[…]
I tell you I could speak again: whatever
returns from oblivion returns
to find a voice:
from the center of my life came
a great fountain, deep blue
shadows on azure seawater.
[…]
ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò
che ritorna dall’oblio ritorna
per trovare una voce:
dal centro della mia vita venne
una grande fontana, ombre blu
profondo su acqua di mare azzurra.
[da WILD IRIS, L’Iris Selvatico – traduzione di Massimo Bacigalupo, Ed. Il Saggiatore 2020]
Per molte settimane e attraverso molti poeti abbiamo costeggiato quel mare scuro che è il silenzio, la controparte dopotutto della parola poetica. Lo scarto fra quel gran mare nero, o forse bianco, e la possibilità di infrangere il suo incantesimo con la parola (che è un dono e un reperto) è uno dei temi più appassionanti anche per Louise Glück, la poetessa americana insignita nello scorso ottobre del Nobel per la Letteratura. Però prima di entrare in medias res, permettetemi di sottolineare la coincidenza di questo suo pugno di versi con una mia personale condizione attuale, un’afonia quasi totale, e l’augurio dopotutto che questi versi contengono: un portafortuna di cui, forse, mi sto appropriando in modo un po’ malandrino, ma, che vi devo dire?, ci ho visto un segno, la promessa che la voce tornerà: torneranno a funzionare le corde vocali e più in generale tornerà quella voce, difficile in realtà da zittire davvero, che è la voce poetica, la voce della scrittura (c’è, non manca).
Trovarla la prima volta, poi tornare a trovarla, e ancora fortunosamente ritrovarla.
Ci vedo un portafortuna anche perché Louise Glück ha la fortuna nel nome: Glück è fortuna in lingua tedesca, e questo dettaglio apre una serie di strade anche nella lettura della sua produzione poetica.
In una sua raccolta di saggi veramente interessanti, PROOFS & THEORIES (anni Novanta, The Ecco Press, etichetta di HarperCollins), Louise Glück racconta la propria formazione di poeta. Ci racconta, Louise Glück, come ha imparato la severità e il fatalismo. E indulge nella ricostruzione della storia della sua famiglia: parla dei nonni venuti dall’Ungheria (Impero AustroUngarico, ormai decadente anzi decaduto: non possiamo non pensare all’Austria Felix che alimentò il Mito Asburgico raccontato magistralmente da Claudio Magris in un suo saggio sugli austriaci del Novecento). Dunque troviamo la radice di quel cognome, e l’ebraismo dei nonni ungheresi migrati negli Stati Uniti del Nord-Est, gli USA delle severe origini puritane, in cui poi tanti autori di matrice ebraica hanno dato polpa alla letteratura americana: subito ci vengono in mente Philip Roth, o Bernard Malamud…
If kitty cats li(c?)ked roastbeef bones
And doggies sipped up milk;
If elephants walked around the town
All dressed in purest silk;
If robins went out coasting
They slid down, crying wee,
If all this happened to be true
Then where would people be?
[Se i gattini amassero (o leccassero?) gli ossi dell’arrosto
E i cagnolini lappassero il latte;
Se gli elefanti si aggirassero per la città
Tutti bardati in purissima seta;
Se i pettirossi uscissero a costeggiare
E volassero in picchiata gridando uììì;
Se per caso tutto questo fosse vero
Allora tutta la gente starebbe … dove?]
[(Traduzione provvisoria mia) da PROOFS & THEORIES – EDUCATION OF A POET, TheEccoPress / HarperCollinsPublishers]
Questa è, a detta di Louise Glück, una delle sue prime poesie, compiuta, e scritta a, forse, 5 anni.
È una filastrocca fortemente evocativa, l’intuizione di una doppia e contraddittoria rivelazione: un idillio apparente che nasconde qualche tragedia latente, è sinistra e allegra nel tono, è un gioco spensierato in cui si annida la fulminea abilità di afferrare e lasciar subito sparire o volar via un segreto. Soprattutto colpisce, a cose fatte, la pensosità di fatto, anche se buttata in ridere, della bambina che sa tutto o quasi senza ancora saperlo.
La svolta drammatica nella vita di poeta di Louise Glück è venuta dallo scontro con l’avversaria che si è scelta, sua madre, e dalla forma patologica che lo scontro assunse a un dato momento. Così una parte andò in un reciso rifiuto, prima di tutto del cibo, e in una raspata al fondo del barile profonda che si tradusse in una bella spinta e un robusto colpo di reni – la scelta d’obbligo tra vita e morte se la poté aggiudicare la vita. Sembrano cronache di ricordi familiari, invece sono punti di svolta e tappe in successione di un cammino in cui ogni caduta e ogni conquista è stata prima di tutto una battaglia affrontata a viso aperto ma senza clamori. INTIMACY, l’intimità, è una parola-chiave nel vocabolario di Louise Glück: è quell’angolo nascosto dove tutto realmente accade, lontano dagli occhi ma non lontano dal cuore, e da questo spazio intenso, assorto, denso, sale la vita come canto.
