Giovanna Sicari

Una figura dolce – poeta importante che ha lasciato il pianeta presto, però anche un segno profondo e delicato nella poesia italiana

Quante fortune capitano nella vita, quanti incroci imprevisti, quanti incontri rari.

A me è capitato di essere tra i poeti inediti (cinque) scelti come vincitori della I Edizione del Premio Dario Bellezza, nel 1997, e di avere come madrine di poesia Giovanna Sicari, Sara Zanghì e Luce D’Eramo. Tuttora conservo di tutte loro un ricordo vivo legato anche a Gabriella Sica e al fatto che attorno ai “lavori” del Premio Dario Bellezza I Edizione ci trovammo a casa sua dove già avevo messo piede qualche altra volta: Gabriella Sica è sempre stata protagonista della scena poetica anche per aver saputo legare tra loro i poeti, vecchi e nuovi. Dunque intendo parlarvi qui di Giovanna Sicari, a me molto cara, una figura dolce – poeta importante, che ha lasciato il pianeta presto, ma anche un segno profondo e delicato nella poesia italiana.


Vorrei baciarti il sangue


Vorrei baciarti il sangue

amore mio, e ancora fare andare

le dita nel vento, accarezzarti i capelli, la fronte

sentirti dentro l’aria

dentro il ventre, sentire

come è leggero il vento

e come apre le vie

e come tutto sembra possibile

sapere quanto possa

l’amore con la saliva e il silenzio

curare dalla fonte.


[Da Poesie – 1984-2003, Empiria 2016 (curatela Roberto Deidier]


Gennaio riscalda già l’aprile


Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce
ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre
e i fuochi alle finestre attendono
ciechi l’aprile.
Fosse rabbia fosse caldo questo continuo
sentirsi rapinati: ladro alle spalle
magazzino superfluo
e noi così superbo aspettando
l’ora di una comparsa
avremmo da dire
da fare, nelle mani
fretta, desiderio
fosse questo giorno chiaro di gennaio
il perno degli anni che non danno pace.

***

Il piccolo essere sotto la coperta domanda
e io mi oppongo e non mi sento degna,
masse d’aghi e spilli mi sottraggono
al corpo. Sono arrivati con una valigia
gli estranei e chiedono di me
non si sa chi sia la madre o il padre
bisognerà andare fra loro, chiedere
dei loro morti, farli rivivere adesso.


[Da Epoca immobile – postumo: Jaca Book, 2004]


Giovanna Sicari, tarantina di nascita, a 8 anni (1962) con la famiglia si trasferì a Roma, a Monteverde – e, come giustamente qualcuno ha fatto notare, aveva un modo di pronunciare il nome del suo quartiere come fosse “un talismano contro infelicità e timore”, come un antidoto a un senso dissennato di correre e sparire del tempo, a un senso di sottrazione di ciò che è caro che diventa allo stesso tempo rapina che incombe e ricordo dolente, o forse più propriamente carico stipato nella coscienza e nel sentire che poi, appena le combinazioni si allineano, salta fuori e riemerge dalla nostalgia e dalla memoria ineludibile.

Giovanna Sicari è stata moglie di Milo De Angelis: insieme

hanno composto una raccolta di 19 testi poetici dedicati al figlio Daniele.


io mattatrice presa nel mezzo di un falso movimento
non merito un buon pianto una buona recita,
sono madre di media grandezza
come Don Chisciotte contro il vento nemico della tua nevrosi
malattia di un tempo che non è più infanzia e religione
io oramai sono fottuta da questo tuo stesso tempo che non mi vuole
ma ugualmente lascerò mappe delle mie singolari prigioni
se i suoni contageranno i sordi mi darò alla macchia
il silenzio sarà quello prima della battaglia.

***

Persino improtetta, facendo ricorso
alla massa di luce del cielo, qualcosa
si accendeva ribelle alla fine del male.
Si scartava il tempo di una giornata
piovosa, il resto pioveva magnifico
fra le piante e il ponte. Questo
costituiva il tempo, l’unità del tempo.


