei stata, legge cosa pensavi della sorellanza [teniamoci per dopo questa parola,
ndr] e dove non arrivo cerco lo sguardo dell’altra che mi è sorella nello spazio che da
altri ti è stato creato.
[*] Richiamerei a questo punto il titolo del breve prosimetro riportato sopra, la spatriata, intanto per indicare la coincidenza dell’uso di questo particolare aggettivo sostantivato, spatriata appunto, usato anche da Mario Desiati per il suo ultimo romanzo, Spatriati, senza articolo, uscito anch’esso da pochi giorni. Un aggettivo che ha accezioni polisemiche: indica uno status topografico emotivo interiore.
È legato allo spostamento, in senso fisico e non solo. Chi è spatriato è sprovvisto o privato di patria, cioè di appartenenza a un territorio stabile, ed è chi vive come disagio l’inappartenenza interiore, morale, emotiva, e patisce un non riconoscersi, ondeggia tra identità diverse o meglio accoglie una identità plurima che non esclude nessuna piega, nessuna amarezza, nessuna possibilità, le tiene tutte
– ulteriore coincidenza tra la poetica romanzesca di Desiati e la poetica-poetica di Donzelli nei versi:
esercizi di disegno
sono a colori i disegni che ho conservato
con le figure di genere femminile
il foglio in posizione verticale
per fare spazio alle gonne
di ballerine e regine,
le braccia lungo i fianchi
e la vita stretta a spingere verso
la punta dei piedi
mai appoggiati
completamente a terra
mai en plissé
La parte più difficile
veniva alla fine,
era fare l’occhio
che non era mai uguale
a se stesso, in linea
con il taglio dell’altro.
È con te che ho ripreso
il tratto delle cose
tra i tuoi animali strani
le tue crasi di specie
rare mai ritratte in posizione
frontale – wolpertinger
taueret mapinguari
testa d’ippopotamo
coda di coniglio.
Hai spazio di profilo
per un unico sguardo
non puoi vedere
cosa c’è dall’altra parte,
per questo quando sei nato
ho faticato a scegliere
il tuo nome.
La libertà di muoversi, di ondeggiare tra piani diversi, di tenere insieme sedi e culture diverse, lingue che liberamente si intrecciano, rende le nostre identità, va ricordato, ciascuna unica e irripetibile: fa di noi pezzi unici esclusivamente forgiati da tutto ciò che ci produce ci anima ci muove ci lancia ci deposita presso gli altri, fino all’ultima persona che serba ricordo di noi – per dirla con le parole di Emanuele Trevi in Due Vite (Neri Pozza, 2020): tutto questo, come sembra suggerirci Elisa Donzelli, si vede bene o perlomeno ha un suo passaggio cruciale nella connessione tra infanzia e favola. Qui la madre prova a mettersi al livello del bambino mentre apprende da lui il disegno. Però ciò che sembra solo racconto e favole, e chimere evocate da figure leonine o altri animali che hanno del terribile e del bello, dunque attraggono e atterriscono come accade con i mostri dell’infanzia, ha invece una sua realtà, una sua fisicità: nel racconto, illusoriamente, tutto questo sembra puro miraggio, immagine solo evocata, ma come sappiamo i mostri non sono figure irreali, a volte ci sottentrano, e immanente in essi è la natura subdola, in assoluto la più insidiosa.
Come le malattie che improvvisamente ci infestano.
Questo aspetto ha nel libro una sua sezione elettiva, a cui potremmo dedicarci per testimoniare in modo completo della composita poetica di Elisa Donzelli articolata in questa sua opera d’esordio nella poesia, che è appunto ALBUM. Ma mentre è vero che i libri di letteratura alta, poesia o prosa che sia, non sono gialli o polizieschi, per cui non si pone il problema della ricostruzione del delitto e della rivelazione del colpevole, è pur vero che di un libro non si può svelare tutto – il compito, anche, di questa nostra rubrica è destare l’attenzione dei lettori su libri e autori che hanno un peso o valore annidati principalmente nella scrittura. Per esempio, fatto tutto questo lungo giro, proprio questa evocazione dell’esercizio del disegno e della pratica gomito a gomito tra madre e figlio ci fa scoprire con un filo di terrore che lo sport (per così dire) della scrittura può anche rivelarsi pratica talmente “rivelatoria”, se non “profetica”, che qualche volta viene voglia di guardarsene.