Nelle pagine di Glück dedicate alla formazione di poeta, ho ritrovato alcuni snodi-chiave, pure loro: 1. la stoffa di poeta emersa subito sotto forma di lavoro accanito e calmo sulla frase compiuta, cioè sul verso finito, cesellato; 2. aver alimentato l’immaginazione e la sua formulazione poetica ai miti greci e alla lettura; 3. aver attraversato un periodo in cui il dolore acuto ha chiesto tutto lo spazio e lei con grande arrendevolezza (YIELD è un’altra parola-chiave) ha semplicemente smesso di scrivere; 4. aver imparato a lasciarsi portare dall’onda buona e a deporre ogni ostinazione insensata.
Bè una fase molto impegnativa è stata quella manciata di anni (ben 7), in cui, finito il liceo, si è decisa a farsi aiutare da un analista, lei che pensava mai avrebbe accettato l’analisi, e si è dedicata all’interpretazione dei sogni come parte integrante del percorso. Anche questo ha prodotto poesia, insomma COMPOSIZIONE.
QUATTRO SOGNI CHE
RIGUARDANO IL MAESTRO
1. L’implorante
S. se ne sta in piedi in una cameretta, legge a se stesso.
È un privilegio vedere S.
da solo, in questo ambiente sereno.
Solo la sua mano si muove, volta le pagine.
Poi, da sotto la porta chiusa, una nocciola solitaria
rotola nella stanza,e viene a fermarsi, a fine corsa,
ai piedi di S. Con un sospiro, S. chiude il pesante volume
e fissa stancamente giù verso la nocciola rotonda. “Bè”, dice,
“cosa vuoi ora Stevens?”
2. Conversazione con M.
“Ha mai notato”, sottolineò lui,
“che quando le donne dormono
In realtà ti stanno guardando?”
3. Il sogno di Noah
Dov’eri nel sogno?
Al Polo Nord.
Eri da solo?
No. C’era il mio amico con me.
Quale amico?
Il mio vecchio amico. Il mio amico poeta.
Cosa stavate facendo?
Attraversavamo un fiume. Ma i blocchi di ghiaccio
erano molto lontani tra loro, dovemmo saltare.
Avete avuto paura?
Solo freddo. Ci si sono riempiti gli occhi di neve.
E siete arrivati dall’altra parte?
C’è voluto parecchio. Alla fine siamo arrivati.
E cosa avete fatto, una volta dall’altra parte?
Abbiamo a lungo camminato.
Ed è stato il cammino la fine?
No. La fine è stato il mattino.
Conversazione con X
4. “Tu”, egli disse, “sei proprio come Eliot.
Pensi di sapere tutto del mondo
ma non credi a nulla”.
[(Traduzione provvisoria mia) da PROOFS & THEORIES – EDUCATION OF A POET, The Ecco Press / HarperCollinsPublishers]
Tra poco vi lascio una volta per tutte ai magnifici versi di Louise Glück, così chiari e limpidi nel dettato, così intuitivi nel creare ponti impensabili tra dettagli disparati, nell’evocare vita e acuto sentire dalla terra nera svelando una vita invisibile che c’è, a dispetto di noi. Anticipo solo che sia leggendo i suoi saggi (ce n’è uno su T. S. Eliot che merita d’esser letto, soprattutto perché vi si parla perlopiù di William Carlos Williams) sia esplorando una parte della sua poesia, ho sentito qualcosa che mi dice (e spero dica anche a tutti voi, se decidete di leggerla oltre il poco che, per ragioni di spazio, riesco a mostrarvi qui) molto più di ciò che appare sotto la superficie quieta che la Glück è riuscita a calcare sulla sua materia poetica. Ho sentito elementi personali della Glück e elementi più vastamente culturali e letterari. Ho sentito risuonare la Dickinson, e Walt Whitman, e Hawthorne.