[(G. Sicari) da Milo De Angelis, Giovanna Sicari, Non solo creato. 19 poesie dedicate al figlio Daniele, Crocetti Editore]


Le raccolte di Giovanna Sicari più significative sono state: Viaggio clandestino (Siena 1984, Quaderni di Barbablù, n. 1,), Sigillo (Milano 1989, Crocetti), Uno stadio del respiro (Milano 1995, Scheiwiller, Premio Dario Bellezza e premio Ceppo), Nudo e misero trionfi l’umano (Roma 1998, Empirìa), Epoca immobile (postuma, 2004 Jaca Book) – soprattutto ora tutta la sua produzione è riunita nel volume Poesie 1984-2003 (Roma 2016, Empirìa – per la cura di Roberto Deidier). L’azione poetica di Giovanna Sicari è cominciata proprio negli stessi anni in cui si formarono due gruppi e due corrispondenti riviste di cui abbiamo detto qualche puntata fa: Prato pagano e Braci. Rispetto a quanto documentato dalle due esperienze, la poesia di Giovanna Sicari pare rifuggire decisamente dal prevalente indirizzo rurale e nostalgico della natura che i suoi contemporanei paiono condividere, e molti sono i nuclei da mettere in evidenza mentre due sono le inclinazioni sostanziali che paiono emergere dall’intera (purtroppo breve) esperienza poetica della Sicari.

Intanto si diceva del tema del tempo, ma dobbiamo accennare anche alla questione bene-male, profondità –superficie, polpa-involucro, fattasi pressante a un certo punto per ragioni dettate dalla malattia.Però per uno strano meccanismo di contrappasso la scrittura che per lungo tempo era stata convulsa e affollata, e aveva mostrato un ritmo martellante, si fa invece poi più lenta, più chiara e piana, e molto incalzante ma con minor parossismo lirico attorno ai nodi fondamentali dell’esistere. E poi c’è un’altra faccenda da tirare in ballo: il cosiddetto “significazionismo” attribuito alla poesia di Giovanna Sicari da Giorgio Linguaglossa che sottolinea anche la stretta corrispondenza dell’espressione poetica di Sicari con Osip Mandel’stam, il grande poeta russo che a un certo punto profetizzò e suggerì la formulazione di una “poesia da camera”, e dunque anche la valenza “diversamente politica” ravvisata nella poesia della Sicari, pur dotata di venature metafisiche se non iperrealistiche.


Sognavo che ero morta e camminavo
l’ignoto scandiva impeti e campane
l’ignoto, quando tutti seguono la legge
dà la vertigine, una macchia il sole
all’improvviso, ricordava tracce di ideali:
penitenti bagnati sull’asfalto
accarezzano aria.
Seguitemi – dissi – ho mani divise
cerco un insensato forte luogo
di alghe e sesso
dove lo scenario ha puri battiti sfrenati
coperte nuziali ricamate di cielo.

***

Non ho che cosce dure e capelli di ferro, l’amore è una risata
sarcastica, l’amore dal petto caricato di un prestigiatore
attende che il petto sia una mareggiata
che arrivi alla gola e bussi e crepi.

***

Il parolaio tace, i fatti
sono fermi impietosi, non posso chiamare
il dire é pietoso,
da una finestra scorgo una specchiera,
forse sarà lì la mia casa,
sempre in quel minuto sereno
dove piangono altri, dove premono
altre certezze e gridano le voci di dentro.
Io, caos umano, vivo nella gioventù
di altri: fanciulli senza colpe si scambiano la lingua
la lingua brucia in un soffio il loro giorno compiuto.
Io lavoro lavoro in tre spazi divisa.

***

Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce
ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre
e i fuochi alle finestre attendono
ciechi l’aprile.
Fosse rabbia fosse caldo questo continuo
sentirsi rapinati: ladro alle spalle
magazzino superfluo
e noi così superbo aspettando
l’ora di una comparsa
avremmo da dire
da fare, nelle mani
fretta, desiderio
fosse questo giorno chiaro di gennaio
il perno degli anni che non danno pace.


-oppure versi come estreme coraggiose espressioni in poesia della scoperta di una verità sul nostro essere tutto e niente: il nostro ostinato interrogarci sul destino e sul senso resta indomito fino all’ultimo soffio.

Dal lago quaggiù…


                                                                             Per G.P.

Fuori scivola sulla lucida lastra, dentro dondola il legno
quaggiù, vedete rotola su di un carro bianco, è ordine di
sbarre, di marmi, di mani: bianche e lucide ali sui vetri!
Ora è segno, ora è sepolto, l’ordine trema al suo pasto
non è azzardo, né slancio e acrobazia, dà la precedenza
soltanto ai trapassati – si muovono e la voce si sdoppia –
parlano dopo nati per ritornare vivi – E’ un sogno
qui nella stanza restate, restate come nel sogno:
dite chi è di ostacolo all’anima mia? Cosa si sovrappone
al canto troppo soave della guru?

