Hai dodici anni e papà ti fa un regalo speciale: il giro dei parchi divertimenti più grandi d’Italia, da sud a nord. Tu e lui, soli. I maschi di casa in libera uscita a divertirsi per venti giorni. Ti senti grande e forte come papà.
La tappa speciale, la più desiderata, è il parco acquatico con lo spettacolo dei delfini. Ma fa caldo. Fa tanto caldo. Il parcheggio, la fila sotto al sole. Fa tanto caldo, ma nessuno dei due si lamenta, siete i maschi di casa.
Papà si siede un attimo, tu vai a vedere le vetrine di un negozio, entri un secondo. Torni per chiedergli 10 euro per il cappellino col logo del parco, ma papà è steso sulla panchina, fradicio di sudore. Prendi la bottiglia d’acqua dallo zainetto e gliela versi sul viso. Niente. Fermi un signore e lui chiama uno con la maglietta con scritto STAFF.
Speri di far in tempo a comprare il cappellino; forse è meglio chiamare la mamma, ma sta a casa, troppe ore di aereo per venire qui. La sigla del parco viene trasmessa a ripetizione e tu guardi la vetrina, non vuoi più il cappellino, meglio un ombrello bianco grande, per riparare te e papà dal sole. Come i cinesi al Colosseo, ieri mattina.
Tra le note della musica del parco emerge il suono di una sirena. Arrivano in tre con una divisa arancione. Uno di loro mette una fascia al braccio di tuo padre, e si infila delle specie di cuffiette nelle orecchie. Poi guarda gli altri due e dice “Due e cinquanta”. Due e cinquanta cosa? Mica sarà febbre. È tanto due e cinquanta? Che vuol dire? È stato il caldo? La colazione? Stamattina si era arrabbiato perché gli hai attaccato una lagna su quella maglietta che non volevi mettere. Sarà stato quello?
Sei preoccupato per tuo papà, sono preoccupati anche quelli dell’ambulanza e il ragazzo dello STAFF. Solo che non stanno parlando di tuo padre, sono preoccupati per te. Saranno mica stupidi: è lui che sta male e loro invece si preoccupano per te.
Carabinieri? Che c’entrano i carabinieri. Che abbiamo fatto? Dicono che non puoi salire sull’ambulanza con tuo padre. Non sanno a chi lasciarti. Papà si è svegliato. Grida. Urla a quelli che si sente bene e che adesso andrete via. Lo fermano, gli parlano, gli dicono che sta male, che non può andarsene in giro con la pressione a 250; insieme a te, poi. Alla fine salite tutti sull’ambulanza, papà si calma. E tu hai paura.
Se avessi l’ombrello o anche il cappellino andrebbe meglio, ma hai solo lo zaino di tuo padre, che è pesante e non puoi lasciarlo da nessuna parte perché dentro ci sono le chiavi della macchina, il portafoglio, tutto. Tranne un pigiama. Tua mamma una volta è andata in ospedale e nella borsa aveva messo il pigiama.
Il giro in ambulanza è breve e tutti continuano a parlare di te. Una di loro è al telefono, sembra che qualcuno la stia sgridando. Lei risponde che non c’era tempo di aspettare i carabinieri. Allora eravate scappati? Ma che avevate fatto? Nel negozio eri entrato da solo ma non avevi toccato niente.
Arrivati! Portano dentro papà e ti lasciano in sala d’attesa con quella tizia dell’ambulanza.
Ti guardi intorno, ci sono due vecchie che fissano le mattonelle e un ragazzo col ciuffo che gioca al cellulare. La ragazza dell’ambulanza ti guarda e sorride, ma è preoccupata. Papà non la conosce, non conosce nessuno di quelli, sta dentro e non ti vede.
Uscirà mai da lì? Perché i bambini non possono entrare? È un posto brutto? Ci sono quelli con la pancia tagliata e lo stomaco di fuori, quelli con la testa spaccata e le pallottole nel cervello? Ci sono i morti? Sarebbe bello poter entrare a vedere, ma tu sei lì fuori, cerchi di non toccare niente, come dice mamma quando ti porta a fare le visite in ospedale, perché ci sono i germi sulle sedie e sulle maniglie. Dice anche di essere coraggioso. Ogni volta che ti ha portato in ospedale, per una visita o per le analisi del sangue, ti ha detto di fare l’ometto e di non avere paura dei dottori. Ma adesso è papà che sta lì dentro e lo staranno tagliando tutto, o forse è già morto. Mamma non c’è, papà non può vederti e non sei tu che devi visitarti. Allora forse puoi piangere.
Sì, piangi.
Ti guardano tutti, ma tanto tu non li conosci. La ragazza sembra spaventata più di te. È giovane, sicuramente non ha figli, forse solo una sorella, forse pure più grande di lei. Di sicuro non sa come si parla a un maschio di dodici anni che stava in vacanza tra uomini col padre, e che ora invece piange come il gattino sotto la pioggia.