Intanto il New England. La sua cultura profonda – europea, eppure rivisitata alla luce di una diversa geografia, più aspra, di una diversa evoluzione antropica dettata dal rapporto con quel territorio. Il rapporto con i classici e col mito. Il rapporto con la tradizione. L’austerità e nel contempo la levità. Una spiritualità che è anche cultura, espressione. Nessuna professione di fede. Nessuna religiosità specifica. Ma un colloquio franco e persino impertinente, ribelle, col “padre irraggiungibile” (anche l’irraggiungibilità è un’idea che si è fatta strada ed è stata riconosciuta per dolente esperienza dalla Glück), come una sorta di preghiera che ha un tono inquisitorio, di sfida – in cui la dimensione puritana dell’ambiente e la dimensione ebraica di provenienza trovano punti di coincidenza ma in una chiave che è sostanzialmente laica, e di scoperta della rete fitta e impercettibile che lega tutto il mondo vivente. Una dimensione dello Spirito in senso trascendentalista, e una dimensione di affetti, soprattutto familiari, legati al figlio Noah. Che mondo meraviglioso ci ha schiuso Louise Glück, poeta da leggere piano piano, lasciando che la sua bella voce e il suo sguardo sul mondo ci permettano di vedere tutto ciò che il mondo ci nasconde in ossequio a quella INTIMACY che proprio la Glück ci mostra come modello di vita e sorgente anzi zona franca di poesia.
MATTUTINO
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale – la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa – Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne –
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
MARGHERITE
Avanti, di’ quel che pensi. Il giardino
non è il mondo vero. Le macchine
sono il mondo vero. Di’ francamente ciò che ogni sciocco
potrebbe leggerti in faccia: è logico
evitarci, opporsi
alla nostalgia. Non è
abbastanza moderno, il suono che fa il vento
agitando un campo di margherite: la mente
non può brillare, scopertamente, come
brillano le macchine, e non
crescere in profondità, come, per esempio, radici. È commovente,
lo stesso vederti avvicinare
cautamente il bordo dei prati di primo mattino,
quando certo nessuno potrebbe
osservarti. Più stai ferma al limite,
più sembri nervosa. nessuno vuol sentire
impressioni del mondo naturale: sarai
derisa di nuovo; ti prenderanno in giro.
Quanto a ciò che stai davvero
ascoltando stamattina: pensaci due volte
prima di riferire cosa fu detto in questo campo
e da chi.
FINE DELL’ESTATE
Dopo che pensai tutte le cose,
pensai il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma –
in questo non sono come voi,
non mi appago in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me –
Mie povere ispirate
creazioni, siete
fastidi, in fondo,
mera limitazione; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste scaglie di materia – m
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato per terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve – m
poi luce bianca
non più travestita da materia.
[da WILD IRIS, L’Iris Selvatico – traduzione di Massimo Bacigalupo, Ed. Il Saggiatore 2020]
Va da sé che c’è più gusto a leggere Louise Glück in originale o perlomeno col testo a fronte, come permettono i volumi, L’Iris Selvatico, e Averno, da poco mandati in libreria da Il Saggiatore, l’editore che ormai detiene i diritti su tutta l’opera di Louise Glück, e come era già possibile fare nella precedente, talentuosa edizione di Averno quando per la prima volta il poema è stato pubblicato dalla libreria-editrice napoletana Dante&Descartes di Raimondo Di Maio – in tutti i casi la traduzione magnifica, molto sensibile, è di Massimo Bacigalupo, il quale firma anche una nota critica finale altrettanto sensibile a L’Iris Selvatico. Ma per ragioni di spazio, e proprio perché la traduzione è molto buona, ho dovuto in massima parte omettere i testi originali. Però vi rimando alla lettura dei libri col testo a fronte che via via Il Saggiatore continuerà a pubblicare. Immergetevi fin dove vi è possibile nella poesia di Louise Glück. Leggetela più che potete. Ecco qualche passaggio in originale.
PRESQUE ISLE
In every life, there’s a moment or two.
In every life, a room somewhere, by the sea or in the
mountains.
On the table, a dish of apricots. Pits in a white ashtray.
Like all images, these were the conditions of a pact:
On your cheek, tremor of sunlight,
My finger pressing your lips.
The walls blue-white; paint from thw low bureau flaking a
little.
That room must still exist, on the fourth floor,
with a small balcony overlooking the ocean.
A square white room, the top sheet pulled back over the
edge of the bed.
It hasn’t dissolved back into nothing, into reality.
Through the open window, sea air, smelling of iodine.
Early morning: a man calling a small boy back from the
water.
The small boy – he would be twenty now.
Around your face, rushes of damp hair, streaked with
Auburn.
Muslin, flicker of silver. Heavy jar filled with white peonies.
