“Nerina, Nerina”. “Ma n’duva l’è Nerina?” “Nerinaaa!”. Dalla stanza da letto, la voce stridula della nonna percorreva a corrente il corridoio col nome di mia madre che risuonava martellante e si infilava nelle mie tempie sotto sforzo, nel tentativo di preparare l’esame di procedura civile a forte rischio di bocciatura. La concentrazione andava a farsi fottere con quel trapano fisso. Era allettata da diversi mesi, ma la malattia non le aveva tolto l’energia e la forza. Le concentrava nella voce e nelle braccia, scuotendo il piccolo campanello di bronzo, tanto per sfracassare i timpani. La sua voce era sinuosa, s’alzava e si abbassava, secondo l’occasione. Diveniva dolce e suadente davanti alla cliente di turno o se l’intratteneva al telefono, infarcendo la chiamata di complimenti stucchevoli. Assumeva toni striduli e acuti se si rivolgeva alle figlie tirate su a bacchetta, accantonando il nonno al ruolo di principe consorte. Gentile se c’era uno dei generi. Merce preziosa. Più delle figlie l’aveva conquistati lei a fatica, pazienza e furbizia.
Ricordo quando il nonno era prossimo alla fine, il suo “Giuseppe” a bordo letto, non fu il sussurro addolorato di chi sta perdendo il compagno di una vita, ma suonava come un ordine perentorio a risvegliarsi e a non morire. Come se bastasse quel richiamo a vincere la sorte. Provai fastidio per quel tono che risuonò nella stanza come una nota stonata. Anch’io, accanto al letto, lo chiamavo perché si risvegliasse, ma la preghiera restava nel silenzio del cuore. Forse non lo aveva mai amato il suo Giuseppe. Lo aveva scelto, con il senso pratico con cui affrontò la vita. Per lei era venuto il momento di mettere su famiglia e quell’uomo, bello e buono, andava bene alla bisogna. Ci ho messo molto per imparare il poco che so dell’amore, ma quello che mi è chiaro è che si può amare e odiare qualcuno. Quello che provavo per la nonna in certi momenti assomigliava all’odio. Ne provo senso di colpa, ma non ci potevo fare nulla. D’altronde, non faceva molto per farsi amare e non so se abbia mai avuto sentimenti che abbiano superato il semplice affetto. Aveva mandato avanti la baracca, sgobbando, senza risparmiarsi anche prima che il marito si paralizzasse e divenisse un peso da accudire. L’amore per il denaro era lo stimolo che dava forza ed energia al suo “lavurar”. Un sentimento maturato nel bisogno in cui aveva trascorso l’infanzia. Per lei i ricchi “i signur” avevano tutte le qualità e nei loro confronti si sentì sempre serva. Con questa filosofia misurava la vita e dava valore alle persone. Di qua loro, di là i poveri. Rifuggiva dal suo passato di privazioni, non risparmiandosi. Forbici, ago e filo. Con la Singer che spandeva puzzo d’olio e scandiva il ritmo della casa. Rammendava, rivoltava abiti, adattava “robe”, per corpi storti e deformati di clienti decrepite e avare, perché con lei si risparmiava. A questo guadagno aggiungeva quello dell’affitto delle stanze. La grande casa, nel tempo, s’era svuotata per matrimoni e lutti e lei affittava, senza farsi troppi scrupoli sugli inquilini che ci metteva dentro. Accasate tre figlie, con lei restò solo mia madre. La figlia sfortunata, vedova presto e con tre figli. La femmina si sposò e la stanza ebbe un nuovo inquilino.
Aveva 75 anni, quando le diagnosticarono un tumore all’utero “A questa età operare è un rischio, ma il decorso sarà lento”. Prima che il male la costringesse a letto, aveva continuato a lavorare, incurante di quella cosa che aveva dentro e che, all’inizio, dava solo problemi d’incontinenza. Per questo aveva ridotto le uscite. Prima il lavoro lo portava dalle clienti. Poi, fu costretta a pregarle di mandare qualcuno a ritirare perché non stava bene “una cosa passeggera signora”. Ci fu l’ennesimo “Nerinaaa” che risuonò nelle mie orecchie. Mi decisi ad andare io, per porre fine a quello strazio. La cosa mi pesava perché mi detestava. Ero il nipote che vestiva strano e portava i capelli lunghi sulle spalle. Per lei che stravedeva per la gente “a posto”, ero la pecora nera di cui vergognarsi. Me lo gridava in continuazione. “Te sembri un mascalzun, con quei cavei, cosa dirà la gente? Sei el signur dei disgraziat. Anca se te met una veste d’oro, con quella testa pari un mort de fam”. Questa era la cantilena ricorrente, urlata con disprezzo, con cui mi perseguitava. Otteneva l’effetto opposto perché, per nulla al mondo, l’avrei accontentata. Allora ci provava con quella povera vittima di mia madre, per ferirla, sbraitando perché non si sapeva imporre. L’ennesimo richiamo mi arrivò in faccia mentre entravo nella sua stanza. La nonna sembrava una matrona su tre cuscini nell’enorme chippendale. I capelli s’erano imbiancati ora che non li poteva più unguentare con i suoi strani intrugli. “Ma n’duva l’è tua madre che è da stamattina che la ciamo? “Di cosa hai bisogno, nonna?” “Ho bisogno di tua madre! Prima l’è venuda, ma nun gà sentì e gò provà anca a darle na sberla, ma nun l’ho ciapata”. Mia madre, che, tra le tante sfortune, era anche sorda, quando stava a casa, per risparmiare le pile, toglieva l’apparecchio. Lo metteva solo se avevamo visite o se doveva uscire. Si vergognava di quel conchiglione dietro l’orecchio e lo nascondeva con i capelli. “Posso aiutarti io? La mamma sta in cucina”. Cornelia rispondeva con aria schifata: “Quando vai a tosarti quei cavei?” “Devo chiamare la mamma o posso fare io?” “No! gò bisogno di tua madre”. Spesso non ricordava il motivo per cui la cercasse. Forse voleva essere solo udita, non ascoltata. Odiare qualcuno, l’ho detto, è un sentimento che vuole libertà, come l’amore. Nel tempo l’istinto che tocca le tue corde vorrebbe l’equilibrio della comprensione. Nella vita si rende quello che si ha avuto. Cornelia, presente ormai solo nei miei incubi notturni, nella sua esistenza, portata avanti come un bastio, forse non poteva dare altro. Quella era l’unica forma di vita che aveva conosciuto.