Una delle due vecchie ha cambiato posto, si è messa vicino a te e ti allunga un fazzoletto. Ti fa quelle domande da vecchia: come ti chiami, quanti anni hai e alla fine dice che bel nome; anche se da quel momento in poi ti chiama tesoro perché non ha capito come ti chiami.
L’unico a fare una cosa intelligente è quello col ciuffo. Va alla macchinetta e ti prende un pacchetto di Oreo al cioccolato nero. Ti dice che in Perù ha un fratello della tua età, che vede solo su Skype.
Mentre lui parla, la ragazza telefona e la vecchia ti accarezza i capelli e ripete povero tesoro, mentre tu apri soddisfatto il secondo pacchetto di Oreo, senza mamma o papà che ti parlano del dentista.
Ti viene quasi da ridere, ma in quel momento entra una signora che cammina male sui tacchi.
Dice di essere un’assistentesociale. Aggrotti le sopracciglia. Quella parola l’hai sentita dire da tua madre, mentre raccontava a papà che al telegiornale avevano parlato degli assistentisociali che falsificavano i disegni dei bambini per portarli via dai genitori.
Eppure quella lì ti pare simpatica. Anzi, no; buffa. Sembra buffa.
Ripete che queste cose succedono e tu pensi che stia scherzando. Come fanno a succedere cose del genere? In vacanza? A due maschi in libera uscita per venti giorni in giro per l’Italia? Ne ha viste spesso di situazioni come queste? E chi è? Un personaggio di qualche serie tv?
L’unica cosa interessante è che ha visto papà, dentro, al pronto soccorso. Dice che sta meglio e che vuole subito uscire e venirti a prendere. Però il dottore è ancora preoccupato che possa sentirsi male di nuovo. Non fa niente, avevi capito che bisognava aspettare. Meno male che c’è Ciuffo che prende le merendine alla macchinetta.
L’assistentesociale però comincia a fare un discorso strano. Dice che tra poco andate a pranzo in una specie di albergo. E quando dice “albergo” solleva gli indici e i medi per fare i segni delle virgolette, come la prof quando dice che i writers possono essere considerati artisti tra virgolette.
Anche la vecchia sembra preoccupata, forse anche lei ha sentito il telegiornale. Dice che ti vorrebbe portare a casa sua, povero tesoro. Ma no, devi andare in questo “albergo” dove ci sono altri bambini. Che bambini? Di quanti anni? Ci sono maschi? Anche loro hanno i genitori all’ospedale?
Si può non andare e restare ad aspettare papà? Guardi Ciuffo e speri che ti sorrida. Invece no.
L’assistentesociale dice che esiste una legge secondo cui non puoi rimanere da solo nella sala d’aspetto del pronto soccorso. Che legge? Sembra un po’ scocciata, ma ti risponde: articolo 403.
Questa volta, senza volerlo, ricominci a piangere.
Stanno tutti intorno a te. Dicono che papà verrà a prenderti stasera, al massimo domani, quando il dottore lo farà uscire. Vi sentirete per telefono.
“E se muore, con chi sto?” L’assistentesociale risponde che nel caso chiamerebbero mamma; e poi non morirà. Ma come fa a saperlo?
Hai salutato tutti i tuoi amici della sala d’attesa del pronto soccorso. Ciuffo chiede dove ti portano, vorrebbe venire a trovarti, ma l’assistentesociale risponde che non può dare questa informazione perché è una struttura protetta. Tutti allora la guardano storto. Forse è per questo che sembra buffa.
Sei in una macchina con due sconosciuti che non ti dicono dove ti stanno portando. L’assistentesociale parla di parchi divertimenti, ti chiede mille cose e tu cerchi di sembrare grande e tranquillo, per non farti fregare. L’autista invece guida e non parla. Non si arriva mai. Dicono che c’è traffico, ma no, è proprio il posto che è lontano.
Albergo con le virgolette, bambini, suore. È un orfanotrofio! Allora papà è morto! Aiuto! Fermate la macchina!
Invece ti squilla il telefono è tuo padre che ha la voce debole ma è vivo. Dice le stesse cose dell’assistentesociale, ti chiede scusa per quello che è successo. Gli rispondi che non deve preoccuparsi e che appena esce proseguirete il giro dei parchi. E bisogna riandare a Zoomarine, perché la giornata di oggi non vale.
Si apre un cancello automatico, vedi un grande giardino e una quindicina di bambini, appena rientrati dal mare, che stendono gli asciugamani tutti in fila. Una suora anziana si avvicina e ti fa le domande: come ti chiami, quanti anni hai e alla fine dice che bel nome.
“Tesoro veni a mangiare.”
E tu pensi che quando papà verrà a prenderti stasera, o domani, ti troverà così cresciuto che ti abbraccerà e si metterà a piangere. E allora l’uomo di casa dovrai farlo tu.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.