Fistful of Love

Al funerale di un amico di scuola riaffiorano vecchie sensazioni, vecchie scazzottate e amori tenuti segreti. Un racconto di Elvira Spuntarelli

Entro piano, tagliando per un attimo il fascio di luce che dalla porta spalancata, rompe prepotente, il buio secolare di questa chiesa. Mi inginocchio, mentre sta entrando il feretro, accompagnato dai familiari più intimi. La mamma anziana, ancora bella, si tiene dritta ed è lei a rassicurare la nuora, che dietro gli occhiali scuri, cerca di nascondersi la propria disperazione. La sorella col sorriso spento, cammina accanto al marito. Raggiungono l’altare e tutto ha inizio.

Seguo le indicazioni del parroco e quando sono in piedi li vedo. Nelle prime file riconosco qualche volto dei nostri compagni di classe, cerco meglio le loro facce adolescenti negli adulti di ora, e li ritrovo, un appello letto da un vecchio registro indicherebbe il presente per tutti, forse invecchiati, ognuno sembra aver conservato il proprio intimo spirito.

Eugeni. Intelligenza lucida, al servizio del suo profitto e in aiuto degli altri. Rivolta, mi ricordo la tasca del suo eskimo occupata da una copia de “L’Unità” e Fascetti con cui era arrivato a cazzotti per la divergenza delle idee politiche.

Faccio per raggiungerli, mi sposto verso la navata, mi fermo, solo un attimo e poi torno al mio posto. Preferisco guardarli da quaggiù, come feci in classe, nell’ultimo mese.

Santi, bella, ambita da tutti, rimasta a osservare il passaggio della vita, dalla sua torre d’avorio. Gioia, lo stesso sorriso di allora, ma con la spensieratezza, mutata dal tempo, in serenità adulta.

A ogni sguardo ne scopro uno e riemerge quell’episodio che lo aveva contrassegnato dai tempi del liceo fino ad oggi.

La funzione prosegue e la commozione ha il suo apice quando sua sorella sale sull’altare a raccontare di lui, della sua devozione per la famiglia, di come amasse la moglie, di come fosse un punto di riferimento sul lavoro, per i suoi studenti, ma soprattutto per i pazienti, che era uno sportivo, che teneva al corpo e allo spirito e come sia ingiusto che la sua vita sia finita così presto.

A quelle parole mi salgono magone e ansia, per strapparmela da dosso, mi faccio una pasticca che però non allontana i ricordi.

Era arrivato in secondo, i genitori trasferiti per lavoro. Se ne stava da solo e fui il primo di tutti a intuirci un amico. Non amava mettersi in mostra, però era brillante e generoso. Lui e Eugeni facevano a gara su quante “pippe” riuscissero a salvare dalle insufficienze o dalla bocciatura, – eh sì perché a parte loro due e qualche ragazza, il resto era la morte civile dello studio. «Siete una massa di nullafacienti» ci diceva sempre il professor D’Ambrosio, calcando quel “cie” alla meridionale.

Marelli fu il miracolato del terzo anno, era appassionato di motori, i pomeriggi a casa sua cominciavano sui libri e finivano in garage a guardarlo armeggiare con le mani sporche di grasso, mentre smontava motorini di mai chiara provenienza.

Boni era stata la protagonista della settimana bianca in quarto. Moon Boot fosforescenti e niente slip sotto la tuta da neve. Si diceva che la desse a tutti, ma a parte uno stile di discesa impareggiabile e l’ubriacatura da bombardini dell’ultima sera, di lei nessuno ricordò nulla. I suoi occhi da gattona furono solo per lui. Tornati si misero insieme, ma non durò molto, la lasciò per Carli.

Avevamo iniziato il quinto studiando sempre insieme, solo noi due, nessun altro, studiavamo e poi uscivamo in vespa e quando non ci vedevamo ci sentivamo al telefono, ci aggiornavamo sulle pagine di filosofia, sugli esercizi di matematica dal risultato incalcolabile, sulle curve di trigonometria e su quelle delle ragazze. Ci raccontavamo i segreti che contribuiscono a rendere tangibile la parola amicizia, provavamo ad attraversare insieme l’adolescenza. Lui sempre avanti, con piglio sicuro ma senza smargiassate e io che cercavo di stargli dietro.

