TANDEM #4
GABRIELLA SICA
(con lei anche noialtre, tutte strette, ma non ristrette, nella MillyBand, girotondo attorno a Emily Dickinson)
Provo ad abbracciarvi uno per uno
nella grigia sotterranea nube
tre volte mi avvicino a voi
miei amati miei cari amici
larghe apro le braccia
nella fitta gravosa coltre di nebbia
stringo fumo e vento
fino a che mi sveglio
Ricordando il sogno e il vento
con le mani vuote al petto.
Non altri che me abbraccio
non altro rimane di quanto è stato
se non il radioso ordito di un sogno
affollato di volti fatti d’aria.
TU IO E MONTALE A CENA è il recente e dolente libro pubblicato da Gabriella Sica con InternoPoesia :
40 poesie per 40 giorni, più 2 prose più altre 2 poesie, raccolte sotto il titolo di uno dei testi in cui il momento conviviale è indice di un rovesciamento: l’amico che in genere è ospite la ospita per una volta. Il testo qui in apertura si trova qualche pagina dopo, ed è esemplare dopotutto della scrittura poetica della Sica: in questo sogno/incubo, la perdita personale assume una dimensione allargata nel gesto dell’abbraccio cui s’intreccia un motivo virgiliano, come Enea nell’Ade che prova più volte senza successo ad abbracciare il padre Anchise così l’io del testo deve arrendersi a stringere fumo e vento, nella visione di una folla di volti fatti d’aria – sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta: il grido, avvilito verrebbe spontaneo. Gabriella Sica invece nella seconda delle due prose in coda al libro, disarmata e ragionevole scrive:
Quello che una vita è stata. Solo la morte consente la piena espressione di una vita.
E una vita perviene al suo compimento senza lo sguardo definitivo di chi l’ha vissuta.
Questa vita del “dopo” rivive nello sguardo di un amico che a tastoni raccoglie i segni
più forti e ricorrenti, le tracce involontarie, i moti e gli affetti e prova a fare altra poesia,
nella continuità del vivente [pag. 80]
Il libro è tutto dedicato a Valentino Zeichen, il poeta fiumano che, come ci ricorda la Sica, ha lasciato il segno restando fedele al proprio cognome, venne a Roma bambino col padre, giardiniere del parco di Villa Borghese, e ha abitato sempre nella sua baracca al Flaminio per non allontanarsi mai dalla sua nuova patria familiare romana,
LA BARACCA
È una leggenda la baracca a Roma
sta in un vicolo cieco sulla Flaminia
all’ombra di una collina di pini
nel cielo celeste alti intagliati
più sotto macchie gonfie di lecci
e mimose come in un bel quadro
la specola resiste all’assedio al tanto
ha un’economia infinitesimale
nel centro della città eterna
è una misera fragile frontiera
al confine della magnificenza
intorno parcheggi mercati studi
al sole brillano le lamiere sui tetti
in un giardinetto da poco recintato
su una logora sedia di legno
siede pensoso sul da farsi il poeta
lì coltiva una coppia di piante
un fico e una vite americana
tre steli di lillà penduli in trionfo
lì c’è una catasta di legna secca
che pare un’installazione
quando fa freddo e ha un’idea
spezza un tronchetto
lo infiamma nella fornace di Vulcano.
Sta nella sua officina il fabbro romano
crea e vende manufatti originali
di una lingua povera elementare
minima e assoluta poco melodiosa
dove il fulmine è radice e fine
inesorabile e sferzante fa nido
a un emblema a un segno.
Privo di tutto laconico operoso
fino all’ultimo respiro
non sta dove si può vivere una casa
vera lui non la vuole
quel poco cura solo il poco
esule come si sente con i suoi morti
ascolta qualche tortora che canta
mette un po’ di briciole sul davanzale
ravviva l’ingegno e il fuoco
prova qualche pianta a travasare
ma sono travasi di parole e versi
fa come suo padre il giardiniere
con gli altri suoi semi
tiene su le quattro ossa e la fornace
scolpisce un’opera concettuale
icastica della Casa del poeta
incarnata a Roma di tutta la vita.
Potrei dilungarmi e farvi notare la miriade di gemme che pippiano in questa poesia: i cieli celesti di Claudio Damiani, il forgiatore di parole e versi che richiama l’omaggio di T S Eliot a Ezra Pound detto ‘miglior fabbro’ dal poeta angloamericano, l’allusione al lato whitmaniano di Valentino Zeichen che consiste nella formazione elementare – preferisco fermarmi qui nell’analisi del testo per riportare altri versi tutti dedicati a dare conto della qualità graffiante della poesia dell’amico Zeichen:
VALENTINO AL VETRIOLO
più che a Gozzano
dopo la Scuola di Francorforte
(come burbero scriveva il Paglia
pensando al minimale
per valentinozeichen caro)
io ti somiglio al caustico Cardarelli
non so se più in dissidio con sé stesso
o con l’altro di turno
e più al bastian contrario Bernhard
sempre e per partito preso
Valentino coriaceo al vetriolo
stai nella tua area di rigore
gelida area di esodo corrusco
di esilio da persone e cose
dove giocando in contropiede
strappi reticenze e predace pezzetti
d’anima ai poeti
impertinente pensando al massimale
e come un guanto lo rovesci
in punta di fioretto
nel tuo veemente duello mentale.