[Piccola parentesi: qui zampilla la parola “reality”/ la realtà – nel saggio ON REALISM contenuto in AMERICAN ORIGINALITY [Farrar, Straus and Giroux, NY 2017], Louise Glück definisce il “realismo” in letteratura a partire dalla discussione dell’idea di realtà. Immediatamente dopo prende il toro per le corna e si occupa di THE CULTURE OF HEALING, sul fascismo (usa questa parola) dell’ottimismo a tutti i costi, come se la perdita e la caduta non fossero esperienze ma vuoti di esperienza. Tre piccole pagine per ciascuna di queste staffilate. Fulminanti. Nel 2000, uscì volumetto curato da Filippo La Porta e Alessandro Carrera, edito da Baldini&Castoldi, il cui tema era IL DOVERE DELLA FELICITÀ: l’assunto era proprio l’obbligo imposto nelle nostre società occidentali di costruire sistemi felici che disconoscono e considerano inconsistenti o ininfluenti ai fini del valore delle nostre vite tutto ciò che non somigli appunto al modello di felicità e di sperticato ottimismo che esse esigono rimuovendo il “problema dell’infelicità”– fui io la traduttrice dei saggi narrativi delle tre autrici americane –tra cui Cynthia Ozick su Primo Levi con una teoria critica che capovolgeva l’interpretazione corrente su I SOMMERSI E I SALVATI– a corredo dei saggi filosofici dei curatori – il primo titolo proposto all’editore, evidentemente bocciato, era IL DIRITTO ALL’INFELICITÀ].
SUNSET
My great happiness
is the sound your voice* makes
* (come si può rinunciare alla melodia di una voce? –
non bisogna arrendersi, bisogna recuperare la voce!, ndr)
calling to me even in despair; my sorrow
that I cannot answer you
in speech you accept as mine.
You have no faith in your own language.
So you invest
authority in signs
you cannot read with any accuracy.
And yet your voice reaches me always.
And I answer constantly,
my anger passing
as winter passes. My tenderness
should be apparent to you
in the breeze of the summer evening
and in the words that become
your own response.
[da WILD IRIS, L’Iris Selvatico, con testo a fronte – Ed. Il Saggiatore 2020, tr. Massimo Bacigalupo,]
THE NIGHT MIGRATIONS
This is the moment when you see again
the red berries of the mountain ash
and in the dark sky
the birds’ night migrations.
It grieves me to think
the dead won’t see them –
these things we depend on,
they disappear.
What will the soul do for solace then?
I tell myself maybe it won’t need
these pleasures anymore;
maybe just not being is simply enough,
hard as that is to imagine.
CRATER LAKE
There was a war between good and evil.
We decided to calk the body good.
That made death evil.
It turned the soul
against death completely.
Like a foot soldier wanting
to serve a great warrior, the soul
wanted to side with the body.
It turned against the dark,
against the forms of death
it recognized.
Where does the voice come from
that says suppose the war
is evil, that says
suppose the body did this to us,
made us afraid of love–
LANDSCAPE
1.
The sun is setting behind the mountains,
The earth is cooling.
A stranger has tied his horse to a bare chestnut tree.
The horse is quiet – he turns his head suddenly,
Hearing, in the distance, the sound of the sea.
I make my bed for the night here,
spreading my heaviest quilt over the damp earth.
The sound of the sea –
when the horse turns its head, I can hear it.
On a path through the bare chestnut trees,
a little dog trails its master.
The little dog – didn’t he use to rush ahead,
straining the leash, as though to show his master
what he sees there, there in the future –
the future, the past, call it what you will.
Behind the trees, at sunset, it is as though a great fire
is burning between two mountains
so that the snow on the highest precipice
seems, for a moment, to be burning also.
Listen: at the path’s end the man is calling out.
His voice has become very strange now,
the voice of a person calling to what he can’t see.
Over and over he calls out among the dark chestnut trees.
Until the animal responds
faintly, from a great distance,
as though this thing we fear
were not terrible.
Twilight: the stranger has untied his horse.
The sound of the sea –
Just memory now.
2.
Time passed, turning everything to ice.
Under the ice, the future stirred.
If you fell into it, you died.
It was a time
of waiting, of suspended action.
I lived in the present, which was
that part of the future you could see.
The past floated above my head,
like the sun and moon, visible but never reachable.
It was a time
governed by contradictions, as in
I felt nothing and
I was afraid.
Winter emptied the trees, filled them with snow.
Because I couldn’t feel, snow fell, the lake froze over.
Because I was afraid, I didn’t move;
my breath was white, a description of silence.
Time passed, and some of it became this.
And some of it simply evaporated;
you could see it float above the white trees
forming particles of ice.
All your life, you wait for the propitious time.
Then the propitious time
reveals itself as action taken.
I watched the past move … […]
[da AVERNO con testo a fronte: traduzione di Massimo Bacigalupo – I edizione italiana: Dante&Descartes, Napoli / ora Il Saggiatore 2020]
Image: nobelprize.org