Fu anche l’anno dei gemelli Ferretti, identici, scambiandosi l’identità si facevano trovare sempre preparati, schiappe in matematica passavano le versioni di latino a tutta la classe, un po’ le copiavano, da qualche fonte sconosciuta e un po’ le facevano loro. Lui ed Eugeni, si tiravano sempre fuori da questa truffa organizzata, «Se vi secca D’Ambrosio son cazzi».

E poi arrivò Carli.

Guardo sua moglie. Non è riuscita a reggere oltre. In ginocchio, la testa completamente abbandonata sulle braccia appoggiate al banco, sussulta di singhiozzi, sua cognata le accarezza la testa. Una donna elegante, sempre controllata ricca di charme e portamento, una degna compagna per il professore, mi raccontava Eugeni, all’inizio della sua carriera universitaria. Che grossa pena mi fa vederla così. Che grossa pena che mi facevo io.

Carli lo aveva fulminato con quell’aria da innocentina bisognosa. «Ha un fisico atletico, mascolino, ma quel culetto mi manda al manicomio», mi diceva, guardandola in palestra con la bava alla bocca. Quanto era ridicolo. Ridicolo e innamorato, a me riservava soltanto i ritagli, «Lucia domani ha interrogazione», «Lucia deve recuperare nello scritto di Latino», «Lucia ha litigato col padre», «Lucia stasera dorme a casa mia, ma che scopiamo! Ma che sei scemo! No, lei non vuole farlo ancora, dorme in camera di mia sorella». ‘Sta stronza. Lo teneva sulla corda, lo illudeva unicamente per farsi aiutare e lui con la fantasia di “quel culetto” le stava dietro come un segugio, un vero zerbino. Io per non pensarci studiavo e studiavo, sempre da solo, non uscivo più, non facevo più un cazzo, tanto che, tutti gli altri iniziarono a chiamarmi “l’orso”. Né passeggiate, né cinema, né birra, né gelato, niente di niente, se non potevo stare con lui, preferivo stare solo. Finché non venne l’occasione dei cento giorni. I miei compagni avevano organizzato tutto e raccolto i soldi facendo una colletta a scuola. Boni aveva una casa a Ostia, saremmo andati col trenino e tornati in serata, ci misero un po’ ma mi feci convincere. Partimmo carichi di roba tra cibo, teli e altri oggetti per il mare. Mattinata in spiaggia tra beach volley, bagni e buche come i ragazzini, ci divertimmo un casino. Io stesso organizzai una sorta di “giochi senza frontiere” da spiaggia, maschi contro femmine. Lui era lì, accanto a me, ridevamo e a ogni vittoria, ci abbracciavamo stretti, nella sabbia, sotto il sole di inizio estate, respirando l’odore dell’adolescenza. Ero felice. Ci interruppe prepotente la fame. Tornammo a casa e organizzandoci come meglio potemmo con le docce, cominciammo a darci sotto tra carbonella e salsicce, girò del vino rosso che aiutò tutti a sciogliersi di più. Facevamo avanti e indietro tra il giardino e la casa. In uno dei miei rientri alla ricerca di qualcosa, trovai lui e Carli sdraiati sul divano, si stavano baciando. Lei di schiena alla porta, lui le accarezzava la testa, passando le dita tra i capelli, attraversava il collo, la linea delle spalle, scendeva lungo la schiena piano, fino ad arrivare dove il costume segnava il confine con la parte agognata del corpo di lei. Ridacchiava, la zoccola, mantenendo le braccia inchiodate lungo i fianchi, non ci provava nemmeno ad abbracciarlo. Lui proseguiva. Le dita attraversavano il confine, con delicatezza, sotto il tessuto riconoscevo il passaggio della mano che si spingeva sempre più in basso. Pur rivolto verso di me, dalla mia posizione non poteva vedermi, io però vedevo lui, guardavo i suoi occhi lucidi di eccitazione e come la baciava, guardavo la sua mano avventurarsi ancora più giù e muoversi, immaginavo quella delicatezza e la sua sapienza. Ebbi una erezione. Continuai a guardarlo mentre cercava di smuovere quel pezzo di legno che ridacchiava, dentro di me gridavo «E prendiglielo in mano, stronza!» e con rabbia e desiderio cominciai a fare su di me quello che avrei voluto fare a lui. Quelle mani sempre curate e pulite, che tante volte avevo osservato impugnare una penna, che mi avevano abbracciato e picchiato per gioco, le avevo guardate tante volte, a lungo, senza osare immaginare nulla, ora erano lì che si muovevano sensuali senza ottenere nulla, mentre io mi masturbavo come un deficiente.