Un omaggio clamoroso al caro amico in cui è nominato l’altro vertice della loro amicizia poetica e triangolare, priva di languori stendhaliani: il Paglia (Pagliarani), prefatore di Area di rigore, raccolta d’esordio di Zeichen nel 1974. Però voglio anche mantenere la promessa fatta nello scorso contributo su Emily Dickinson e Amelia Rosselli: fornire il testo intero di J601 e la sua traduzione firmata da Gabriella Sica:
A still – Volcano – Life –
That flickered in the night –
When it was dark enough to do
Without erasing sight –A quiet – Earthquake Style –
Too subtle to suspect
By natures this side Naples –
The North cannot detectThe Solemn – Torrid – Symbol –
The lips that never lie –
Whose hissing Corals part – and shut –
And Cities – ooze away –________________________________
Un’immobile – Vulcano – Vita
Che baluginava nella notte –
Quando era abbastanza scuro
Perché la visione non fosse offuscata –
Una quiete – Stile Terremoto –
Troppo in braci perché la possa vedere
Chi sta questa distanza da Napoli –
Il Nord non sa comprendere
Il Solenne – Torrido – Simbolo –
Le labbra che mai mentono –
Coralli sibilanti che si aprono – e si chiudono –
E Città – che nel fango spariscono –
Si tratta di una delle 56 poesie ritradotte da Gabriella Sica per una preziosissima rivisitazione della nostra cara Emily Dickinson raccolta in EMILY E LE ALTRE – L’Anima sceglie i suoi Compagni, libro edito da Banda Larga, marchio editoriale Cooper (Roma, settembre 2010). LE ALTRE del titolo, cioè le altre componenti della MillyBand, la brigata di sodali dickinsoniane (non tanto o solo tra loro quanto soprattutto verso lei, verso Emily, cioè ‘zia’ Milly) sono le sorelle Bronte (di cui la Dickinson era devota lettrice), Elizabeth Barrett Browning (poeta potente di cui Emily era pazza), Margherita Guidacci (di cui si è detto in TANDEM #2), Elizabeth Bishop («reticente, ellittica, obliqua», perciò quale miglior Maestra di ED, che in J1129 dice: «Tell all the truth but tell it slant / Di’ tutta la verità ma dilla obliqua»?), Cristina Campo (nata Vittoria Guerrini, discontinua e folgorante nell’avventura di traduttrice di ED e di poeta, morta più o meno alla stessa età della poeta di Amherst, Massa.)), Nadia Campana (Nadiella all’anagrafe come si legge nella tesi discussa a Bologna nel ’77, suicida a soli 30 anni), Amelia Rosselli (di cui si è detto in Tandem #3, e perfettamente in sintonia con lo Stile-Terremoto della poesia qui sopra riportata), Sylvia Plath (che proprio Amelia Rosselli, riporta la Sica, ha legato a ED in un nodo di virile femminilità, dopo aver trovato una felice corrispondenza per il termine dickinsoniano illocality in italiano: illocazione per intendere la sparpagliata dislocazione di tutte costoro, noi comprese, nello spazio-tempo che galleggia e ruota attorno a ED).
Un libro importante, questo EMILY E LE ALTRE, su cui con Gabriella Sica si è conversato a suo tempo in un’intervista in cui si fece riferimento aperto alle api operose che alla Dickinson molto piacevano e alla sua poesia sororale. Appartiene a quel suo filone di amicizia poetica che spesso la lega agli altri poeti e poi frutta esperienze letterarie epocali – come fu per la rivista Prato Pagano che Gabriella Sica ideò e realizzò tra la fine degli anni Settanta e il decennio Ottanta proprio allo scopo di individuare quella terra di confine editoriale rispetto al mainstream in cui i nuovi poeti, giovani e tutti importanti (oggi sono LA POESIA italiana contemporanea) potessero pubblicare liberamente: in un filmato di RAI Cultura presente in rete la Sica racconta come è andata. E ora su Rai Play è disponibile una serie di sei video girati col regista Gianni Barcelloni intitolata POETI DEL ’900 (Ungaretti, Montale, Saba, Caproni, Penna, Pasolini): una riproposizione che dimostra, come dice la stessa Gabriella, il valore della poesia in momenti di difficoltà, come questo per noi: «La poesia nei tempi di crisi rivela una forza insospettabile e (riconquista) anche una necessità che s’impone da sola».
Chiudo con un breve ultimo estratto da TU IO E MONTALE A CENA, non prima d’aver ricordato un personal essay che Gabriella Sica ha pubblicato con Cooper nel 2015, CARA EUROPA CHE CI GUARDI 1915-2015, in cui un motivo sociopolitico come l’Unione Europea e la comunità dei cittadini del vecchio continente trova continue corrispondenze e motivi d’intreccio con la storia familiare e personale in eventi familiari e storici, e questo dà modo all’autrice di mettere a fuoco i temi a lei più cari sempre – l’amicizia di cui abbiamo detto, l’aggregazione degli amici attorno al desco e al poetare, la scrittura come strumento di comunanza e incontro.
SAGGETTO IN VERSI
Scriveva poesie nitide e precise
come i compiti a casa
con la calligrafia chiara
garbata da studente elementare
che sa la lingua della madre
[…]
Venivano dall’est i due poeti
salvi dagl’infami artigli della storia
celati nell’ortica
tra pubblicità e collages affilati
il tono scherzoso e familiare
salvi nei versi e nei paradossi
sapienti nella lingua del trauma
fedeli alla poesia di sbieco
inclini all’intelligente stupore
all’aforisma elusivo sradicante
al finale secco fulminante.