Vago nella casa con la testa vuota.
Luca se n’è appena andato con una borsa piena di vestiti. Non ha portato via tutto, solo quello che gli servirà per i primi giorni. Tornerà a prendere il resto, ha detto.
Vado in camera e apro l’armadio: le camicie sono quasi tutte al loro posto, ne mancano solo tre o quattro. Le giacche, la cravatta, sembra tutto uguale a prima.
Ma niente è uguale a prima.
Chiudo l’armadio e lo sguardo mi cade sul comodino. Sul ripiano, accanto alla sveglia, noto l’Omega Speedmaster di Luca. Deve esserselo dimenticato. Strano, è il suo orologio preferito.
Lo prendo e me lo rigiro fra le mani: è un bell’orologio, con il quadrante blu zaffiro, la cassa e il cinturino di acciaio, e il riquadro con le fasi lunari.
Conosco la gran parte delle caratteristiche tecniche di questo orologio, e anche la sua storia. Luca mi ha tormentato per mesi prima di comprarlo, ne parlava in continuazione, inondandomi le orecchie di informazioni e dettagli tecnici, come se a me importasse davvero qualcosa.
Ma lui faceva così con tutto. Tutto quello che interessava a lui, naturalmente.
Con lo Speedmaster aveva cominciato qualche mese prima del suo quarantesimo compleanno: voleva che fosse il mio regalo per lui. Io ero ben felice di accontentarlo, in fondo mi liberava dall’incombenza di cercare un’idea regalo originale, e quell’orologio, oltre ad essere molto bello, aveva pure una sua storia, è il modello che gli astronauti dell’Apollo 11 hanno portato sulla Luna, e pensavo sarebbe stato fico trovare un modello vintage risalente al 1969.
Solo che Luca è del ’70, e lo voleva di quell’anno.
“Ok”, dissi io, “tu trovalo su Ebay e lo pago io, se è questo il regalo che vuoi. Stiamo insieme da vent’anni, non è che ancora ti aspetti il regalo a sorpresa, spero!”
Rimanemmo d’accordo così. Per intere settimane frugò nel web alla ricerca del modello vintage datato 1970. Tutte le sere, sprofondato sul divano col portatile sulle ginocchia, il viso illuminato dalla luce azzurrina dello schermo, picchiettava sulla tastiera parlando fra sé e sé. Nemmeno rispondeva, se gli chiedevo qualcosa, immerso com’era nella ricerca del suo Santo Graal con quadrante zaffiro.
Dopo settimane di ricerca infruttuosa, alla fine si convinse di abbandonare la strada del vintage: “È uscito l’ultimo modello, prenderò quello”, dichiarò rassegnato.
“Va bene, andiamo in un cazzo di negozio e compriamolo”, proposi io, che di tutta quella storia già avevo le tasche piene da parecchio.
“Eh, no, se è un regalo deve essere un regalo!”, rispose lui.
Lui, quello che cambiava i regali anche se li aveva scelti da solo, e quando gli facevi presente che avevi girato tutta la città per trovare l’unico negozio che lo aveva disponibile si stringeva nelle spalle, e ti spiegava con dovizia di particolari i motivi, tutti logici e ovvi, per cui alla fine aveva cambiato idea.
“Ma non è meglio se vieni a sceglierlo?” insistei perciò, per evitare guai.
Prima disse di sì. Poi disse no. Poi “Magari il prossimo sabato”. Per intere settimane rimasi in sospeso in attesa della delibera del suo parlamento interiore.
Invece alla fine Luca non ne parlò più.
Era andato a comprarselo da solo.
E quando glielo vidi al polso mi sentii pure in colpa, e mi offrii perfino di rimborsargli il prezzo, perché avrebbe dovuto essere un regalo.
Pensa che scema.
Invece lui fece pure l’offeso. “Lascia perdere, mi regalerai qualcos’altro.”
Poco fa, invece, mentre mi elencava i motivi per i quali mi stava lasciando, la storia dello Speedmaster è diventata un vero atto di accusa.
Secondo la sua ricostruzione, che mi ha snocciolato come se stesse declamando una requisitoria di fronte al giudice di un processo penale, è pur vero che lui, come ha confessato con voce rotta e sguardo colpevole, mi ha tradito con la barista del locale sotto il suo ufficio, ma la colpa è mia che non lo amo più. E la prova evidente di questo assunto è costituita dal fatto che non gli ho regalato lo Speedmaster per il compleanno dei quarant’anni.
Colpa mia, e di questo stramaledetto Speedmaster.
Ce l’ho ancora fra le mani, bello e lucente con il suo quadrante blu zaffiro e il cinturino di acciaio, ottimamente conservato nonostante abbia ormai quattro anni: la prova evidente della mia colpa.
La mia mente va al rallentatore da un po’, da quando Luca ha esordito con la sinistra frase “Dobbiamo parlare”, due paroline semplici che hanno deflagrato come un ordigno nucleare lasciando solo macerie intorno a me.