Un rumore, o il mio respiro, oppure solo la sensazione della mia presenza, spostarono gli occhi di lui nei miei e poi verso le mie mani. «Che cazzo fai brutto porco?». Lasciandola sul divano a ricomporsi, si alzò in preda ad una rabbia febbrile e cominciò a spingermi fino a che, retrocedendo, arrivai con le spalle al muro. Rimanevo impassibile, guardandolo fisso in faccia. Mi fissava anche lui bloccandomi le spalle con le stesse mani che prima cercavano il piacere. «Che facevi eh?». La voce saliva di rabbia e di tono, stridula. «Che facevi? Parla!». Il mio sguardo non crollava dai suoi occhi e quella fierezza che non avevo mai avuto lo disorientava. «Sei una merda! Non hai manco il coraggio di farti vedere, sei il peggiore dei bavosi guardoni». Cominciò a schiaffeggiarmi, sempre più forte. «E il tuo di coraggio dove sta? ». La mia frase inconsapevole lo fermò un attimo e poi gli fece partire un pugno verso il mio stomaco che mi piegò in due, mi spinse a terra e iniziò a prendermi a calci con sempre maggiore violenza finché, finalmente, mi si buttò sopra, pensando di colpirmi con maggiore efficacia. Era sudato, la maglietta incollata al corpo la sentivo addosso come fosse la mia. Il suo odore annusato in tanti pomeriggi di compiti insieme, ora era più acceso dal desiderio sessuale di prima e dalla rabbia di adesso. Gioivo del contatto, forte di emozioni, mi picchiava e lo vedevo piangere.

I primi a rientrare ci si fecero intorno e scambiando il mio abbraccio per un tentativo di difesa, mi incitavano a rifarmi, a prendere il sopravvento. Rientrò Eugeni. «Ma che fate coglioni? C’abbiamo pure il tifo». Si piegò verso di lui e afferrandolo dalla vita, me lo portò via. Qualcuno allungò un braccio verso di me, per fare bella figura aiutandomi, ma io sanguinante lo allontanai, rialzandomi da solo. «Quel porco guardone se le merita». Carli andò a baciare il suo finto salvatore che mi guardò per l’ultima volta.

Raccolsi le mie cose e me ne andai. Non mi videro più in giro. In classe cambiai di posto con l’ultima fila. Seguivo le lezioni e lavoravo sodo, senza avere relazioni con nessuno di loro. Mi limitavo a guardarli da lontano, proprio come ora.

Presi cinquantotto, il sessanta lo presero lui ed Eugeni, il resto fu una manciata di voti bassi.

Sta finendo. Mi metto in un angolo, non voglio che mi vedano. Eccolo Eugeni, l’unico con cui ogni tanto mi sento e che mi ha avvisato appena ha saputo.

Con lui ho perso ogni contatto.

In questi lunghi anni ho ripensato spesso al groviglio dei nostri corpi stretti nella lotta, rivivendo ogni istante, ogni pugno, ogni sospiro con la stessa disperazione di una canzone di Antony and the Johnsons.

We live together in a photograph of time
I look into your eyes
And the seas open up to me
I tell you I love you
And I always will
And I know that you can’t tell me
And I know that you can’t tell me
So I’m left to pick up
The hints, the little symbols of your devotion
So I’m left to pick up
The hints, the little symbols of your devotion
I feel your fists
And I know it’s out of love
And I feel the whip
And I know it’s out of love
I feel your burning eyes burning holes
Straight through my heart
It’s out of love
It’s out of love 

La stessa disperazione di qualche giorno fa quando ho capito che non ci saremmo più potuti spiegare cosa fosse veramente l’amore.

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Elvira Spuntarelli

Nata di 13 settembre, per lavoro fa l'analista informatica ma le sue passioni sono altre: Elvira ama leggere, scrivere, nuotare. Scrive da sempre, ha partecipato a diversi concorsi e i suoi racconti sono inclusi in alcune raccolte; appena avrà raggiunto un pizzico di coraggio in più, ne pubblicherà una tutta sua. Dice del suo rapporto con la scrittura: "Mi fa sentire chi sono veramente, quando mi sporco le mani con le parole e vado veramente in fondo ritrovo la mia me più piccola e vera".

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