Mentre il trauma ci lascia muti, il percorso per superarlo è lastricato di parole, assemblate con cura, una dopo l’altra, fino a quando l’intera storia può essere rivelata.*
Il trauma lascia muti, dice Van Der Kolk, e al trauma occorre dare parole se da quel trauma si vuole riemergere e guarire. Niente come la scrittura sa farlo. Aprire un quaderno per iniziare a scrivere è un atto di straordinaria potenza. Siamo noi, siamo soli davanti quel foglio. Non c’è il disturbo di un’altra persona che può ascoltare, fosse pure uno psicoterapeuta. Non c’è il timore che il nostro segreto sia violato o la vergogna per ciò che sentiamo di dover dire. C’è il foglio, davanti a noi, pronto ad accogliere tutto. Aspetta soltanto le nostre parole. Sarà silenzio, dapprima. Sarà voglia di andare via, di non provarci neanche. Poi però qualcosa succede. Le parole iniziano a fluire, diventano nastri di inchiostro, pagine piene. Man mano che le depositiamo su carta lasciano il nostro mondo interno e diventano qualcosa che è già fuori di noi. Sono parole, quelle che scriviamo, ma è anche tutto ciò che quelle parole vogliono significare. È questa la scrittura che ripara e guarisce, la scrittura che ci permette di mettere fuori di noi il trauma e il dolore, che ci permette di vedere tutto quanto avvenuto come qualcosa di finalmente estraneo da noi. Che ci permette di affrancarcene, e allontanarci. Può essere una scrittura solitaria, ma può anche essere una scrittura da fare in gruppo, insieme ad altre persone che come noi hanno un dolore da dimenticare, un trauma dal quale guarire, un’infelicità cui non voler più dare conto. Sarà comunque una scrittura che si prende cura di noi, una scrittura che ci consente di scrivere la nostra storia e riscrivere chi siamo.
* Van Der Kolk Bessel, Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina, Milano, 2015 – Cap. 14 La parola. Miracolo e tirannia, pag 265