Una forma di prudenza e di autotutela che non appartiene allo scrittore, e men che meno al poeta.
Il poeta è come Icaro, sa già che le gracili ali di carta appiccicate con la cera sono destinate a sfarsi col temerario avvicinarsi al sole, ma l’ebbrezza del volo è troppo desiderabile e irrinunciabile.
Lo stesso vale per l’ardita audacia di voler vivere. Ciò che ci capita non è sempre (forse, anzi, non è mai) solo buono, solo positivo, però se capita qualcosa di buono per cui non si è brigato, allora si vive una vera gioia, e per un breve momento si tocca con mano addirittura la felicità – si riconosce cos’è. A volte però qualcosa accade che ci inchioda al suo senso, alla sensatezza come alla dissennatezza.
Ciò che capita in questo libro, da cui vi raccomando caldamente di lasciarvi trasportare, è sì evocare ricordi e creare connessioni tra tempi e spazi diversi, personali e condivisi, tuttavia non si tratta di un’operazione nostalgia, ma di un riconvocare la propria vita al cospetto di un fatto enorme, è chiamare a raccolta, quindi, tutte le forze e le risorse, per rilanciarsi rinascere e risorgere.
human studies
per Flavia
ottobre, ricomincia l’anno accademico
e rivedo gli appunti di un corso comune
quando nelle aule ci incrociavamo appena
riconoscendo consueta a noi la frequenza,
la stessa con cui ora ritrovi tra le tue carte
la lezione a me mancante – 5 dicembre 2001.
Potrebbe essere questa come un’altra
La data in cui distratte ci siamo perse,
nei pochi incontri estranei al nostro essere
sempre insieme a tenere lacuna e scarto
dell’inutile scelta. Considerala nei mesi
abitudine a uno spazio che per troppa
fedeltà inaspettata riempi.
Come si vede qui il verso si allunga in una sorta di andamento prosastico irrefrenabile che si fa di più racconto, dunque sembra quasi, il dettato, affidarsi a un modello whitmaniano, a salvaguardia anche della sostanza memoriale e diaristica, quasi, di questa sequenza. È ciò che comincia ad accadere, con andamento concorsuale, nella poesia che immediatamente precede, dove al racconto memoriale si aggiunge una espressione di nuda gratitudine – un testo quindi di trasformazione stilistica:
a Biancamaria, nei giorni della Sapienza
che ridere con te fosse la via per rompere
la distanza di femmina cresciuta come me
tra altre femmine, distinguere
le battaglie dalle resilienze
e poi schivare l’indifferenza l’inaspettata
violenza che non preserva il desiderio
dall’invidia, lo studio dalla mania
nei corridoi sulle scale dove anche tu
sei stata libera, orsa maggiore
degli anni dell’errore
la scia.
Mentre irresistibilmente sono portata qui a rilevare l’oscillazione tra le sentite resilienze e il fulgido trisillabo finale, seguirei, e vi invito a seguirmi, la scia appunto lasciata cadere, qui, quasi per caso, dalla parola Sapienza, con iniziale maiuscola perché allude con tutta evidenza alla facoltà di Lettere presso la prima università romana, ma dopotutto, inevitabilmente, tira in ballo la sapienza come qualità e valore, che qui vorrei far valere come abilità e bravura nell’operare, dentro il tessuto di cui è sostanziata questa poesia, un altro strato robusto del suo magnifico filato: quella metaletteratura intertestuale che incorpora nel dettato fonti ed estratti aforistici di diversa provenienza e fattura – di nuovo un convocare, un saper (appunto) chiamare a raccolta la folla dei poeti estinti quali altrettante stelle di luce, sollecite a proteggere assistere spalleggiare questo nuovo poetare, e consiste anche nel forgiare termini dotati di funzione logico-grammaticale da nomi propri. Come accade ad esempio in
biosfera
dicono a Playa Blanca che ti hanno inseguito
e non sei morto per errore dopo la villa
di Omar Sharif sotto l’oasi di Harìa
ai piedi della popolazione.