                                                                              aprile 1996


Per avere un’idea del senso e del significato del gesto poetico per Giovanna Sicari, e per comprendere quale ruolo significativo la Sicari attribuisse al poeta, è bene partire proprio dalla prima plaquette, Decisioni, del 1986, che fu di importanza addirittura vitale per la Sicari, al punto che pubblicarla, a quanto pare, ebbe il merito di salvarle la vita, o perlomeno di non farla impazzire – raccolta che appare determinata e intensa, densa, come spesso era, si diceva, soprattutto la prima poesia di Giovanna Sicari. Eccone qualche esempio:


Le api formano un ricordo,
un frammento limita il galoppatoio,
con violenza il brivido della carne mi tarla:
immorale primavera della notte.
Con devozione una goccia di sangue
corre lungo gli usci,
nella serra dorata vedo il mio corpo bianco, arso dal livore.
Con ignoti sonnambuli sono qui, Mozart è mio amico,
un derelitto, un’insana meraviglia mi accompagnano.
Non è una rosa romantica l’impaccio di una festa
nel blasé di un caso con altri fiati nella campagna sfrangiata:
galoppatoio di festa per un gesto solo.
Mi dicevano la bugia chiusa
le anziane famiglie risorte dalla polvere dei santini.
Dalla bugia chiusa il diavolo arpeggia
e io sono qui a volere il non voluto,
come una seduttrice ambigua, non ho viandanti particolari.
Mozart è mio amico, forse un poeta assassino, un vero poeta
mi ha regalato un flauto talismano.
Ma non è limite: un segno diabolico, poco poetico.
Bonjour mon amie, non è presente
ma potrei complice avvolgerti nell’eterno sfinito.

***

Ortolana io scrivo per brama di controversie
assembramento di tegole al liceo
tacchi a spillo, mi davo un contegno.
Costretti a scappare, come se io fossi
una maga, paura di tristi compromessi.
Documentari sfatammo tra le foglie della
pestilenza. Dietro un’apparenza intrattabile
la mia storia cadeva da una arte
come un filo grosso d’erba.
Troppo cresceva, e le adunate
si mischiavano al delitto della terra.
Come un groviglio ingoiavo, confondevo.
Mi appariva normale spiare la musica
e i ponti, le camicie appese ai quadri.
Solo per un attimo, fra le oche presenze
la sua, confusa nel respiro.

***

I gendarmi ignoravano le sere cadute di marzo
li vedo tutti come amplessi serali
e anche dal marciapiede salgono senza
libertà destini amorali
Con la pancia simulata di nessuna maternità
scelsi fra gli angeli il più bello.
Mi colse la tranquillità
non la vedevano gli amici, per timore
di una brutta faccia
– Ho fame – con buon senso.
Ho fame io che fingo per un motivo di orgoglio
che vuole dire questo dire bianco
mentre scappa dai folli
e si solleva per lo spettacolo della vigilia:
dov’è il gallo della mattina
il massacro di un pied-à-terre farneticante
e la cucina della mamma.
Dov’è la pietra di onore della mia ottusità
nel fallo della veglia spezzata
di video cretino e stanco, – dov’è -.

***

Mattino aperto è questo che si vive come in guerra.
Per quanto si udisse dovevo starmene
nel piede imbastito, dal correre per puro caso.
Nel racconto di querce, un bacio, montagna di acqua-lucida,
luci da montagna, frutto-granito di bambino quieto,
uomo leggero nella gabbia del senso.
Dovevo starmene senza giudicare
un vano lago, corollario di fango avvampavo la terra.
Lodarti, festeggiare un mistero,
una preferenza infantile di roccia,
dispersa la traggo, io nuda senza ritorno
in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe,
cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale.
Se non fosse stato olio o resina o grazioso veliero,
non sarebbe stato questo svegliarmi
alterno a leggende, meandri, paesi.


Giovanna Sicari, migrata da Monteverde a Milano sul finire degli anni Novanta, ha lottato con un male che l’ha riportata a Roma e l’ha poi sottratta alla vita e alla poesia neppure a cinquant’anni. La raccolta Tema dell’addio di Milo De Angelis (2005) è dedicata a lei. E ora com’è giusto una messe finale di versi.