Chissà perché, però, mentre i miei occhi seguono la lancetta dei secondi intorno al quadrante, anche i pensieri tornano a muoversi a velocità normale.
La lancetta non ha completato ancora il giro quando mi ritrovo in cucina.
Deposito con delicatezza lo Speedmaster sul tagliere di legno. Apro il cassetto degli utensili sotto il ripiano, e afferro il batticarne.
Comincio a colpire lo Speedmaster. Lo colpisco più volte, come se fosse una fettina di pollo da assottigliare, frantumando il vetro del quadrante, e poi le lancette, e quando cominciano a scappare via dalla cassa gli ingranaggi mi accanisco anche su quelli, godendo della sensazione di leggerezza che si sta impadronendo di me.
Vengo interrotta dal suono del campanello. Immagino sia il vecchietto del piano di sotto disturbato dai colpi sul tagliere, e poso il batticarne cercando di prepararmi una scusa.
Attraverso il soggiorno asciugandomi il viso dalle lacrime, perché mentre facevo a pezzi lo Speedmaster piangevo a singhiozzi come se stessi praticando l’eutanasia a un cane moribondo.
Pensa che scema.
Tiro un sospiro prima di aprire la porta, pronta ad affrontare le ire del signor Mancini, ma sul pianerottolo non trovo ad attendermi la faccia tonda e rubizza del burbero vicino, ma quella pallida e coperta di barba rossiccia di Luca.
Ha la stessa espressione di quando è andato via, poco fa. La faccia di uno che è stato costretto suo malgrado a fare una cosa che non avrebbe mai voluto fare. Di uno che non voleva, che non aveva nessuna intenzione di tradire la moglie, ma che è stato travolto da un crudele ed inevitabile scherzo del destino che l’ha condotto dritto dritto nel letto di un’altra donna, quella per cui mi sta lasciando.
“Scusa, ho lasciato qui l’orologio?” mormora mortificato.
“Quale orologio?” rispondo, cercando disperatamente di controllare il rossore delle mie guance.
“Lo Speedmaster. Mi sa che l’ho lasciato sul comodino.”
“Vado a vedere”, dico, e per sicurezza mi chiudo la porta alle spalle.
Non ho un piano, in verità, e chiudere la porta non mi dà molto tempo per pensarlo, perché nonostante abbia suonato, Luca ha ancora le chiavi di casa e potrebbe rientrare in qualsiasi momento.
Che fare? Fingere di non averlo trovato? O consegnargli i resti e vedere l’effetto che fa?
La scema, quella che è stata con lui vent’anni, che si è fatta venire il senso di colpa per non avergli regalato lo Speedmaster, e che tendenzialmente sarebbe perfino propensa a sentirsi davvero responsabile anche per il tradimento subìto, suggerisce di prendere tempo.
‘Potresti sempre andare a comprarne un altro, per sostituire quello che hai distrutto’, insinua, la scema.
Perché di fondo, in quei vent’anni, la scema ha sempre fatto così. Limitare al minimo i conflitti, evitare qualsiasi occasione di scontro, smussare, annullarsi, plasmarsi sulle esigenze di lui, sui suoi gusti, fino a dimenticare chi fosse lei veramente.
Perché quella paura fottuta di non meritarlo, di non essere abbastanza per lui, il terrore che un giorno se ne sarebbe accorto e l’avrebbe lasciata, quella scema ce l’ha avuta per vent’anni.
Ma adesso?
Ha limitato i conflitti, evitato gli scontri, ha smussato, si è annullata, e lui l’ha tradita e l’ha lasciata lo stesso.
Cosa fai quando la cosa di cui hai avuto paura per tutta la vita succede davvero?
La risposta la trovo in un attimo.
Quando riapro la porta, porgo a Luca il sacchetto per i surgelati nel quale ho raccolto i pezzi dello Speedmaster.
“Trovato!”
Il disappunto cancella dal suo viso quell’aria derelitta da vittima di uno scherzo crudele del destino.
“Ma che…” dice, poi si interrompe. Non vuole dare in escandescenze, non rientra nel suo piano, ma vedere il suo amato Speedmaster ridotto in pezzi è davvero troppo, e alle fine sbotta: “Che hai fatto? Lo sapevi che ci tenevo a quell’orologio!”.
“Già”, ribatto, “so che le cose a cui tieni tu le fai a pezzi, infatti pensavo di averti fatto un favore.”
Vorrebbe replicare, ma stringe le labbra, e ingoia le parole che stava per pronunciare. Si rende conto che, se vuole mantenere il ruolo di vittima degli eventi, deve prendersi quell’orologio e andarsene con la coda fra le gambe.
L’ho incastrato al suo stesso gioco.
Mi getta un ultimo sguardo carico di rabbia, mentre mi strappa il sacchetto con i resti dello Speedmaster dalla mano, e mi volta le spalle.
Chiudo la porta e mi guardo intorno.
Anche se la paura che mi ha tenuto compagnia per tutta la vita si è dissolta, già scorgo in lontananza le nuove in agguato.
Eppure, per un attimo mi sento solo libera.