Può essere leggenda ma gli credo
se le leggi sono passate grazie a te
che compi il miracolo per l’isola
senza tralicci e grattacieli
nei giardini d’acqua incastonati
tra i risparmi delle cactacee,
fibrose non legnose – stenocereus
mammillaria escobaria
opuntia ariocarpus.
Non garantisce riserva o fiore
ma l’arte è una natura sostenibile,
césarmanrique.
– chiaro esempio, questo, di trasformazione di un nome proprio in un termine di senso comune, qui aggettivo definitorio, a voler essere esatti. È evidente che grande importanza (affidabilità, viene da dire) è data da Elisa Donzelli al gesto linguistico di tradurre in versi il dato plurimo dell’esistente e del nostro leggere il mondo attraversandolo: esso consiste proprio nel convogliare il valore di tutto il patrimonio del nostro esistere depurando le cose e gli eventi dalla loro comune grossolanità – è un gesto sempre aristotelico, è il gesto semplificatorio, o meglio essenzializzante, di spellar via le qualità secondarie per enucleare il vero oggetto. Traduzione e trasloco – traslocazione, e trasmissione di immagini primarie, dell’immaginario primario. Si coglie, questo punto, quasi per accumulo, quasi per caso, nel momento in cui si arriva a questo testo, che libera questa acquisizione una volta per tutte:
pelle
anche il tempo ora è passato sui volti
lo vedo se ci guarda il figlio, sorride
di te a vent’anni ed è una gara
assomigliargli nelle fotografie
stupirsi dell’iride verde
nel chiaro incarnato, oscilla
tra i tuoi e i miei tratti
prende dell’uno e dell’altro
la macchia poi i segni.
Non sarà la genetica a dirci
da che lato di noi anche lui
renderà più duro il tessuto.
Questo è davvero un libro che caldeggio: ALBUM di Elisa Donzelli, uscito pochi giorni fa (un po’ lo attendevo, lo ammetto) nella serie Poeti di Nottetempo, editore che ha agito a lungo a Roma, e da qualche anno si è spostato a Milano. Elisa Donzelli da par suo è legata anche al nome di un editore di grande tradizione per il quale da anni dirige la collana di poesia contemporanea mentre è ricercatrice presso la Scuola Normale di Pisa. E poi, anche per chiudere il cerchio, vorrei evocare qui un termine che abbiamo un po’ più su tenuto da parte, la sorellanza: sere fa, durante la cerimonia dei David di Donatello, i nostri Oscar del Cinema, è stata evocata da Marta Donzelli, produttrice con Gregorio Paonessa della Vivo Film, premiata per Miss Marx, film del 2020 di Susanna Nicchiarelli – messaggio in codice inviato anche per evocare l’altra sorella Donzelli, Anna, scomparsa nel 2018, e tenere saldo, evidentemente, quel cerchio di affetto e di solidarietà femminile che permea peraltro, come abbiamo visto trascrivendone dei passi, questo bellissimo primo libro in versi di Elisa Donzelli, ALBUM, intessuto di legami affetti e cordate generazionali senza tacerci nulla della posologia del dolore e dell’amore in cui ci tufferemo nel nostro prossimo appuntamento: Elisa Ruotolo, Corpo di pane (Poeti Nottetempo, Milano ottobre 2019).
Fotografia di Chiara Vettraino