In tua assenza


Non c’è niente da temere
su quell’unica trapunta giacciono solide valigie
l’ultimo pensiero degli arabeschi del pomeriggio
è un manoscritto di quest’era senza usignoli:
sopra il borbottio barocco,
L’infinito arpeggio del mondo civile,
morente alla frontiera.
In tua assenza è l’incontro con i forestieri
più neri dei corvi
più bianchi dei cigni.
Tu sei senza archi
sei una lumaca molle.
Non faccio resistenza
sono sordamente epilettica,
il mio freddo gravita nell’orbita solare
fuori campo in questa scena.
Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

***

Erano curve le loro vene


Appoggiata appena allo schienale
ero là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più giù della scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano.


[da Sigillo, riedito da Donzelli nel 2019 con una introduzione di Giancarlo Pontiggia e una nota di Milo De Angelis, mentre le poesie che seguono sono tratte dalla Sezione La madre, sempre all’interno di Sigillo, già nell’edizione Empiria 2016, Poesie 1984-2003, curata da Roberto Deidier]


Per giocare d’azzardo mi ubriacavo, andando là per sovvertire
non c’era l’eco dei tuoi passi, tra cielo e monti
il rantolo della giovinezza: gioventù che piuttosto di morire ti ucciderà!
Nella stanza, nella clinica, nell’orto l’ordine vero dei ciechi
cambiando il posto alla mela inondavo di sperma il mare
cieca del buio disperando di trovare non trovavo né te né me
cercavo e trovavo mia madre
sul letto ti volevo ma non c’eri: ninnoli e cappelli i miei biberon!

***

Non c’è che nebbia dal tuo balcone, non è schermo d’azione
averti creduto padre teologo, sposo maestro,
non sono né tua figlia né tua moglie, un figlio non era evento
di potere o di sesso ma entusiasmo di farti vivere in me
non per il razzismo dell’amore, non per l’invidia della
mia anima spartana. Figlio di tante madri diurne e folli
e di tanti padri banditi e rivoluzionari
nati in un punto del cosmo equatoriale
ma tu figlio amore che non vuoi che tuo figlio nasca
perché non giaci su di una branda da corridoio,
segnati per sempre nella cronaca dell’astinenza
dite che ignori il freddo sotto il legno della bufera
non voglio più niente saperne, ora dormo
te lo dica un’altra cos’è lo scampanio
di una minuscola fiamma che di lato arde.

***

Non so quale vampiro ti ha lasciato esangue
quale terra staccarti dal corpo
e in più sapere che non comprendi.
Ho pregato per la mia morte pari
a quella del bambino consegnato ai cani,
ho pregato che la tua infantile malattia
fosse data in pasto a chi ha sangue, il sacrificio
che chiede Dio è l’esecuzione di una domenica d’aprile.

***

Ti ho sognato con una divisa allegra da marinaio
giungevi come l’uomo pietoso, dentro la schiuma morbida
toccavi con calma evitando le ferite, ogni giorno
iniziavi la discesa, bruciavano le ferite
ma le vette aprivano drappi e buchi
per istinto uniformi.

***

Non è per ingannarti mammina, che sei svanita in me
come essenza sbagliata, non hanno tono melodico queste
povere idee confuse che nella giovane età si chiamavano
arcane armonie, divina madre che fingi senza conoscere
e tratti conoscenze fingendo una frase smorzata,
da te son nata ma lascia che quel marinaretto in divisa
mi porti dove pur si respiri lontano dalla tua acqua.

***

Sognavo che ero morta e camminavo
l’ignoto scandiva impeti e campane
l’ignoto, quando tutti seguono la legge
dà la vertigine, una macchia il sole
all’improvviso, ricordava tracce di ideali:
penitenti bagnati sull’asfalto
accarezzano aria.
Seguitemi – dissi – ho mani divise
cerco un insensato forte luogo
di alghe e sesso
dove lo scenario ha puri battiti sfrenati
coperte nuziali ricamate di cielo.


[Tutto ciò che non rechi indicazione diversa è da ricondursi a Poesie – 1984-2003, Empiria 2016 (a cura di Roberto Deidier)]


La foto di Giovanna Sicari in questa pagina è di Dino Ignani http://www.dinoignani.net/

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