Ero in terza media l’anno che mia mamma andò ad insegnare alla scuola speciale.
Aveva scelto quella sezione per bambini spastici per potersi avvicinare a casa dopo anni di pendolarismo in una scuola elementare della provincia.
Nonostante non potesse insegnare granché ai suoi nuovi alunni, mi raccontava sempre di loro e insisteva che prima o poi la andassi a trovare dopo la scuola, soprattutto per farmi conoscere una mia coetanea, la Bea.
Dicevo di sì, ma poi rimandavo, sospettando che non sarebbe stata un’esperienza da poco.
Un giorno cupo di gennaio, di buon umore per un inaspettato otto in matematica, decisi che mi sentivo pronta per passare a conoscere quei ragazzini.
La scuola speciale era proprio sulla strada di casa, dentro un palazzone anonimo. All’ingresso c’era una targa che diceva “CENTRO SPASTICI”.
Entrai in punta di piedi nell’atrio deserto e rimasi un po’ ad ascoltare i rumori che venivano da dietro la porta.
Non era il brusìo di una classe, quello lo conoscevo bene, e nemmeno il vociare scomposto che si creava durante la ricreazione.
Erano versi, lamenti sovrapposti. Uno, dal tono più grave, aveva una cadenza ritmica e faceva da base alle altre voci più acute.
Rimasi un po’ lì, con le orecchie tese e il respiro trattenuto ad ascoltare quei suoni, finché la mia mano non girò la maniglia e mi trovai in un salone grande e luminoso col pavimento verde.
Mi investì un’ondata di odori caldi, un misto fatto di qualcosa che sapeva vagamente di scuola: mensa, linoleum, legno. Sopra, aleggiante, un sentore di cacca appena fatta.
C’erano delle sedie a rotelle con lo schienale alto, e passeggini più grandi del normale.
E sui passeggini e sulle sedie bambini in pose strane, semisdraiati, inarcati, con le teste reclinate troppo avanti o troppo indietro, chi con lo sguardo perso, chi con un filino di bava che pendeva dalla bocca.
Il lamento cadenzato che avevo sentito da dietro la porta proveniva da un ragazzino più grande. Se ne stava accartocciato sul suo passeggino gigante, con le mani rattrappite, preso dal suo lamento, interrotto solo per un momento dalla mia presenza estranea. Aveva un accenno di baffi sul labbro superiore: mentre pensavo che doveva essere ben più grande di tutti gli altri nella stanza, vidi che mi fissava e piena di imbarazzo distolsi lo sguardo.
Quello che avevo visto e sentito era sufficiente per girarmi e tornare sui miei passi quando in fondo alla sala avvistai la mamma che mi faceva segno di andare da lei. Mi venne incontro e mi abbracciò, poi mi disse: “Sei pronta a incontrare la Bea? Ti sta aspettando, è là” e indicò una di quelle sedie fatte a seggiolone.
La sedia era girata, vedevo solo lo schienale alto.
La paura che mi venne la ricordo bene. Mi teneva il respiro corto e i piedi incollati al linoleum verde. Era fatta di molte paure che sgomitavano per avere la meglio su di me: di quello che avrei visto, di non poterlo sopportare, di non saperlo nascondere, del dolore, della malattia, insieme ad altre subdole e minori. Per affrontarle non avevo esperienza né risorse, ma per il fatto di essere ancora un po’ bambina disponevo di un buon antidoto: mi agganciai alla bella faccia di mia mamma, e guardandola riuscii a fare i pochi passi che servivano per girare intorno al seggiolone. Legata allo schienale c’era una ragazzina luminosa, una creatura potenzialmente bellissima costretta da spasmi continui che la facevano inarcare e agitare in maniera scomposta su quella sedia.
E mi sorrideva.
Aveva un faccino piccolo, chiaro e occhi verdi da gatta selvatica. E i capelli erano grossi, biondi e striati, solo un po’ schiacciati sulla nuca nel punto in cui ogni tanto la testa le sbatteva sullo schienale.
La paura era passata. Al suo posto un magnetismo, una potente attrazione.
Bea voleva comunicare, incurante di riuscire a produrre spesso solo suoni disarticolati, e presto imparai a trovare le parole dentro quei suoni.
Cominciai ad andare da lei sempre più spesso, passavo a trovarla dopo la scuola col piacere di stare insieme a lei, attratta dalla sua forza, gratificata dal suo amore incondizionato, dal suo magnetismo, dalla sua dolcezza.
Pian piano iniziai a conoscere anche gli altri bambini, la maggior parte di loro chiusi in un guscio di dolore, o di rabbia. Li salutavo tutti chiamandoli per nome, mentre andavo da lei, in fondo a quel salone.
Bea mi cambiò. Mi regalò l’occasione di fare un passo oltre i miei confini per entrare in un mondo diverso, separato dal mio da una membrana di dolore e di difficoltà. Agganciata alla sua mano fredda, alle sue dita contratte, imparai a sporgermi al di là di quella membrana, a non avere paura delle persone diverse da me, a cercare altri modi di comunicare oltre alle parole, a usare tutti i sensi a mia disposizione per sintonizzarmi con gli altri.
Se la cerco nella memoria, oltre alla sua bellezza un po’ selvaggia, sento il suo profumo. Mia mamma diceva sempre che a differenza di altri ragazzini un po’ trascurati lei era sempre in ordine, ben lavata e curata. Ma quello di Bea non era profumo di sapone o di shampoo.
Non profumava così nessun altro ragazzino in quella scuola speciale, non la bella Fabienne, del tutto inconsapevole di essere vestita con abiti firmati, non Antonio, cieco dalla nascita e con le mani sempre a pasticciarsi le parti intime, non Gino, afflitto dalla distrofia muscolare e rapito dal suono di una parola nuova che ogni giorno ripeteva come un mantra, non Maurizio, il ragazzo baffuto che avevo sentito lamentarsi il primo giorno e tutti gli altri in cui lo vidi.
Bea aveva un odore chiaro, una nota alta, un misto tra il profumo che hanno i cuccioli e quello dell’aria ad alta quota. Lo sento ancora, se mi concentro la percepisco ancora vicino a me.
Ma se cerco altro, di lei, ecco che arriva lo sconforto.
Mi sento come quando si perde qualcosa di prezioso per incuria e dabbenaggine.
Cerco l’ultima volta che ho visto Bea, un momento di saluto, e non lo trovo.
Metto insieme pezzi di ricordi per ricostruire i fatti: so che mia mamma alla fine di quell’anno scolastico venne richiamata alle elementari e accettò subito l’incarico. So che dopo l’esame di terza media andai in crisi e passai l’estate ombrosa e immusonita, senza amiche né cugini, perché i miei avevano venduto la casa al mare. So che poi andai al liceo classico e che fu molto dura per me ingranare con il greco, e che i miei pomeriggi divennero infinite maratone di studio in cui annaspavo da un’interrogazione all’altra con la sensazione permanente di non farcela.
Nessuno di questi motivi ai miei occhi di adulta però dà un senso al fatto che io mi scordai di Bea, delle sue mani e del suo profumo di creatura magica, con la leggerezza incosciente con cui i ragazzini dimenticano le cose importanti.