Quando si è al secondo poeta già si avverte il tepore confortante della serie che ha ormai preso avvio. Con Alessandro De Santis, romano, anche lui giovane (nato nel 1976) e al suo quinto libro, confermiamo queste “uscite del mercoledì” dedicate alla poesia. E confermo anche l’intento di rovesciare un luogo comune che vuole che la poesia contemporanea sia ostica e incomprensibile, mentre si rende sempre più necessario farla conoscere per provare, versi alla mano, che esiste, e solo incontrandola, leggendola, avventurandosi in e con essa è possibile anche apprendere come decodificarla, riconoscendole, in ogni diversa voce, un codice e un dettato, e fornire così gli strumenti utili a entrare nel suo tessuto, anzi coprirci col suo tessuto, trovare in lei la nostra coperta ideale.
MURA AMICHE (Transeuropa 2019) di Alessandro De Santis è una raccolta a tratti struggente, e a suo modo enigmatica. È divisa in sei sezioni: Camera Oscura, Harri-Jasotze, Gli Eredi Del Vento, I Sensi Lunghi, Oltremura, Casa D’Altri – e l’idea che se ne ricava mentre si procede nei suoi molti ambienti è che essi compongano il corpo-fabbrica del nostro mondo conosciuto o più familiare. Siano cioè l’edificio metaforico dei nostri rapporti, la cartografia delle nostre vite, il documento delle nostre relazioni. Il nostro piccolo villaggio si compone man mano che entriamo ed esploriamo quelle case, e man mano che, uscendone, ci inoltriamo in molte altre. È questo entrare sostare e uscire che ci insegna la vita, verrebbe da dire. È questo nosgtro muoverci tra esse a fornirci cioè quelle esperienze e quegli incontri o incroci che ci cambiano, e ci fanno diventare noi stessi.
CAMERA OSCURA
La stanza d’ingresso:
anticamera del vissuto
primavera silenziosa
dieta.
La pura superficie:
nessun albero morto
hortus conclusus
alveare cucito
Nera come luce pura.
Sono macchie lisce
nessuna immagine o parola
perfetta assenza
le scale e una stanza
Sono nude vite,
mura amiche.
Come si vede da queste primissime parti della prima sezione c’è un chiaro andamento per liste o cataloghi che ha un suo valore vettoriale: ciò che è presentato appare inizialmente estraneo e ostile per poi capovolgersi in luogo illuminato e cuna familiare. Agisce, questo si coglie chiaramente, uno sguardo unidirezionale da fuori a dentro, da superficie a profondità: da ostilità a familiarità.
L’intera raccolta è dedicata alla madre, “sorridente pietra angolare”. Così come in una raccolta precedente, Metro C (Manni 2013), la dedica era al padre [A mio padre e al Cristo che non ha saputo essere].
Tra le due raccolte c’è una differenza notevole, principalmente nel dettato della scrittura.
Tanto Metro C aveva un tessuto e un respiro squadrato e denso, tanto qui, in Mura Amiche, tutto si è alleggerito e rarefatto. Resta comune la sensazione dell’inafferrabilità di un senso che possa essere invocato come la soluzione all’enigma della vita. Ma ora se possibile l’enigma ha spazio ancora più grande, si è allargata la leggerezza dell’approccio a ciò che è mistero, in sostanza, e non può che essere e restare tale – e in certo modo ciò che davvero il poeta ha accettato, questo si evince con forza e gentilezza insieme qui, è proprio che la vita in quel mistero consista e termini.
Da GLI EREDI DEL VENTO
Tagliere
Il giorno come l’anno inizia
con una domanda, un appetito
Ha fame la dama
che si muove a ritroso
Ha fame il palmo della mano
di pietre, di aghi di pino e nervoso
picchiettare
Lo sterno inciso del povero
tossico, soglia dipinta
di un ritorno, a pesca
nelle pozze più profonde
Chiodo
Il gambo
ficcato
nel muro
Metallo, riluce
la testa
Destinato a
tenere, a
innalzare
un quadro
un corpo
un’idea
fino a prova
. [contraria]
L’andamento versificatorio si è assottigliato al massimo e spesso tende anche ad accorciarsi, ad esaurirsi in giri di versi brevi o brevissimi. Ma nulla è escluso, neanche la prosa. A riprova della misteriosità che la scrittura rivela a ogni passo come sostanza accettata di vita. Le due sezioni centrali terminano ognuna con una prosa poetica (Sporcizia n.1 e n.2), a riprova del fatto che la casa [gli ambienti che abitiamo, e che qui si accatastano in edifici e borghi come metafora esistenziale, ma ancor di più sensoriale ed esperienziale] ha il suo prodotto, il suo rifiuto organico, secondo un ciclo che è peraltro alluso anche in un macro-percorso che implica il tacere e la genesi come silente ritorno.
Vorrei concludere questa mia lettura del libro di Alessandro De Santis con alcune suggestioni in cui ho riconosciuto altrettante tracce di testi e conoscenze che con Alessandro abbiamo in comune. A un certo punto emerge “un giorno di gioia”, come il romanzo dell’amico Aurelio Picca che aveva qualcosa di potente e magico. E poi “l’invincibile estate”, verso da una rara poesia di Albert Camus utilizzato per un romanzo relativamente recente dall’amico Filippo Nicosia. E addirittura, non ci crederete, “in che luce cadranno”, prelevato dai versi di Gabriele Galloni che abbiamo letto nella puntata precedente di questa rubrica. Poi a pag. 45 troviamo Tre Superfetazioni: è citato e nominato JD Salinger però si allude a Saffo e a Re David. Il mistero della vita, l’enigma della morte, il valzer delle presenze/assenze in cui si impiglia tutta la nostra conoscenza d’affetti e tutta la nostra ricerca di senso del nostro destino è un incanto lieve che questi versi raccontano con sorridente disarmo, conducendo un’indagine leggera che non ha pretese di verità però prova ad afferrare e trattenere brani di vita e a tenerci uniti. Un brano si insinua nel tessuto dei versi finali, “Washington / ma cosa vado a fare / non lo so”: mi pare evidente, è passato Lucio Dalla, “Porto giù l’umido, m’abbaia un cane”, conclude Alessandro De Santis.